Come tutti possono facilmente immaginare, la preparazione di questa giornata è iniziata un bel po’ di tempo fa, quindi da un bel po’ di tempo io so che avrei dovuto intervenire oggi, per trattare questo tema. Nonostante questo, fino a ieri non sapevo esattamente che cosa avrei detto. Ovviamente, mi capitava di tanto in tanto di pensarci e di provare mentalmente a costruire uno schema degli argomenti che mi sarebbe piaciuto affrontare, ma non mi sono mai presa il tempo di provare ad appuntarmeli o di scrivere qualcosa. Lasciavo che le idee, che ogni tanto mi si affacciavano alla mente, fluttuassero in libertà, che si presentassero e si ritirassero, che si combinassero con altre e si modificassero.
Non credo di averlo programmato consapevolmente, ma in un certo senso è come se avessi deciso di dedicare a questo compito una sorta di attenzione distratta e un po’ sorniona, che non voleva cercare attivamente le idee e le parole, ma cercava piuttosto di prepararsi ad accoglierle, sperando che si presentassero da sole. Anche senza averlo deciso e programmato, mi sono comportata in modo da tenere una piccola area della mia mente come se fosse uno spazio libero per questo tema, dove le idee e le suggestioni che nascevano spontaneamente andavano a, depositarsi, per riservare soltanto alla fine il compito di andare a controllare, questa volta in modo più vigile e accorto, che cosa si era accumulato, per scegliere che cosa tenere e come organizzarlo. In verità, ad organizzarlo non sono riuscita granché, per cui il mio intervento è più una collezione di pensieri sparsi che una relazione organica e coerente. Il titolo Venticinque anni per crescere fa pensare a un discorso che descrive e chiarisce i cambiamenti che sono intervenuti in questi venticinque anni; io mi limiterò invece a suggerire qualche riflessione su alcuni aspetti che mi sembrano importanti, e che hanno a che fare soprattutto con lo stile di lavoro, lasciando momentaneamente tra parentesi i cambiamenti che sono intervenuti nei modelli organizzativi.
La prima riflessione ha qualcosa a che fare proprio con il modo in cui io ho costruito questa specie di relazione e riguarda la tolleranza dell’incertezza: credo che il modo di stare con i bambini nel nido oggi somigli in qualcosa a quella pur piccola esperienza che ho sommariamente descritto. Sappiamo tutti che il nido ha avuto bisogno di tempo per essere riconosciuto come un servizio che svolge un ruolo educativo. Oggi, quella che anni fa è stata quasi una battaglia ideologica, fa persino sorridere per la sua ingenuità: non si può evidentemente non esercitare una funzione educativa, quando ci si occupa di bambini ogni giorno, per diverse ore al giorno; se mai si potrà discutere se svolta bene o male. Mettere in dubbio la funzione educativa del nido era in realtà un grossolano errore concettuale, che offendeva i bambini molto più di quanto offendesse il nido perché metteva in dubbio le loro capacità di fare esperienza e di elaborare la propria esperienza.
In ogni modo è un dato di fatto che le posizioni critiche rispetto al pensare il nido come servizio educativo, anche se adesso ci fanno sorridere, al tempo degli inizi erano abbastanza diffuse e per difendersi il nido ha dovuto attrezzarsi. Col senno di poi, vorrei dire che quelle posizioni critiche si sono rivelate tutto sommato un grande vantaggio, perché ci hanno costretti a un notevole impegno per acquistare un’identità chiara e riconosciuta. Forse quell’impegno non sarebbe stato altrettanto forte e efficace, se non avesse dovuto affermarsi contro scetticismi e critiche e dubbi, e per un certo tempo anche una relativa ostilità, credo abbiano giovato, anche se hanno creato qualche difficoltà e hanno provocato non pochi momenti di crisi; come sostiene la saggezza popolare: “non tutto il male viene per nuocere” il bisogno di acquistare credibilità ha dato agli operatori una ragione in più per crescere, un motivo in più per costruire una professionalità, che forse altri tendono invece troppo spesso a dare per acquisita.
Direi che il primo strumento che il nido ha usato per tentare di affermare la propria identità di servizio educativo è stato quella della programmazione. È senz’altro vero che la programmazione è uno strumento indispensabile in un servizio educativo, ma come tutti gli strumenti non è immune dal rischio di un cattivo uso: il cattivo uso della programmazione il più delle volte consiste nel farne uno strumento per controllare l’Incertezza. Si programma certamente per sottrarre il lavoro educativo al rischio dell’improvvisazione, della casualità e dell’incoerenza, ma nello stesso tempo si rischia, programmando, di chiudere, anche involontariamente gli occhi e la mente, alle risposte dei bambini e al variare delle condizioni. È un rischio che credo abbiamo conosciuto tutti: quando dedichiamo tempo ed energie ad elaborare un buon programma di lavoro, pieno di buone intenzioni in merito allo sviluppo dei bambini, è relativamente facile poi, nell’attuazione di quel programma, finire per registrarne soprattutto gli aspetti positivi e non vedere o sottovalutare, in assoluta buona fede, le discrepanze. Se la programmazione è una buona programmazione, e dobbiamo pensare che lo sia, perché l’abbiamo costruita con cura e con attenzione, là dove non funziona, ad esempio certi bambini non partecipano, sembrano disinteressati e incestanti, quasi inevitabilmente si rischia di pensare che in quei bambini c’è qualcosa che non va, sono troppo vivaci o troppo spenti, svogliati o esuberanti, troppo stimolati o troppo poco stimolati in famiglia. Questo è un cattivo uso della programmazione, ma credo che su questo piano il nido abbia imparato molto dall’esperienza con i bambini. Credo abbia imparato che ai bambini si può dare credito e che senza rinunciare ad essere adulti possiamo lasciarci guidare da loro.
Questo è quello che io chiamo “tollerare l’incertezza”: accettare di non sapere esattamente che cosa fare, perché è dai bambini che dobbiamo essere capaci di raccogliere il suggerimento giusto perché riconosciamo a loro prima che a chiunque altro la facoltà di farci capire dove bisogna andare e come arrivarci. Non è, anche se lo può sembrare, un’affermazione paradossale e non è neppure un principio ideologico o l’utopia del buon selvaggio e del ritorno alla natura originaria e non contaminata dai condizionamenti sociali. Al contrario è un principio molto concreto e niente affatto rinunciatario, che non significa per nulla abdicare al ruolo di adulti e di educatori, in favore di una supposta anarchia infantile.
Non sono del tutto sicura di saper esprimere fino in fondo tutto il significato del cammino che il nido ha percorso su questo piano, ma vorrei provarci, perché davvero sono convinta ‘che si tratti di un cammino molto importante. Sottolineo il tema della programmazione, perché mi sembra davvero emblematico. All’inizio della vita del nido, e per parecchi anni ancora, la programmazione era sostanzialmente l’elenco delle cose che ci si proponeva di fare; confezionato più o meno bene, con un linguaggio più o meno colto, descriveva che cosa gli adulti si impegnavano a fare per favorire lo sviluppo dei bambini, che in genere veniva qualificato come uno sviluppo sereno ed armonico. Ma al di là della terminologia, da tutta l’impostazione emergeva l’immagine di un gruppo di adulti che sapevano che cosa i bambini dovevano imparare a fare e sapevano come trasmettere loro questo sapere, guidandoli lungo un percorso che aveva le sue tappe predefinite; quel che si riconosceva ai bambini, e che gli adulti si impegnavano ulteriormente ad osservare, era al massimo la facoltà di far rallentare o accelerare quel percorso: la strada era segnata, ma le verifiche periodiche, l’osservazione dei comportamenti dei bambini potevano produrre variazioni rispetto ai tempi stabiliti. Oggi credo che la programmazione, indipendentemente dalle parole con cui viene espressa, abbia un significato profondamente diverso; rappresenta lo strumento attraverso il quale gli adulti definiscono e concordano quali sono le condizioni che vogliono e possono creare affinché ogni bambino trovi da sé la propria strada. L’esperienza ci ha insegnato che non possiamo avere la presunzione di sapere per ciascun bambino che cosa è opportuno fare, mentre sappiamo abbastanza bene come possiamo fare in modo che ciascun bambino scopra che cosa ha bisogno di fare e trovi ciò che gli serve per farlo davvero. Abbiamo capito, credo, che possiamo fidarci della capacità che hanno i bambini di scegliere le cose da fare e nello stesso tempo che è compito degli adulti fare in modo che i bambini scelgano davvero. I bambini infatti possono scegliere solo se vengono loro assicurate almeno tre condizioni.
La prima è che devono sentirsi rispettati, devono sentire cioè che gli adulti che si occupano di loro pensano a loro e li pensano individualmente; nel pensiero degli adulti non c’è uno spazio generico per il gruppo dei bambini, ma uno spazio particolare per ciascun bambino. Solo l’educatore che è capace di pensare ogni bambino singolarmente, è capace di creare le premesse perché ogni bambino trovi davvero la sua strada. Verrebbe la tentazròne di dire che ogni bambino per poter scegliere ha bisogno di sentirsi amato, ma la parola “amore” è una parola troppo ambigua, sulla quale è facile equivocare: penso che gli educatori debbano amare i bambini, e che nel tempo abbiano imparato a farlo, ma con una forma di amore che non lasci spazio al sentimento incontrollato, a un’affettività istintiva che rischia di diventare invadente. Il genere di amore che gli educatori possono e devono permettersi è quello che sa tenersi in disparte, quello che è fatto soprattutto di attenzione, della curiosità e del piacere di conoscere quel bambino in tutte le sue caratteristiche, perché anche conoscere l’altro e riconoscerlo nei suoi comportamenti, facendo attenzione a vederlo sempre come altro da sé, separato e distinto, è una grande forma di amore.
La seconda condizione ovviamente è che la possibilità di scelta esista davvero, sul piano concreto, come opportunità tra opzioni diverse, ma anche in termini di “pari dignità” delle scelte che i bambini fanno. Una possibilità di scelta in fondo è sempre esistita, perché nessuno è in grado di obbligare un bambino a fare qualcosa che non desidera fare. Ma riconoscere a un bambino la facoltà di non fare, o di dedicarsi a qualcosa di diverso da quello che l’educatore ha programmato di fare, non è vera scelta, perché rischia di essere sperimentata dal bambino come inadeguatezza, come emarginazione dal gruppo; può rappresentare un rifiuto che il bambino fa, apparentemente in piena libertà, ma rifiutare spesso equivale a sentirsi rifiutati. È un sentimento che sperimentiamo anche da adulti, quando ad esempio rifiutiamo un invito o una proposta, perché magari non ci piace molto il contenuto della proposta, ma talvolta un poco anche perché ci sembra che chi ce l’ha avanzata non ci tenga in grande considerazione, non abbia particolarmente a cuore la nostra partecipazione e non si sia dato da fare abbastanza per trovare qualcosa che corrisponda davvero ai nostri desideri; rifiutare allora è un modo per tirarsi da parte, e contiene implicita una punta di amarezza.
Mi sembra quindi che fidarsi dei bambini voglia dire credere davvero che loro sanno scegliere, e quindi fare in modo che sempre siano possibili opzioni diverse, che gli adulti predispongono e sanno offrire e presentare, riconoscendo all’interno di ciascuna un potenziale di sviluppo che i bambini sapranno mettere a frutto. Forse sono noiosa e pedante, ma insisto su questo perché sono veramente e profondamente convinta che tutta la sostanza del processo di maturazione, che i nidi hanno fatto in questi anni, si riassuma in questo: abbiamo cominciato ad imparare ad avere fiducia nei bambini, abbiamo cominciato a capire, concretamente, nei gesti abituali della vita quotidiana, e non soltanto nelle frasi fatte e nelle dichiarazioni di intenzioni, che sono i bambini i veri artefici del loro sviluppo, e che se noi sappiamo adeguare il nostro comportamento a questo principio, tutto funziona molto meglio. E questo è appunto ciò che all’inizio ho definito come la capacità di tollerare l’incertezza, adattarsi ai suggerimenti dei bambini, sviluppando tutta l’attenzione possibile per coglierli e decifrarli.
La terza condizione, perché i bambini possano scegliere davvero ha a che fare proprio con l’attenzione. Infatti non basta che ogni bambino senta che l’educatore ha a cuore proprio lui e il suo benessere, e non basta neppure che sappia organizzare le situazioni in modo da garantire sempre opportunità differenziate, occorre ancora che queste opportunità siano appropriate, contengano elementi interessanti, possano essere sperimentate con piacere e con impegno, possano aprirsi a variazioni, possano facilitare le relazioni con i compagni. Nessun educatore, per quanto esperto, può sapere a priori quale configurazione degli spazi o quale proprio comportamento contengano in sé queste caratteristiche, combinate in modo efficace per quei bambini determinati. Ancora una volta, possiamo contare soltanto sulle indicazioni che i bambini ci danno ma dobbiamo imparare a decifrarle, perché ovviamente non possiamo fondarci solo sulle parole, anche se le parole possono essere importanti. È questo che io chiamo attenzione, un’attenzione particolare per ciascun bambino, che sia capace non soltanto di osservare quello che fa, come si muove, quali giochi sceglie e come li usa o con quali compagni preferisce stare, ma che sappia comporre insieme e mettere in relazione tutti questi elementi. Infatti è solo il quadro di insieme che ci permette di decifrare il comportamento di un bambino e ci fornisce gli indizi sulle opportunità che dobbiamo predisporre per lui, e come possiamo offrirgliele, affinché lui a sua volta possa utilizzarle, traendone il massimo vantaggio. In questo senso la parola “attenzione” mi piace di più della parola osservazione, perché mi sembra descriva un atteggiamento, uno stile di lavoro, che resta costante e presente in ogni momento della giornata, mentre il termine “osservazione” fa pensare piuttosto a momenti specifici e programmati. L’attenzione è un’attitudine e il suo significato è quello di tenere sempre aperto, nella mente dell’educatore, uno spazio per ciascuno dei bambini che gli sono affidati. Un’attenzione vigile, ma nello stesso tempo leggera, accurata e nello stesso tempo garbata, non intrusiva, che tiene d’occhio quasi senza accorgersene, perché è diventata parte del comportamento normale e non ha bisogno di un’intenzione dichiarata o di un oggetto specifico: sono convinta che sia soprattutto questo genere di attenzione che permette agli educatori di vedere davvero i bambini, perché è soprattutto questa attenzione, voluta e cercata con l’addestramento, ma diventata abitudine con l’esperienza, che permette la sorpresa, che consente a chi guarda di cogliere le piccole variazioni, i dettagli del comportamento, quei particolari che fanno davvero la differenza. L’attitudine a guardare con leggerezza, anziché dover ricorrere a osservazioni complicate, mi sembra un altro dei risultati importanti acquisiti con l’esperienza.
Devo confessare che mi piace molto un certo modo che hanno le educatrici di guardare i bambini, che è insieme affettuoso e distratto, compiaciuto ma non pedante e che non si pone altro obiettivo se non quello di ricavare piacere da un gesto originale, da una piccola cosa che oggi c’è e ieri non c’era. A questo proposito, voglio precisare una cosa: prima ho detto che l’attenzione deve mirare alla conoscenza globale del bambino, tenendo insieme tutti gli aspetti del suo comportamento, e credo che questo sia vero, ma è vero anche che per raggiungere questa conoscenza servono soprattutto i dettagli, spesso è un dettaglio, un particolare registrato quasi casualmente, che all’improvviso illumina il quadro, ci aiuta a comprendere quel bambino, fa luce sul significato del suo comportamento. Anche per questo l’attenzione deve essere un’attitudine permanente: perché non possiamo sottovalutare l’importanza del caso; le scoperte importanti avvengono quasi sempre per caso, ma il caso, per farcele scoprire, ha bisogno del nostro aiuto. A me capita spesso di pensare che alcune delle cose che hanno contato di più nella mia formazione professionale, le ho incontrate casualmente, ma penso anche che poi sono diventate importanti perché senza saperlo le stavo cercando e dunque quando le ho incontrate ho potuto riconoscerle e coltivarle. Credo che qualcosa del genere succeda anche nei confronti della conoscenza dei bambini: scopriamo per caso particolari illuminanti, ma li riconosciamo soltanto in virtù di un’attenzione pronta a raccoglierli.
C’è un’altra cosa che mi sembra di dover sottolineare, anche se non è particolarmente originale, ed è il modo di valutare il tempo. Credo che abbiamo imparato a prendere tempo, forse anche a perdere tempo, piuttosto che rincorrerlo. Quando il nido cercava di guadagnare il suo spazio dentro alla categoria dei servizi educativi, una delle preoccupazioni fondamentali era quella di dimostrare che i bambini che frequentavano il nido non erano meno abili di quelli che crescevano in famiglia; imparavano a fare le cose con gli stessi ritmi dei bambini che restavano a casa, e magari anche un po’ più in fretta. Gli apprendimenti precoci erano motivo di grande soddisfazione e le educatrici in genere erano fiere di se stesse e dei bambini quando potevano dimostrare che certi loro bambini erano in grado di camminare prima, di parlare prima, di giocare con oggetti complicati, di riconoscere con grande rapidità forme e colori. Contemporaneamente si sforzavano di essere tolleranti e rassicuranti nei confronti dei bambini un po’ più lenti, ma un bambino più lento degli altri nel fare nuove conquiste era un problema, e richiedeva un forte impegno a studiare ed inventare strategie per arrivare a metterlo al passo con gli altri; se in un gruppo o in una sezione, il numero di bambini “lenti” superava un certo standard; le educatrici potevano facilmente sentirsi in crisi e diventava d’obbligo la domanda fatale “Non sappiamo più come stimolarli”.
È difficile dire quando questo atteggiamento sia cambiato, ma sono sicura che è cambiato, forse un po’ per volta, forse per riflessione, o forse prima nei comportamenti quotidiani e successivamente nel pensiero. Oggi dare fiducia ai bambini significa anche, o forse soprattutto, lasciare a loro tutto il tempo necessario per crescere, evitare di sollecitarli a raggiungere tappe e traguardi che non hanno altro valore, se non quello di soddisfare l’orgoglio degli adulti. A me piace molto, come credo piaccia ormai a tutti gli educatori assistere alle ripetizioni quasi estenuanti a cui i bambini si sottopongono spontaneamente e di loro iniziativa, quando ad esempio salgono e scendono una scaletta di tre gradini per un numero pressoché infinito di volte, o quando infilano lo stesso oggetto sempre nello stesso buco o fanno fare a una palla sempre gli stessi rimbalzi. Mi piace l’intensità del loro impegno, quando sembra quasi di vedere il lavoro della mente mentre assorbe le informazioni che il corpo trasmette, e hanno bisogno di provare e riprovare per immagazzinare tutte quelle informazioni, ordinarie e farle diventare conoscenza di sé e del mondo intorno. Mi rendo conto che è quasi inutile dirlo, perché il mondo intorno a noi ci chiede di andare sempre più in fretta; il nido da questo punto di vista rappresenta una sorta di isola felice, dove ci è permesso perdere tempo, ma credo sinceramente che potrebbe valere la pena di lasciare un po’ più di tempo ai bambini per consolidare e rinforzare le loro esperienze, anche negli anni successivi. Di una cosa sono sicura, l’esperienza ci ha dimostrato che, almeno in questa fascia di età, non fare loro fretta non significa affatto ritardare i tempi del loro sviluppo: dare tempo all’esperienza non vuol dire fare meno esperienza, significa se mai padroneggiarla meglio e sentirsi più sicuri.
Un’ultima considerazione, ed è veramente l’ultima, si collega a questa e riguarda i livelli di prestazione: credo che abbiamo imparato, proprio lasciando tempo e spazio ai bambini per fare le loro esperienze, che non possiamo più pensare a loro in termini di prestazioni. Voglio dire che non ci piace pensare che un bambino è più o meno capace di un altro, le abilità e le competenze sono certamente diverse, ma il nostro compito, quello di cui ci importa veramente, è che a ciascuno venga data la possibilità di estendere e sviluppare le proprie, trovando, come dicevo all’inizio, la propria strada e i propri modi per sperimentarsi. Anche da questo punto di vista consideriamo il nido d’infanzia un luogo fortunato, perché ci è permesso farlo. Pensiamo che questo vada a vantaggio dei bambini, perché non hanno nessun obbligo di essere all’altezza di un qualsiasi standard predefinito e possono permettersi di crescere seguendo le proprie inclinazioni.
Il clima di competizione in cui siamo tutti fatalmente immersi, che ci fa sentire quasi obbligati a stare al passo con chi è sempre un po’ più avanti di noi, talvolta ci logora e ci impedisce di apprezzare ciò che siamo e ciò che abbiamo. L’esperienza spero ci abbia insegnato anche questo: a cercare ogni mezzo per preservare i bambini, almeno in questi primi anni, che sono poi fondamentali, dall’ansia di dover competere. E naturalmente speriamo che questo li renda più forti di fronte alle sfide che dovranno poi inevitabilmente affrontare.
Intervento pronunciato il 31 marzo 2001 al Convegno: “II nido si racconta”, organizzato ad Imola in occasione dei 25 anni di vita dei nidi comunali (nota a cura della redazione).
PRIMA DELL’AMORE IL RISPETTO, il pensiero di Maurizia Gasparetto attraverso i suoi scritti commentati. Ed. La mandragola, 2014.