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Da un altro punto di vista. Una scuola primaria tra didattica interdisciplinare e spazi esterni

Chiara Franzil e Bianca Martinelli

Scuola Primaria Statale “Duca degli Abruzzi” (Milano) Classe 2°B – A.S. 2014/2015

Una scuola tra dentro e fuori: la cornice di riferimento

Per restituire la natura ai bambini, partendo dall’educazione, forse non serve essere in un bosco, né stare fuori per l’intero arco della giornata. Forse basta avere la capacità di immaginare una scuola – anche primaria e statale – in grado di ripensare autenticamente il proprio intreccio contestuale di spazi, tempi, modi e relazioni e di trovare nel fuori uno specchio per ridefinirsi. Forse, basta riconcettualizare l’esterno come interlocutore vitale con cui dare forma all’apprendimento, al gioco, all’interazione, offrendo ai bambini la possibilità di abitare gli spazi aperti con ogni tempo e in ogni stagione, senza però fermarsi al semplice atto di uscire che, per quanto primario, non può bastare ingenuamente a se stesso se ripropone nel suo dipanarsi le stesse dinamiche alle quali reagisce. Solo attraverso un ripensamento complessivo del fare scuola il fuori può diventare un laboratorio integrato in cui le scienze, le arti, le lingue comunicano e si contaminano all’interno di una visione olistica e globale che richiede anche alle singole didattiche disciplinari di mettersi in discussione, accogliendo le provocazioni che la natura pungola e solleva, nel riconoscimento di una conoscenza distribuita nell’ambiente in cui si apprende. Solo se si sceglie consapevolmente di abitare gli spazi esterni è possibile ripensare il lavoro pedagogico secondo un’epistemologia che lo configura come pratica – incerta e mai sazia a se stessa – di ricerca di significati (M.G. Riva, 2004), di ascolto di esistenze in crescita, di bella e autentica resistenza, all’interno di una scuola aperta al mondo che si pone di perseguire i traguardi proposti dalle Indicazioni Nazionali per il Curricolo sfruttando la possibilità di differenziazione qualitativa dei processi e degli approcci che queste permettono.

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Dalla teoria alla pratica: il progetto

Da queste riflessioni ha preso avvio e si è sviluppato il progetto “Da un altro punto di vista”, realizzato con una classe seconda della Scuola Primaria Statale “Duca degli Abruzzi” di Milano, in cui un macro argomento, il punto di vista, è stato esplorato per un lungo periodo, tra dentro e fuori, nell’intreccio di tutte le materie convenzionali – investigando, scrivendo, sperimentando, muovendosi, disegnando, calcolando, ricercando, dimostrando come la natura sia ancora in grado di intessere con i bambini un dialogo fecondo, denso, interdisciplinare.

In seconda, il punto di vista è uno degli argomenti “da programma” dell’ambito geografico: se è vero che muta a livello spaziale, tuttavia, esso è altresì determinato, o per lo meno influenzato, da parametri altri, interni ed esterni all’osservatore, e si declina concettualmente in tutte le discipline. In generale, il punto di vista rappresenta uno dei modi per entrare in relazione con il mondo e contiene in nuce relatività e possibilità di cambiamento: ciò che si percepisce non è la realtà, ma un’interpretazione parziale della stessa operata dai sistemi rappresentazionali di ciascuno.

Con i bambini, si è notato che il punto di vista cambia effettivamente in base alla posizione dell’osservatore, ma anche alle sue modalità di sguardo − inteso nell’interezza degli organi percettivi −, ovvero al suo personale e soggettivo approccio alla realtà; al codice e al linguaggio scelti per la descrizione di un oggetto, nonché al tempo, continuo o discreto, che nel suo trascorrere modifica ogni cosa.

Cambiare punto di vista non è solo un’azione fisica di spostamento, ma una più complessiva trasformazione del proprio orientamento rispetto alla pluralità e all’imprevedibilità del mondo. Parallelamente guardare alla scuola dalla prospettiva naturale può voler dire accorgersi di come il fuori apra nuove strade di riflessione pedagogica ed azione didattica all’interno di un pensiero progettuale complessivo: non solo uscire dalle aule per modificare la cornice del proprio stare, ma interrogarsi in maniera nuova sui ruoli degli attori del processo educativo e al contempo attuare una radicale revisione metodologica a favore di un approccio esplorativo fondato sull’esperienza, la riflessione, il dialogo, l’interdisciplinarietà, fino a concepire il tempo secondo una prospettiva più profonda e più dolce, capace di ospitare il manifestarsi dell’esistenza.

Il punto di vista è diventato così definizione di un nuovo modo di concepirsi della scuola e, insieme, di nuove possibilità di osservazione del mondo con i bambini.

 

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Una didattica di “idee”

Dal punto di vista didattico ogni materia è stata messa in discussione nella propria epistemologia al fine di rivederne metodi e linguaggi nella volontà di generare, coltivare, condividere “IDEE”: le scelte metodologiche trasversali si sono basate, infatti, sull’interdisciplinarietà – per costruire il valore della prospettiva e ricomporre l’unitarietà del sapere -, il dialogo, l’esperienza riflettuta e l’esplorazione. A questo proposito si è ritenuto interessante raccogliere la proposta di Keri Smith sul diventare esploratori del mondo, ovvero capaci di documentarlo e osservarlo come se non lo si fosse mai visto, in una pratica fondamentalmente empirica, contesto specifica e volta alla ricerca e alla scoperta sul campo [K. Smith, 2011]. Prendendo spunto dal testo i bambini sono stati introdotti al fuori a partire dalla lettura di una missione esplorativa in grado di accendere l’interesse, invito giocoso alla sottoscrizione di un impegno comune preso molto sul serio, nonché atto volto a creare uno sfondo integratore condiviso nello sforzo di recuperare l’unitarietà in reazione al frammentario, al molecolare, al parcellare, al dispersivo per non perdersi nella vasta ricchezza di una natura che sa interpellare sempre in modi nuovi.

 

 

Strumenti aperti e complessi

La riflessione intrapresa ha reso necessario un ripensamento degli strumenti messi a disposizione, i quali dovevano adattarsi a uno spazio più vasto, impervio e imprevedibile di quello dell’aula ed essere coerenti con gli obbiettivi e le modalità di lavoro suggerite dallo stare all’esterno. A questo proposito, si sono riprese le riflessioni di Mario Lodi – con il suo libro-bianco Io e la natura – e di Gianfranco Zavalloni – circa il senso e il significato del quaderno come diario di viaggio – per proporre ai bambini un solo supporto, più piccolo dei quaderni tradizionali in modo da essere più maneggevole, da loro denominato “Diario dell’Esploratore”, il quale si è pregnato di una dimensione affettiva fondamentale per ancorare le scoperte cognitive al vissuto emozionale di ciascuno. Il Diario dell’Esploratore si è configurato come uno spazio libero in cui annotare, nel linguaggio preferito, dettagli, curiosità, domande, attinenti a un campo d’indagine vasto come il mondo; un modo di “tenere traccia”, anche in senso storico, di un processo necessitante di un dispositivo più ampio di quello della verifica o del prodotto per essere testimoniato. Quando si esce all’aperto, si aprono infinite possibilità che possono passare inosservate se non si dispone di strumenti capaci di trasformare un’idea in un’ipotesi di ricerca, un abbaglio di meraviglia in un’occasione di osservazione, un tratto di bellezza in una domanda d’interesse. In questo senso, il Diario ha rappresentato al contempo una lente di ingrandimento, per entrare nelle questioni, e una bussola, per orientare percorsi mai predefiniti, avvicinandosi nei significati all’esperienza del Nature Journaling e sostenendo tutte le caratteristiche proprie a una scuola che si gioca davvero fuori. Integrato, esperienziale, riflessivo, creativo e critico, frutto di un’azione al contempo individuale e condivisa, il Diario ha permesso di ripercorrere lo sviluppo di apprendimenti invisibili, ma significativi in una prospettiva metacognitiva, incrementando abilità trasversali di natura osservativa, artistica e comunicativa. Per ogni bambino esso ha rappresentato uno specifico punto di vista sul mondo così che, nella socializzazione delle sue pagine, è stato possibile accorgersi dell’esistenza di diverse prospettive, dei valori e degli interessi altrui, delle sfumature che la natura tratteggia diversamente in ciascuno.

 

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Accogliere l’imprevedibilità della natura nella progettualità

Costruita la cornice metodologica, la prima occasione per giocarsi sul campo è scaturita da un imprevisto pedagogico che è stato colto e raccolto dallo sguardo incantato e stupito dei bambini: un’eclissi quasi totale di sole. La natura non segue i programmi, ma non è mai avara di suggestioni. Per questo si è scelto di integrare la sua silenziosa proposta all’interno del progetto, modificandolo in modo tale da seguire le strade di ricerca dispiegatesi nella conversazione che ha seguito l’osservazione, sostenendo le domande emerse nei bambini. Quelle domande che, silenziosamente e talvolta inconsapevolmente, sono state abitate per un anno intero nella messa a disposizione di esperienze, possibilità, materiali che permettessero a ciascuno di elaborare un proprio itinerario di risposta.

Sul Diario dell’Esploratore ogni bambino ha tenuto traccia dell’eclissi in una prima presa di coscienza circa l’originalità del proprio punto di vista, inteso come modalità di percezione del mondo.

 

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L’orizzonte come connessione terra e cielo

Nel corso delle uscite successive, volte a costruire una progressiva abitudine al giardino, i bambini, in piccoli gruppi, hanno iniziato a costruire alcuni punti di riferimento necessari per appropriarsi dello spazio, per orientarsi, per muoversi con consapevolezza, per accorgersi di mutamenti e trasformazioni. L’osservazione dell’eclissi è stata connessa al paesaggio più prossimo attraverso una riflessione sull’orizzonte visivo, linea di demarcazione tra terra e cielo, confine tra due mondi naturali che, continuamente, si contaminano, si parlano, si con-fondono. L’esperienza ha permesso ai bambini di sviluppare in maniera più ampia il concetto di punto di vista intrecciandolo proprio a quello di orizzonte: lo sguardo con cui ciascuno fa esperienza dei fenomeni celesti, quelli che paiono più immutabili e universali, ha iniziato a profilarsi come dipendente dalla propria posizione intesa come cornice di osservazione privilegiata. Le molte questioni che sono emerse in natura hanno reso necessario ritagliare, in classe, un tempo raccolto per il dialogo, attraverso un confronto tra i diversi orizzonti costruiti permettente di far emergere dissomiglianze ed elementi di contatto, dimostrando come le dinamiche aventi origine fuori possano contenere suggestioni in grado di contaminare il dentro. Durante questo momento i bambini hanno per la prima volta verbalizzato il concetto di “punto di vista” funzionale per giustificare la differenza delle loro produzioni: se in aree diverse del giardino si è circondati da orizzonti differenti significa che non vi è un modo univoco di porsi d’innanzi alle cose.

 

 

L’osservazione della luna: i compiti come occasioni di ricerca

La costruzione degli orizzonti visivi a scuola ha permesso di registrare i movimenti del sole, ma per quelli della luna è stato necessario affidare ai bambini un compito, denso e serio, che è stato accolto come opportunità di approfondire un progetto condiviso. Ogni bambino ha ricevuto un libro bianco per osservare e tener traccia del satellite dalla finestra della propria casa, in un’esperienza volta ad affinare uno sguardo emozionato sul mondo per farne, attraverso il disegno, occasione per rinvenire invarianze e costruire interpretazioni, nutrendo la scuola di autentica ricerca. Venti punti di vista si sono così alimentati, sera dopo sera, nel tempo di un’attesa un po’ dimenticata.

 

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La natura come terreno di ricerca interdisciplinare

Nel frattempo, a scuola, i bambini hanno continuato ad uscire in giardino e ad esplorarlo liberamente avvalendosi di strumenti diversificati − contenitori, lenti d’ingrandimento, macchine fotografiche, metri, ognuno dei quali ha saputo suscitare nuove piste in cui avventurarsi − e di proposte aperte, come quella di raccogliere ogni cosa ritenuta soggettivamente interessante. Queste collezioni naturali sono diventate occasione – e non pretesto – per un lavoro di classificazione, seriazione, conservazione, comune a diverse aree disciplinari. Non solo i bambini hanno vissuto il fuori da un punto di vista diverso, ovvero come luogo di scoperta, esplorazione e ricerca, ma ognuno, potendo concentrarsi su ciò che lo interessava maggiormente, ha testimoniato con i propri reperti un particolare modo di guardare alla realtà, riversando poi in ogni criterio di catalogazione un diverso approccio interpretativo.

 

 

L’esplorazione distesa dello spazio esterno ha permesso a ogni bambino di individuare un elemento da adottare e con cui entrare in relazione, approfondendolo nelle sue narrazioni in un processo graduale di addomesticamento, proprio come accade al Piccolo Principe con la sua rosa.

Gli elementi scelti sono stati annusati; toccati da dita colorate di pece ambrata o geometrie terrose; osservati nelle mappe di luce che il sole crea quando incontra le superfici; raccolti nelle interazioni silenziose intrattenute con il mondo circostante, divenendo oggetti di indagini differenti. La possibilità di fruizione multipla che la natura garantisce ha veicolato un’educazione esperienziale multisensoriale che ha permesso ai bambini di ridestare l’innata capacità di vedere, sentire, assaggiare, toccare, annusare, approfondendo una conoscenza che nella sua globalità non perde le specificità dei molteplici punti di vista che la compongono: notare insieme le assonanze e le dissomiglianze della natura ed esperirle nella permanenza ha permesso di costruire un’ampia competenza di approccio alla vita, alle sue risorse, alle sue problematicità.

I linguaggi delle diverse discipline hanno offerto a loro volta contatti plurimi che hanno consentito ai bambini di conoscere alberi, fiori e rettangoli d’erba misurandoli nelle loro dimensioni; raccontandoli con parole scelte e accorte, in un esercizio linguistico significativo di descrizione, narrazione, avvicinamento alla poesia (secondo lo splendido approccio di K. Koch); disegnandoli e facendo dell’arte domanda. Perché la natura conosce la matematica, la lingua e l’arte e ne è veramente maestra.

Così, il Diario dell’Esploratore si è riempito di tracce, reperti, disegni, inchiostri testimonianti un’amicizia attraverso la quale i bambini hanno affrontato anche apprendimenti tecnici, “di programma”, i quali hanno trovato legittimazione nell’avere luogo all’aperto, ancorati a elementi e vissuti concreti, all’interno di funzioni di senso capaci di renderli più lievi, ma non meno densi o complessi.

 

L’elemento adottato, i bambini l’hanno anche fotografato, a partire da una caccia al tesoro di posizioni da cercare e ricreare con il corpo, prima di mettere a fuoco con la macchina fotografica un istante giocato sulla sottile linea dell’equilibrio. Riguardare le immagini stampate dopo aver giocato se stessi in relazione con la natura, ha permesso di legare il punto di vista a una dimensione fisica svelando come uno stesso oggetto possa apparire totalmente differente se guardato da prospettive altre e, magari, inaspettate. Confrontandosi in un gioco metaforico di assonanze e analogie, i bambini si sono accorti che lo stesso stimolo può provocare in ognuno sollecitazioni differenti, richiamando memorie e associazioni non univocamente determinate: a testa in giù lo stesso albero appariva a tutti diverso, ma, a seconda dello sguardo che incontrava, si trasformava ora in un cappello di mago, ora in un ghiacciolo, ora in una fionda. Le fotografie hanno messo in evidenza anche la relatività delle dimensioni in funzione della distanza, nozione che i bambini hanno richiamato prontamente nel momento in cui sono tornati a ragionare sui corpi celesti. La graduale connessione tra le esperienze ha condotto, infatti, verso una generalizzazione astratta, nell’interdipendenza positiva della natura con i vari saperi disciplinari, offrendo un saldo ancoraggio alle nuove scoperte che hanno potuto essere progressivamente inserite in reti vaste e articolate di significati.

 

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Alla luce di ciò, un giorno i bambini hanno affrontato il punto di vista anche da una prospettiva temporale mettendolo in relazione con i cambiamenti del giardino e dei reperti conservati nel Diario. Poiché i più significativi parevano legati al tema del colore, ha preso avvio una raffinata ricerca di nomi e pantoni naturali, varietà a portata di sguardo, ricchezza di sfumature, gamme, viraggi, relazioni, riconducenti l’ambito estetico ad una dimensione estesa. Ognuno ha potuto realizzare una tavolozza del proprio elemento, individuando le tonalità più simili alle varie componenti, in modo da connotarlo anche a livello cromatico, in un ulteriore passo verso la sua definizione. Anche l’arte ha un proprio punto di vista ed è proprio attraverso di essa che si è voluto sottolineare come rendersi conto del proprio modo di vedere le cose non significhi sostenere un relativismo superficiale, ma cogliere un’opportunità di approfondimento. Come scrive Keri Smith ogni oggetto: “risulta molto diverso a seconda che lo si guardi da lontano o da vicino. Cambia ancora se scegliamo di considerarlo come se fosse solo un insieme di colori. O se decidiamo di studiarlo prendendone in considerazione parti separate […]. Si può anche decidere di studiare il ruolo che ha avuto per una comunità (come luogo di incontro), o gli aneddoti, le storie che le persone che ci vivono attorno hanno da raccontare su di esso [K. Smith, 2011].

 

Un tempo lento per abitare le domande

Nel corso dell’anno, i bambini hanno costantemente e spontaneamente connesso le tematiche emergenti in natura con l’eclissi, nonché con le osservazioni lunari condotte a casa, i cui disegni sono stati raccolti per essere confrontati e discussi. L’interesse reale ha tenuto vive le questioni permettendo di riprendere a posteriori l’intero percorso e di far emergere strutture concettuali, teorie e modelli cognitivi diventati significativamente più ricchi e articolati. Il tempo lungo e vario in cui gli interrogativi sono stati abitati ha permesso ai bambini di appropriarsene in maniera intima e approfondita, mantenendo la curiosità nell’elaborazione consapevole di una propria idea. Il dentro si è configurato come uno spazio aperto e in dialogo con il fuori, funzionale alla rielaborazione dei concetti e all’approfondimento dei pensieri seguendo una metodologia attiva e dialogica, in cui conversazioni collettive si sono intervallate ad esperimenti e rilanci progettuali volti ad arricchire e sostenere le ipotesi di ricerca.

Quasi senza rendersene conto, attraverso lo sviluppo di un’idea di punto di vista passata attraverso il colore, la posizione, la distanza, l’interpretazione soggettiva, le dimensioni, il movimento, la classe ha potuto sperimentare all’aperto la maggior parte delle domande che aveva inizialmente costruito, senza imparare vuote formule a memoria, ma vivendo un apprendimento globale che nei suoi collegamenti ha aiutato a sviluppare un’ampia competenza di metodo circa la risoluzione dei problemi e un maggior senso di autoefficacia. Le ipotesi e le idee si modificano in base alle esperienze proposte, le quali non sono rimaste un fare sterile e fine a se stesso, ma sono state riflettute, dialogate, formalizzate, interpretate divenendo vissuto oggetto di pensiero: dopo un anno, tornati a discutere dell’eclissi, i bambini si sono improvvisamente accorti di poter formulare risposte autonome – sempre parziali, ma valide e raffinate – ai loro quesiti e si sono dimostrati capaci di procedere per ipotesi, tenendo conto del parere dei compagni, di agganciare le loro idee in un’ampia rete di connessioni, di correggersi e ricominciare, in un atteggiamento di ricerca e scoperta autentica che il fuori ha sostenuto e alimentato.

 

 

I punti di vista contano, hanno detto i bambini, perché trasformano le cose.

Ecco allora che guardare alla scuola dal punto di vista della natura può cambiare l’educazione e trasformare il futuro.

Una classe alla volta, fuori.

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