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La Neuropedagogia

Asteria Bramati

Docente Miur, esperta di neuropedagogia


“Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato,

ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto.”

Carlo Maria Martini

 

L’intelligenza non si costruisce dall’esterno: i bambini non sono dei vasi vuoti da modellare e riempire o specchi che riflettono passivamente l’esterno, ma sono soggetti attivi che scelgono le immagini del mondo esterno essendo “prodigiosamente” capaci di impadronirsene grazie alla loro mente assorbente” (M.Montessori, 1913).[1] Questa affermazione della pedagogista Maria Montessori ci fa capire come sia importante conoscere il funzionamento della mente dei giovani per costruire un’azione didattica efficace e rispondente alle loro esigenze.

Le più moderne tecniche mediche consentono sempre di più di conoscere il funzionamento del cervello; sono ormai molti i consigli che le neuroscienze cognitive suggeriscono a chi si occupa di didattica. Dall’incontro tra le neuroscienze e l’educazione, sono nati diversi filoni di ricerca che vengono etichettati con il termine” neurodidattica” (Rivoltella, 2012)[2]. Questa nuova disciplina integra il sapere sociale-educativo della pedagogia e il sapere biologico della neurologia, alla luce dei processi storici, valoriali, filosofici, morali e spirituali; gli ambiti su cui si sviluppa sono molto articolati e spaziano dallo studio delle abilità di lettura e scrittura (Wolf, 2018), all’apprendimento musicale (Ashley, 2009), alle competenze matematiche (Dehaene, 2018). Genitori e insegnanti si lamentano spesso della scarsa capacità di concentrazione dei loro figli e allievi. Conoscere come si sviluppa e funziona il cervello dei più giovani, può fornire delle utili indicazioni per migliorare l’attenzione dei giovani anche in ambito scolastico. Al centro della “rivoluzione neurocognitiva”(Oliverio, 2018) vi sono “le funzioni esecutive”, l’insieme dei processi mentali che consentono ad una persona di esercitare forme di autocontrollo, di attenzione su un particolare compito e infine di trattenere in memoria una esperienza, traducendola, quando necessario, in azione.

Questa capacità dipende dallo sviluppo di un’area particolare del cervello, la corteccia cingolata che è situata nella parte interna dei due emisferi celebrali; essa inizia a crescere fin da primi mesi di vita di un bambino e completa la sua maturazione alla soglia dei vent’anni. Affinchè le funzioni esecutive possano svolgere al meglio la loro attività, è cruciale una adeguata maturazione non solo fisica, ma anche emotiva del giovane; la neuropedagogia ci indica come sia possibile utilizzare le emozioni per facilitare al meglio l’apprendimento. Ad esempio, in Francia sono state messe in atto molte tecniche didattiche volte a fare leva sulle emozioni per stimolare la comprensione di discipline spesso “invise” come la fisica o la matematica. Il docente cerca di sorprendere i suoi studenti provocando una emozione positiva (ad esempio proietta un breve video) che attrae l’attenzione degli studenti; inducendo un’emozione positiva, i ragazzi prestano maggiore attenzione e ascoltano la lezione più volentieri.[3]

La capacità di concentrazione negli studenti non passa però solo dalle emozioni ma, soprattutto, dalla loro capacità di elaborare lo stimolo percettivo (in questo caso quello scolastico) in un ricordo che rimanga sedimentato nella loro memoria a lungo termine.

Questo processo viene svolto dall’ippocampo, l’organo del cervello deputato a trasformare gli stimoli percettivi in memoria. Esso ha però un difetto, quello di andare in sovraccarico cognitivo se le informazioni nuove, che gli provengono dall’ambiente sono eccessive. Di qui, la necessità di spezzare il ritmo, in ambito scolastico, di introdurre diverse tipologie di attività che non mandino in “tilt” il lavoro dell’ippocampo. Inoltre, l’uso eccessivo dei dispositivi elettronici da parte dei giovani pone il problema dell’attenzione poco focalizzata su quanto appreso e studiato. Bisogna cercare di risolvere questo problema spezzando e alternando il lavoro dell’apprendimento a scuola (spaced learning). Una metodologia didattica che cerca di rispondere a questi problemi è quella dell’EAS.[4] In primo luogo, l’EAS risponde a una logica di microlearning, ovvero di circoscrizione temporale delle attività da svolgere. Un EAS normalmente occupa una sessione di lavoro di un paio d’ore. Oltre a questo, al suo interno prevede un’organizzazione ternaria che consente di individuare una fase preparatoria, una fase operatoria e una fase ristrutturativa.

Ciascuna di esse, al suo interno, è articolata in diversi momenti: il docente inizia esponendo un framework concettuale, poi somministra alla classe una situazione-stimolo, assegna un compito; la classe si organizza in gruppi, questi espongono il loro lavoro, infine, lo si discute insieme, il docente guida il debriefing, svolgendo la lezione a posteriori correggendo gli errori e fissando i concetti. Il risultato è una sessione di lavoro dinamica, varia per tipologia di attività, caratterizzata da attivazioni diverse e di diversa intensità degli studenti. L’obiettivo è di recepire didatticamente i due problemi prima citati, che la ricerca neuroscientifica ha individuato come strutturali rispetto all’apprendimento. [5]

Un’altra metodologia didattica, che si avvale delle indicazioni suggerite dalle neuroscienze, è il metodo di John Rizzo, fondatore della Ecole du Dialogue di Bruxelles, e ideatore della desincronizzazione degli apprendimenti. Questo concetto, si basa sul presupposto neurologico, che i giovani non maturino contemporaneamente le loro capacità cognitive; all’interno della stessa classe vi possono essere notevoli differenze nell’apprendimento tra studenti, è quindi illusorio che l’insegnante, in questa situazione, spieghi, simultaneamente lo stesso argomento in quanto, alcuni alunni “più recettivi” capiranno subito l’argomento, altri ci metteranno più tempo.

 

Seminatore col sole che tramonta, Vincent Van Gogh.

 

C’è sempre una desincronizzazione tra le diverse menti degli studenti che non permette all’insegnante di condurre tutti nel lavoro didattico allo stesso ritmo[6]. Tale approccio vuole introdurre un nuovo paradigma dell’insegnamento che tendendo conto di queste differenze neurologiche-cognitive degli studenti sappia mutare il modo di fare scuola. L’insegnante, smette di essere colui che guida la classe, ma, diventa semplicemente un facilitatore dell’attività didattica. La desincronizzazione degli apprendimenti[7] consente all’insegnante di aiutare gli studenti con più difficoltà che, lentamente, riescono a superare le difficoltà e a colmare le specifiche lacune di ciascuno, mentre gli studenti più veloci possono apprendere senza annoiarsi, migliorando ulteriormente le proprie competenze facendo da tutor ai compagni ed approfondendo gli argomenti trattati[8].

Se è vero che la neuropedagogia fornisce delle valide indicazioni metodologiche per aiutare a comprendere lo sviluppo cognitivo dei più giovani, è altrettanto vero, che “non esiste la risposta” (Gallese, 2019) le soluzioni pedagogiche sono plurime ed articolate, sta poi all’insegnante renderle adeguate al contesto-classe e più efficienti.

 

 

 

 

[1] M. Montessori, Il segreto dell’infanzia, Garzanti, 2014

[2] P. C. Rivoltella, Neurodidattica, ed. Cortina, 2012

[3] Gli studi di neuropedagogia ci dicono in questo caso i neuroni rilasciano maggiori quantità di dopamina, il mediatore nervoso che é associato all’apprendimento. Al contrario, le emozioni negative, come lo stress e l’angoscia, comportano un blocco della produzione di dopamina e, quindi, una riduzione dell’attenzione e della memoria. Se si suscitano emozioni, nei neuroni del cervello si stabiliscono più connessioni che trattengono più facilmente le informazioni.
Cfr. A. Oliverio, Che cos’é la neuropedagogia? In “Psicologia Contemporanea”, Gennaio-Febbraio, 2018.

[4] P.Cesare Rivoltella, Fare didattica con gli EAS, ed. La scuola, 2015

[5] P.Cesare Rivoltella, Fare didattica con gli EAS, ed. La scuola, 2015

[6] Il fenomeno della desicronizzazione è oggetto di studi nell’ambito delle risposte mirror. In particolare, tramite le registrazioni EEG che consentono di rilevare l’attività elettrica spontanea del cervello e di classificare i differenti ritmi in base alle diverse frequenze d’onda, si sono individuate nelle regioni del lobo frontale che riguardano i ritmi desicronizzati, cioè quelli ad alta frequenza e a basso voltaggio. Cfr. Giacomo Rizzolati, Specchi nel cervello, ed. Cortina, 2019

[7] Cfr. Sito Ecole du Dialogue di Bruxelles http://ecoledudialogue.be/

[8] Il liceo delle Scienze Umane “F. De Andre”di Brescia è la prima scuola secondaria di secondo grado italiana ad aver iniziato la sperimentazione del metodo della cd. Desincronizzazione.
Cfr.Video- Rai3 relativo a questo progetto: https://www.facebook.com/tg3rai/videos/1850423381728124/

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