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La voce di Janusz Korczak

Dario Arkel

Pedagogista e docente universitario


 

Mi soffermo in questo quarto intervento sul Magazine su un’eccezione costante in tutta l’opera di Janusz Korczak ancora poco studiata, per far comprendere e ribadire come e perché Korczak pedagogista fu, e rimane, in una categoria a sé stante tra i pedagogisti di ogni tempo.

Egli rappresenta sé stesso e, come un attore attento e fine, interpreta il bambino, la mamma, l’educatore. L’eccezione è la voce: egli scrive libri pedagogici come un narratore accompagna il lettore, scrive romanzi come saggi, esercita toni ben calibrati per affiancare i bambini nelle varie esperienze della propria vita, le mamme studiando le parole e modulandole nel rapporto complesso con i piccoli, gli educatori con il tono del collega saggio.

Al giorno d’oggi è ovvio che Korczak potrebbe essere un personaggio televisivo, divulgatore simil Piero Angela, ma le sue armoniche frasi determinerebbero, dato l’argomento che incide sulla vita di tutte le famiglie, ancora maggior stupore. Sono sicuro, come mi è capitato parlandone con gli studenti, che parecchie sarebbero le domande che gli giungerebbero, e pure la ripetizione della constatazione più frequente che mi sono sentito fare: “Se avessi saputo prima ciò che mi hai spiegato adesso, mi sarei comportato diversamente con i miei figli”.

Siamo di fronte ad un uomo che ha saputo lavorare sui nuovi concetti della comunicazione utilizzando i mezzi di diffusione all’avanguardia (si veda al proposito il volume “Il vecchio dottore” che raccoglie i testi delle sue conversazioni alla radio polacca tra il 1930 e il 1939)[1] creando un modello rinnovato di formazione, di forma mentis, per chiunque lo ascoltasse.

Il suo tono, ecco! Intendiamo il suo tono sempre in prossimità del bambino, leggiamo le sue parole come a lui rivolte, anche se siamo noi adulti a leggere.

Riflettiamo e subito capiamo che anche se parla a noi, parla a lui, all’ospite vero del suo cuore: il bambino. Riporto il primo esempio che mi viene in mente, l’incipit del “Diritto del bambino al rispetto”: Abbiamo vissuto con l’idea che grande è meglio di piccolo. “Sono grande”, grida gioiosamente il bambino in piedi sul tavolo. “Sono più grande di te”, dichiara con orgoglio a un compagno della stessa età ma più piccolo di statura… E, poi, di seguito: Quanto è penoso non poter raggiungere un oggetto, soprattutto se, per farlo, vi siete sollevati sulla punta dei piedi! Che fatica per delle piccole gambe tenere il passo di un adulto. E dalla mano troppo piccola il bicchiere scivola sempre. Quanti sforzi, quanti gesti maldestri, solo per arrampicarsi su una sedia, salire una scala, sedersi in una macchina; impossibile aprire una porta, guardare da una finestra, sganciare o sospendere un oggetto: è sempre troppo alto. E, qui, come stringe il cuore: In una folla nessuno fa attenzione a voi, non si vede niente; ci si fa spintonare. Decisamente essere piccoli non è facile né gradevole. E ora scatta l’ironia un poco amara: Bisogna essere grandi, occupare un bel po’ di posto per suscitare stima e ammirazione. Piccolo vuole sempre dire banale, sprovvisto di interesse. Piccole persone, piccoli bisogni, piccole gioie, piccole tristezze. Solo il grande ce le impone: grandi città, alte montagne, alberi maestosi. Diciamo: “Una grande opera, un grand’uomo”. Un bambino, è così piccolo, così leggero… così poca cosa. Bisogna piegarsi, abbassarsi fino a lui.[2]

Questo esempio vale per tutta l’opera scritta di Korczak, ma vale soprattutto per comprenderne l’indole e la portata della sua missione. Egli parla per indirizzare e lo fa con garbo e delicatezza, senza dogmi ma piuttosto descrivendo azioni, quelle che ha osservato stando con i piccoli protagonisti della sua vita. Vi sono dei passaggi nei quali Korczak delinea l’osservazione dell’adulto da parte del bambino e ne deriva un cortocircuito emotivo, come se l’adulto si specchiasse nel bambino. Nella sua opera narrativa, e penso soprattutto a “Quando ridiventerò bambino” vi sono parole di riflessione senza soggetto, senza un indirizzo preciso: sono momenti vibranti di tensione universale: Chiedo dunque alla mamma: “Posso andare?” E aspetto. I grandi, loro, non aspettano mai in questo modo. A parte i prigionieri, forse. Loro probabilmente contano ogni giorno che li separa dalla libertà.[3] È chiaro che non è del bambino il pensiero, ma è il pensiero che illustra al meglio ciò che questi può provare sentendosi prigioniero del tempo dell’adulto e, pure, del concetto di libertà che nell’adulto spesso è noncuranza quando si tratta dell’altrui agio, soprattutto di quell’autentico proletario che è il bambino secondo il Pan Doktor.

Korczak non aveva un suo metodo. Egli non apprezzava i metodi che riteneva essere gabbie. Non aveva metodi se non quello di non-averne. Come abbiamo potuto intuire dai brevi esempi citati, la sua parola, flautata o perentoria che fosse, era la parola che ammetteva sempre il dubbio, aprendo così alla discussione con l’interlocutore. Se, da un lato, tale comportamento appare un principio Socratico temperato dal “Principio di non contraddizione” aristotelico, dall’altro crediamo concretamente che questa sia la strada ebraica della confutazione talmudica. Il dubbio è ricerca e sprone per nuove conoscenze. I dogmi, le certezze indeboliscono la curiosità e quindi la volontà dell’uomo di oltrepassare le barriere, tanto nel sapere quanto nel saper amare. Oltre l’Halakah (applicazione dogmatica delle Leggi ebraiche) esiste la concretezza dell’Haskalah (autoderminazione dell’ebreo nell’esilio-Shoah, illuminismo propagatosi a seguito del pensiero di Moses Mendelsshon), al quale si rifà in prima battuta il filosofo Martin Buber, coetaneo di Korczak, nell’affermare il valore del dubbio e dell’alterità feconda. Dubbio e riconoscimento del valore dell’Altro sono i perni su cui ruota il non-metodo di Korczak.

Va da sé che il pensiero del pedagogista ebreo-polacco qualche volta strida con quello di Maria Montessori che rispose concretamente al dissidio grande-piccolo con il cosiddetto Metodo “a prova di bambino”, ovvero creare l’ambiente ideale per il “piccolo”. Le scuole montessoriane sono strutturate per favorire l’autosviluppo del bambino cercando di fornire loro un ambiente il più possibile familiare, domestico e accogliente, caratterizzato da mobili, utensili e oggetti della misura adatta all’uso e alla manipolazione. Un esempio: […] Il bambino che arriva a scuola si spoglia da sé. Piccoli attaccapanni, aderenti al muro tanto in basso che il braccio del bimbo di 3 anni ci arrivi comodamente, stanno a sua disposizione: Fontanine così basse che non vi arriverebbe il ginocchio dell’adulto, con oggetti minuscoli come saponi piccini, spazzolette per le unghie e piccoli asciugamani, sono a portata di bambino; o, in mancanza di fontanine, ci sarà qualche lavabo, fosse anche una catinella piccolina, appoggiata su un tavolino basso, con una brocchetta e un recipiente per buttarvi l’acqua usata. Una cassetta con spazzole per le scarpe e qualche sacchettino attaccato al muro, che contiene spazzole per i vestiti così piccole che una minuscola manina possa afferrarle pienamente. E dove si può, occorre mettere una piccola mensola sormontata da uno specchietto, ma così bassa che arriverà forse a far riflettere uno spazio situato a mezza strada tra il piede ed il ginocchio dell’adulto; ci sono lì una spazzoletta e un pettine minuscolo.[4]

Non si può giudicare l’opera vastissima della Montessori da un breve pezzo di un suo libro, possiamo però trarre almeno due riflessioni. La prima riguarda che sia Korczak sia Montessori avevano ben chiaro il problema del conflitto grande/piccolo in pedagogia, ma che sviluppano il proprio pensiero in modo opposto: Korczak cercando la naturalezza dei gesti del bambino con l’ideale di una ribellione latente che, per esempio, lo conduca alla libera-azione dell’afferrare un oggetto, Montessori adattando l’ambiente al bambino, rendendolo padrone della sua libertà. Korczak chiede all’adulto di abbassarsi, Montessori abbassa il mondo in cui il bambino è situato. Diventa per noi chiaro che si tratta di due studiosi con una differenza sostanziale: Korczak agiva tutti i giorni con i bambini, condivideva tutto di loro e la sua osservazione poteva dirsi naturale, mentre la grande pedagogista italiana osservava i bambini diremmo oggi in situazione. Montessori non si abbassava al bambino, ma abbassava loro il mondo, non faceva come loro, ma faceva le cose per la loro misura, alla loro portata.

La seconda riflessione riguarda la voce. L’impossibilità di ogni freddezza, la negazione della ricerca di pesanti dettagli-dogmi che socchiudono la porta all’innovazione propria e sfrenata del bambino, la sua chiamata ad essere ribelle per seguire la sua vera natura, è la voce unica e inconfondibile del dottor Henryk Goldszmit, in arte Janusz Korczak. Un uomo il cui desiderio più grande era quello di ridiventare un bambino, non lui bambino, ma UN bambino, uno qualsiasi, quello sì davvero GRANDE.

 

[1] Janusz Korczak, “Il vecchio dottore – Dialoghi scritti e radiofonici 1930-1939”, a cura di Dario Arkel, trad. dall’originale polacco Izabela Stanecka, con un saggio di Anna Basso, Zeroseiup ed., Bergamo, 2019

[2] Janusz Korczak, “Il diritto del bambino al rispetto”, Luni ed., Milano, 2004, pag. 29

[3] Janusz Korczak, “Quando ridiventerò bambino”, Luni ed. Milano, 2017, pag.113

[4] M. Montessori, “Educare alla libertà”, Oscar Mondadori, Milano, 2019, pagg.53-54

 

Le immagini sono tratte dal film del 1990 Dottor Korczak, di Andrzej Wajda.

 

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