Loris Malaguzzi (Zerosei, dicembre 1979)
Quarant’anni dopo
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Ricordate il bambino e le due madri che lo rivendicano davanti a re Salomone?
La vicenda allora finì bene. Ma che sarebbe accaduto se a dirimere la questione non ci fosse stata la saggezza di Salomone?
L’immagine di quel bambino ritorna, tirato com’è, da una parte e dall`altra. Al centro di una situazione educativa e scolastica da rimuovere e da riformare, a monte e a valle, il bambino corre il rischio di essere strappato come cosa di poco conto, contando, assai più di lui, interessi di altro spessore e di altro genere.
Solo per avere sollevato, nel numero precedente, la questione della «primina» che, covata da vergognosa connivenze ministeriali e private, è oggi di fatto una speculazione che sta crescendo non importa se brutalizzando la natura e gli interessi del bambino, molte lettere e telefonate (non poche contro) sono piovute sul nostro tavolo.
Nonostante possa apparire che il discorso parta da lontano noi continuiamo a sostenere che il destino del bambino, se è questo che si vuole, lo si gioca sul tavolo della riforma della scuola secondaria superiore ‘dove si accampano i segni distintivi e essenziali della concezione culturale e politica che sottende l’intero processo di formazione e da cui derivano in alto (università) e in basso (scuola dell’obbligo e scuola «preparatoria») i terminali di un cammino coerente e finalizzato.
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È di lì che attinge (lo voglia o no, nel bene e nel male) la pedagogia del bambino: nelle sue linee di forza teoriche e pratiche che sostengono il decisivo tema del rapporto del bambino con l’adulto.
Questo del rapporto con l’adulto – abbandonata che sia la retorica delle vocazioni e delle attitudini e quella più colpevole delle gerarchizzazioni professionali che degradano via via ci si avvicina alle fasi iniziali della formazione dell’individuo (ambedue abbondantemente utilizzate dalla cultura dominante) – è la chiave che se non decide tutto, decide molto della qualità educativa che occorre al bambino.
Oggi per quanta generosità e disinteresse si butti, le risultanze concrete acquisibili dal bambino nella frequenza della scuola materna e dell’infanzia (statale, comunale, privata o autonoma che sia) è spesso notevolmente al di sotto dei livelli di attesa. La pedagogia che viene utilizzata è spesso niente di più di una testimonianza personale, sorretta da una conoscenza effimera e fantasiosa dei problemi che essa comunque solleva, in balia delle mode e degli schemi che le grandi centrali nazionali e multinazionali della pedagogia industriale immettono clinicamente sul mercato.
Dove sta la cultura dei docenti e dove la proiezione culturale del bambino che sarà uomo nel 2000?
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Queste cose vanno richiamate, anche se non piacciono, oggi che si riparla della riforma della scuola elementare, stretta dappresso non solo dalla 517 ma dai cambiamenti (in vigore da quest’anno) prescritti per la scuola dagli 11 ai 14 anni. Mentre sì addensa il silenzio sulla riforma della secondaria. Mentre i decreti di aggiustamento dell’Università accendono scontri e resistenze. Mentre gli organi collegiali e della partecipazione sono in camera di rianimazione.
È in questa parentesi piena di contraddizioni, di cose irrisolte, di cose che avanzano e di altre che indietreggiano che la evocazione, tanto insistita e insistente, dei problemi della scuola dell’infanzia, dell’anticipazione dell’obbligo a 5 anni (sia pure attraverso una prima fase di generalizzazione della frequenza dell`ultimo anno della scuola dell’infanzia) risuona difficile e inentusiasmante in ogni sua ipotesi. Non immune da molti equivoci, da silenzi che non chiariscono, da teorizzazioni improvvise, da operazioni, che spavaldamente e spesso irresponsabilmente semplificano dati e fenomeni di estrema complessità.
Solo in un quadro di coerente chiarezza e continuità dentro e fuori la scuola (il che significa esigerla anche ai livelli primari di responsabilità politica e legislativa e nel quadro del dettato costituzionale) si situa il discorso sul bambino, sulle opportunità e sugli obiettivi della sua formazione, sulla sua collocazione nella scala delle istituzioni ecc… Discorso che è credibile solo se immesso in un lungo e unitario progetto, contemporaneamente ai temi delle discipline e delle didattiche e soprattutto della formazione e del reclutamento degli insegnanti. Allora tutto si spazia, chiede garanzie e confronti su non poche questioni collaterali.
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Quanto abbiamo detto non vuole affatto disconoscere la legittimità, l’opportunità e l’utile ricavabili dalle riflessioni che investano, come si dice, lo specifico della questione bambino e della questione culturale economica e politica che ancora divide l’organizzazione complessiva, istituzionale che si rivolge al bambino dai 3 ai 6 anni.
Ci sia consentito però di insistere che le questioni non si misurino solo nei loro aspetti ideologici. C’è bisogno di supporti molto certi e concreti, informazioni, dati, statistiche, studi, indagini, fenomeni previsionali, interventi e competenze da chiarire e decidere; e poi piani di sperimentazione seria e scientificamente controllata.
Ma tutto non avrà ancora che poco senso se il primo atto di riflessione e di azione non sarà quello di assicurare ai bambini ancora esclusi (e sono ancora il 34% degli aventi diritto), di poter entrare nelle scuole, di entrare in scuole decenti, di accedere alla mensa e di cominciare da una eguale linea di partenza.
L.M.
Da dicembre 1979 sono passati quarant’anni. Moltissime situazioni sono cambiate. Ma i problemi che ci troviamo davanti, quanto sono diversi? Quanto è maturata la preoccupazione politica e pedagogica dell’educazione che richiede una visione unitaria del processo, consequenziale nelle scelte? Forse i nodi che impediscono una visione unitaria e coerente dei processi educativi dal Nido all’Università, si sono incancreniti ostaggio di interesse di lobbies accademiche, sindacali, burocratiche che ai bambini e all’educazione riservano scarsa attenzione.
Malaguzzi si preoccupava dei bambini che sarebbero stati uomini nel 2.000. Noi conviviamo oggi con quegli uomini e con la generazione successiva. Vogliamo provare a riflettere sulla storia dell’educazione e negli passati cinquant’anni e sulle prospettive che potremmo ancora costruire?
Viviamo tempi di incertezza non solo politica, ma (temiamo) anche culturale. C’è una tendenza diffusa a fuggire dai problemi concreti, immediati, reali che pur sembrando di piccole dimensioni richiedono per la soluzione impegno costante, quotidiano, logorante. Sembra più facile l’evasione sulle grandi affermazioni di principio su cui nessuno può essere contrario. Sbandieriamo, anche giustamente grandi proclami, attenzioni ai problemi globali. Ma chi si preoccupa dei piccoli passi per arrivare al risultato che tutti ci ripromettiamo?
Possiamo concentrare l’attenzione sulle iniziative minute che in tante realtà si portano avanti, con fatica e difficoltà, per sostenere concretamente i servizi per l’infanzia, per tentare qualche passetto sulla strada della continuità reale e non a parole, cercando di smuovere le resistenze delle burocrazie (r)esistenti, della molteplicità di soggetti che pretendono di dire la loro e che si contrappongono nel quotidiano della vita dei servizi.
Abbiamo un’idea (per quanto utopica rispetto alle resistenze dei baronati consolidati) di un sistema educativo che rispetti la continuità del processo vitale del cittadino?
Avviamo una riflessione e una discussione identificando anche ruoli concreti, competenze, impegni?
F.C.