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Servizi all’infanzia: riflessioni per un “invecchiamento attivo” delle imprese sociali

intervista a Francesca Gennai a cura di Ferruccio Cremaschi

“Gli importanti mutamenti di carattere economico, demografico e culturale, politico e tecnologico che stiamo vivendo” ci interpellano rispetto alla necessità di innovare anche in campo educativo in una logica di apertura oltre i confini organizzativi.

 

Ha sollecitato la nostra attenzione un articolo a firma sua e di Flaviano Zandonai “Servizi all’infanzia: riflessioni per un “invecchiamento attivo” delle imprese sociali. La premessa da cui partite è che il campo del sociale è investito da un’enfasi sull’innovazione. Può aiutarci a analizzare i fattori che sollecitano forme di cambiamento non solo nei modelli di servizio?

Nuove idee che siano di prodotto, servizio o modello muovono dalla necessità di soddisfare i bisogni naturali delle persone (la cura, l’educazione, la protezione, il lavoro…) in modo più efficace rispetto all’esistente. Non è inopportuna quindi l’enfasi posta sull’innovazione proprio in ambito sociale visti gli importanti mutamenti di carattere economico, demografico e culturale, politico e tecnologico che stiamo vivendo. Sono questi infatti i driver che determinano di cosa le persone, le comunità hanno bisogno per stare bene e sui quali si definiscono “gli interessi generali” che necessariamente indirizzano, o dovrebbero, la natura dei servizi e il loro modo di funzionare. Questo ovviamente se salviamo il principio di senso che sono le forme di cura o di educazione che devono adattarsi alla vita e non è la vita che deve adattarsi ai modelli di servizi possibili. Volendo esemplificare, e guardando ai servizi all’infanzia, pensiamo a come sono cambiati in risposta al calo della natalità. In Italia oggi le famiglie con un solo figlio sono il 46,5%, quasi una su due. L’assenza di fratelli, sorelle, cugini toglie ai bambini la possibilità di avere esperienze regolari di vita con i pari e misurarsi con alcune sfide, come la condivisione degli affetti, dell’attenzione degli adulti, etc… I servizi alla prima infanzia sono così diventati oggi molto spesso il primo luogo di socializzazione, dove i bambini, ma anche i loro genitori, fanno esperienza di comunità e superano l’idea della genitorialità come “fatto privato”. La solitudine in termini di cornici educative dei genitori di oggi passa anche attraverso luoghi di incontri condivisi in cui i protagonisti (bambini, genitori e territorio) si possono incontrare e costruire comunità dentro e fuori dai servizi, costruendo relazioni autentiche. Questo passaggio ha portato necessariamente i servizi a rileggersi nella loro azione con i bambini, con le famiglie e il territorio, riorganizzando ad esempio il planning settimanale con aperture alla comunità fuori dal canonico orario di servizio. Questo è solo uno dei driver perché il cambiamento risente di tanti fattori fra i quali il ridisegno delle politiche.

 

Infatti i servizi per l’infanzia sono un campo particolarmente messo sotto pressioni anche dagli interventi normativi seguiti alla legge 107/2015 (buona scuola). Si apre uno scenario dirompente che mette in discussione la divisione tra Nidi e Scuola dell’infanzia, in gran parte afferenti a gestori diversi (in buona parte d’Italia la Scuola è presente solo o quasi in esclusiva come scuola statale, le imprese della Cooperazione sociale sono tradizionalmente presenti nel settore zerotre). Quali urgenze si pongono per una riflessione interne alla cooperazione e per una prospettiva di messa in rete di soggetti diversi “costretti” a collaborare? Come si colloca la pratica della coprogettazione in un contesto in cui ancora vige un sistema di concorrenza con gare al ribasso? In questo intrecciarsi anche di interessi economici, in qualche caso di problemi di sopravvivenza, come riusciamo a tenere al centro il bambino?

Qui mi viene in primis, e mi permetto, una battuta. “Tenere al centro il bambino” è il leitmotiv di qualsiasi convegno, seminario, e avanti così. Ci si accorge però nei fatti che i servizi all’infanzia sono fatti da adulti in dialogo con altri adulti e spesso in questa conversazione sono più le ragioni di ordine economico, gestionale a prevalere che quelle pedagogiche – educative. Anche noi, i cosiddetti addetti ai lavori, dovremmo riflettere su questo. Al netto di tutto ciò la questione che si pone è sicuramente cruciale ma c’è da dire che non si parte dall’anno zero. Il tema della continuità zero6 è già oggetto di lavoro fra il servizio nido e la scuola dell’infanzia e le piste da seguire per garantire una coerenza educativa sono state individuate: raccordo linguistico, cura e apprendimenti come le due eliche del dna di entrambi i servizi, competenze dei professionisti e figure di raccordo, come le atelieriste. Ci sono esperienze virtuose in questa direzione, anche qui in Trentino, il mio osservatorio, ci sono cooperative che lavorano a stretto contatto e in modo proficuo con soggetti pubblici titolari del 3–6. Certo questo non può essere lasciato “alla bontà” delle persone e dei singoli casi. Dovrebbe trovare una cornice normativa di senso che valorizzi la specificità di ambi i servizi senza un ordine “gerarchico” fra i due e che permetta di valorizzare il know how maturato nel tempo. La co – progettazione ad oggi è una chimera che porterebbe però a superare la relazione committente – fornitore in una partnership di co-responsabilità reale, ma soprattutto porterebbe ad integrare nelle politiche pubbliche i bisogni veri della comunità (e qui mi permetto una provocazione per la cooperazione sociale che dovrebbe domandarsi se è in grado di essere sentinella dei bisogni della società civile). Ma la co – progettazione permetterebbe anche altro. L’educazione 0–3 in questi anni ha avuto degli sviluppi interessanti e molta ricerca empirica muove dalla cooperazione sociale che ha il limite se vogliamo di trattenerla per sé, di non riuscire a socializzarla e a metterla a disposizione proprio per timore che il proprio know how, diventando pubblico, non sia più distintivo in sede di gare d’appalto. La questione del massimo ribasso non solo quindi pone vincoli di sostenibilità, ma soprattutto di non massimizzazione e messa a sistema di conoscenze, e buone pratiche educative. In questa logica ci perdiamo tutti.

 

In un quadro generale poi comunque segnato dalla drastica riduzione delle disponibilità economiche degli Enti locali e dalla riduzione obbligata del personale che limita sostituzioni e nuove assunzioni, quali modelli e forme di collaborazione stanno prendendo corpo tra i diversi soggetti?

In questo momento le preoccupazioni legate alla disponibilità economica non derivano tanto dalla riduzione delle possibilità, ma dagli effetti del rinnovo del contratto collettivo delle cooperative sociali che riguarda oltre 400.000 addetti al settore. L’accordo, raggiunto qualche mese fa dopo 6 anni dalla scadenza del precedente contratto, mette circa 30.000 cooperative sociali che lavorano nel comparto socio sanitario, assistenziale, educativo ed alle attività annesse, nella condizione di cercare soluzioni affinché il rinnovo sia solo una buona notizia per un settore tradizionalmente “sotto pagato” e sotto stimato rispetto al suo impatto sociale. Non si ravvisano al momento, o non le ravviso io, forme collaborative volte a trovare soluzioni sulla sostenibilità dei servizi, ma questo è un nodo che, se non sciolto rapidamente, e si può sciogliere solo nel dialogo pubblico – privato – rappresentanze sindacali, avrà presto effetti sulla qualità dei servizi erogati ed il benessere di quanti lavorano in questi ambiti. E qui una nota: l’educazione è uno degli asset di sviluppo di un Paese in grado di innescare fenomeni di uguaglianza sociale, non lo dico io ma studiosi/economisti illustri come Piketty per citarne uno. Ecco paradossalmente però è uno degli ambiti meno riconosciuti a livello di investimento pubblico e dove chi vi lavora ha una bassa percezione di riconoscimento sociale.

 

La normativa che si sta faticosamente traducendo in indicazioni pratiche prevede una maggiore competenza professionale degli educatori, che impatta da un lato su una generazione che ha costruito sulla sua esperienza la cultura dei servizi e che si avvia al pensionamento e dall’altro lato sull’immissione di personale giovane che è portato a dare per “scontate” le buone pratiche costruite nei decenni. In più viviamo ancora una doppia strada nella formazione di educatori e di insegnanti.

Quali saranno i passaggi per la costruzione di una figura professionale matura di educatore/trice zerosei?

Indubbiamente un primo step necessario da compiere è un percorso di ri – disegno del curriculum formativo che va necessariamente seguito a livello universitario fra educatori – insegnanti trovando punti di contatto. La situazione però, come sappiamo, è ancora più complessa e riguarda il sistema Paese che non ha “strategie” reali per il long life learning che invece potrebbe essere la chiave per sostenere nell’arco della vita di una persona la possibilità di “capitalizzare” le proprie conoscenze (sia pratiche che teoriche) e passare da una professione ad un’altra o ampliare il proprio raggio di azione. Siamo legati ad un paradigma separazionista e poco alla logica dell’e. E da qui una provocazione. I pediatri si occupano della salute dei neonati, bambini, adolescenti. Impossibile pensare che ci possa essere una figura orientata alla cura e all’educazione 0–6? Altro aspetto, che è anche una preoccupazione economica, è la scadenza che attende tutti al primo gennaio 2021 quando, chi non in possesso della laurea nella classe L-19 dovrà aver “regolarizzato” la propria posizione attraverso un percorso universitario di 60 crediti. Qui il tema della sostenibilità economica ed organizzativa, parlando appunto di sostituzioni, andrà necessariamente affrontato.

 

Un’altra novità abbozzata dalla normativa oltre i poli educativi (che non possono essere solo esercitazioni architettoniche) e forse, anche nell’ottica dei poli zerosei è la generalizzazione del coordinatore pedagogico territoriale: altri problemi di competenze, di relazioni, di convivenza?

Possiamo senza nasconderci mettere dentro anche un altro problema, quello del riconoscimento economico. Lo stipendio di una educatrice e di una insegnante non sono allineati, né tanto meno lo è quello di chi lavora in un servizio di una cooperativa sociale e di uno analogo del pubblico. I dispositivi per una reale continuità educativa zero6 possono essere molteplici, ma per me il primo lavoro da fare è sul piano dei professionisti che hanno bisogno di vedersi come una unica comunità professionale di pratiche. Nido e scuola dell’Infanzia devono rivedersi negli aspetti pedagogici e adottare approcci coerenti rispetto la socializzazione, il gioco, il sostegno l’autonomia, le routine quotidiane, lo sviluppo e gli apprendimenti. Così come il linguaggio, lo strumento centrale che permette ad un bambino di rappresentarsi nella crescita. Il pensiero comune identifica nel nido il luogo della cura, nella scuola dell’infanzia quello dell’apprendimento. Questa scissione va ricucita, devono essere rimesse in gioco le rappresentazioni e le credenze che gli educatori e gli insegnanti hanno rispetto al loro ruolo e alla loro competenza. Il tutto potrebbe muovere dal protagonismo della figura del coordinatore pedagogico territoriale, perché l’intra – servizio è la vera sfida innovativa e per vincerla, nel nome del “mettere al centro il bambino”, il dialogo necessariamente è ancora fra adulti. Dialogo che però ha bisogno di una piazza, dove l’ente pubblico crea il setting di confronto idoneo a sostenerlo. Il tutto potrebbe muovere dal protagonismo di una figura di coordinamento pedagogico territoriale in partire da un manifesto pedagogico zero6 a livello nazionale, la cornice di senso intorno al quale confrontarsi.

 

Infine, quale è la situazione della Cooperazione e le prospettive di sviluppo e crescita? C’è stato probabilmente un consolidamento delle imprese esistenti anche attraverso concentrazioni e consorzi. Ci sembra siano comunque presenti due modelli: la cooperativa a dimensioni locali molto concentrata su un territorio e tesa a coprire le diverse esigenze educative e sociali del territorio puntando su una forma di continuità nella presenza e la cooperativa “specializzata” a dimensioni nazionali che lavora su economie di scala e che può permettersi investimenti rilevanti anche sulla formazione e delle risorse umane specialistiche. Quale è il quadro della situazione dal suo osservatorio?

Credo che in una fase di maturità qualsiasi fenomeno, cooperazione sociale compresa, non debba essere letto secondo classificazioni troppo rigide, ma richieda analisi più raffinate. Siamo davvero sicuri, ad esempio, che “piccolo è bello” e che, al contrario, le grandi dimensioni impoveriscono i servizi della loro dimensione relazionale e comunitaria? Io non ne sarei così sicura e credo che per valutare puntualmente l’evoluzione della cooperazione, anzi del più vasto campo dell’impresa sociale, sia necessario porsi in un’ottica che non è solo gestionale o di coordinamento ma di trasformazione dell’esistente. Darsi e perseguire obiettivi di impatto sociale è davvero la chiave di volta per imprese che – piccole o grandi che siano – mirano a essere agenti di cambiamento e non semplicemente longa manus della pubblica amministrazione o del mercato. Chi saprà ricomporre una pluralità di prestazioni innovando i sistemi di offerta e di coproduzione di beni di interesse collettivo “vincerà la partita”. Rispetto a questo obiettivo credo sia indispensabile una riforma profonda dei meccanismi e delle forme di rete. Troppo spesso infatti si tratta di network con mere funzioni di supporto e di programmazione che hanno pochi punti di contatto con l’economia e la società “reale”. Aprirsi in un’ottica di piattaforma – capace cioè di abilitare contributi di varia natura e che non necessariamente si fissano all’interno dei propri confini organizzativi – rappresenta a mio avviso la vera sfida rispetto ad un modello di crescita impact oriented dell’impresa sociale.

 

Francesca Gennai

Sociologa, già ricercatrice alla Fondazione Franco Demarchi su temi quali il nuovo welfare di comunità e la relazione fra genere, mondo del lavoro e generazioni.

È presidente della cooperativa sociale La Coccinella (Trento).

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