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Walter Ferrarotti: il passato è davanti a noi

Francesco Garzone, curatore del saggio Walter Ferrarotti, pedagogista della biodiversità

Un sistema scolastico complesso

 

Durante quest’anno accademico, nell’ambito delle lezioni integrative al corso di Storia di Modelli Pedagogici e delle Istituzioni Assistenziali[1], in più occasioni mi è capito di intersecare, nello sviluppo degli argomenti, il pensiero e l’opera del pedagogista torinese Walter Ferrarotti. Ad esempio, quando ho cercato di mettere in risalto la sua grande abilità di saper coniugare in una visione concreta teoria, metodologia e prassi. Oppure quando non ho potuto fare a meno di sottolineare la sua grande capacità di realizzare il presente pensando al futuro, cioè non facendosi prendere da una girandola fenomenologico – emergenziale e mantenendo dritta la barra sulla quantità, ma ancor più sulla qualità dei servizi che, man mano, sono sorti sotto la sua abile regia.

Si trattava e ancora oggi, seppur tra mille difficoltà, si tratta del sistema scolastico del Comune di Torino, dei suoi nidi, delle sue scuole materne, dei suoi laboratori e dei suoi centri di documentazione, dei suoi Centri Educativi Speciali Municipali (C.E.S.M.), del suo sistema motivazionale e formativo delle educatici e delle insegnanti. In sostanza si tratta di prendere atto di un’applicazione teorico – metodologica e pratica che non si è limitata a qualche vetrina narcisistica da poter ostentare, come esempio di buona prassi, in qualche scuola torinese più all’avanguardia; al contrario, ancora oggi si tratta di nutrire orgoglio verso un sistema complesso che, negli anni e a livello cittadino, è stato in grado di strutturare e mettere in atto una scuola di qualità, portandola sino nelle periferie più degradate della nostra città.

Un sistema che è stato in grado, anche precorrendo i tempi, di mettere in rapporto l’educazione dei bambini con temi più che attuali, quali quelli: di una società basata sull’avere, sul consumo e sulle conseguenze che tutto ciò produce nel merito della sostenibilità ambientale[2], dove il bambino fatica a trovare un proprio equilibrio tra gioco, educazione e natura; di cogliere la realtà nelle sue plurime diversità come valore, un valore che può declinarsi dalla unicità ed irripetibilità soggettiva di ogni bambino, sino a giungere alle possibili risposte da dare alle emergenze interculturali, dove il confronto con la diversità è arricchimento reciproco[3]; del rapporto tra l’educazione e lo sviluppo tecnico scientifico, dove è necessario interrogarsi e comprendere i significati educativi o diseducativi legati ai concetti di reale e virtuale[4]; della scuola che non deve essere solo quella della performance, ma deve saper anche trasmettere le giuste conoscenze per poter stare al mondo, dove la scuola e “scuola come vita”[5]; della socializzazione della scuola, dove contrariamente a Illich non si tratta di descolarizzare la società ma di socializzare la scuola, aprendo una dialettica collaborativa con una società educante, con forze sociali appartenenti al mondo della cultura, dell’arte, dell’università, dei mestieri. Inoltre, aprendosi al sapere e alle competenze che gli stessi genitori dei bambini o lo stesso quartiere dove è situata la scuola possono portare[6].

In buona sostanza una scuola vista non come un territorio a parte ma come parte viva e attiva del territorio.

Quanto sopra rappresenta, in estrema sintesi, una semplice lettura fenomenologica dell’eredità che Walter Ferrarotti ci ha lasciato e più avanti cercherò di approfondirne ciò che, a mio parere, è il suo incommensurabile significato causale, che porta in sé un grande insegnamento.

 

I dati dell’attualità in una transizione epocale

Oggi, non possiamo nascondercelo, ci sono dei problemi: si pone sempre più impellente la necessità di trovare delle soluzioni per non perdere l’eredità ferrarottiana che si sostanzia in quell’enorme patrimonio culturale, teorico e metodologico che è il sistema scolastico del Comune di Torino. Dunque, non rimane altro che far parlare i numeri? Certo, i dati indicano che questa nostra amata città è invecchiata, su un totale 884.733 abitanti l’età media dei torinesi è di anni 46, ma non solo, la media dell’età dei dipendenti comunali è di anni 55, insegnanti ed educatrici comprese. Inoltre va detto che ci sono pochi bambini: ogni mille abitanti vi è un rapporto nascite mortalità sbilanciato verso quest’ultima, sono solo 7 i neonati che nascono rispetto ai 12 cittadini che muoiono. I bambini compresi nella fascia 0 – 5 anni sono solo 41.224, quindi si parla della fascia di coloro che potenzialmente potrebbero frequentare i nidi e le scuole materne comunali, tenendo conto che buona parte di questi bambini frequentano le scuole materne statali, oppure scuole private parificate, o, per problemi economici, perché impossibilitati al pagamento delle rette scolastiche, sono tenuti a casa. Invece i bambini della scuola primaria di primo grado, compresi nella fascia di età 6 –11 anni sono 44.991 ed i ragazzi della scuola secondaria di primo grado, compresi nella fascia di età 12 – 14 anni, sono 21.518. Gli stranieri regolarizzati residenti a Torino sono 132.806 e nelle fasce di età sopra riportate possiamo notare che in quella 0 – 5 anni il loro numero ammonta a 11.465, nella fascia 6 –11 anni sono 10.028, invece nella fascia 12-14 anni sono 3.577[7].

Questi dati statistici vanno inoltre inseriti nel quadro socio economico di una città che, come altre società occidentali, ormai da anni sta vivendo una faticosa transizione che dalla modernità la porta verso la postmodernità e dal modello della grossa industria, visto come polo di sviluppo permanente, è andata verso il postindustriale, il terziario, la grande distribuzione, il turismo, la cultura e gli eventi, l’alta tecnologia ed il rendere attrattivi i propri poli universitari.

La Città di Torino ormai da molti anni, ha cercato di dotarsi di nuove strategie e strumenti per stare al passo con l’esigenza di dover amministrare un territorio ed una cittadinanza che nelle loro diverse forme espressive, sociali, culturali ed economico – produttive si profilano sempre più complessi, globalizzati, interconnessi ed interdipendenti. Non ha potuto evitare, soprattutto a partire dalla crisi economica e del mondo del lavoro avviatasi dall’anno 2007 in avanti, di doversi: da un lato confrontare con gli effetti dei processi di globalizzazione, con il fiscal compact ed i patti di stabilità, con i tentativi di rientrare dai debiti pubblici e con la conseguente crisi delle relative risorse umane e finanziarie, con la crisi di competitività del costo del lavoro, con la delocalizzazione degli apparati produttivi e con la disoccupazione, con la crisi dell’edilizia e del commercio al dettaglio e dall’altro con un vertiginoso sviluppo tecnico scientifico e delle comunicazioni, della robotica e dell’automazione dei processi produttivi, con l’esigenza, già indicata da Jeremin Rifkin di una “terza rivoluzione industriale”[8] che vede nello sviluppo delle reti informatiche, produttive ed energetiche la possibilità di ridurre i costi del funzionamento sociale ed avviare nuove forme di sviluppo e lavoro[9], con le esigenze interculturali di una società sempre più multi etnica e multi culturale.

Questa complessità, che rientra appieno, come già sopra accennato, in quella di un occidente che sta attraversando una transizione epocale che dalla modernità lo porta verso le fenomenologie della postmodernità e dalla società solida delle industrie novecentesche a quella liquida del postindustriale, del consumo[10] e dell’alta tecnologia, interroga ed investe anche gli Enti Pubblici.

 

Alcune difficoltà del sistema scolastico del Comune di Torino oggi

La stessa Città di Torino a causa del rispetto dei patti di stabilità e dei necessari investimenti che si sono dovuti fare per portarla al livello di una dignitosa metropoli europea è in perenne carenza di risorse economiche ed anche umane. Inoltre il blocco del turnover e le modifiche introdotte dalla legge Fornero, hanno spostato sempre più avanti nel tempo l’agognato pensionamento per migliaia di lavoratori. Il risultato di tutto ciò è la sopra citata media molto alta dell’età dei dipendenti comunali, insegnanti comprese. Oggi forse, senza voler offendere alcuno, posso dirlo senza indugio: la lettura della fenomenologia che si pone ad un’osservazione esterna presenta un quadro complesso ed oserei dire anche un po’ rassegnato. Infatti, ma spero proprio di essere in errore, non emerge alla mia attenzione una visione politica sugli obiettivi e sulla direzione che il sistema scolastico del Comune di Torino sta perseguendo. Osservandolo dall’esterno pare molto impegnato a rincorrere le emergenze più che a pianificare il futuro. Posso confrontarmi con insegnanti “sfiancate” dai tanti anni di insegnamento, demotivate da magri stipendi mai aggiornati da contratti sindacali per lunghi anni bloccati dalla crisi economica, disorientate dai processi di aziendalizzazione che hanno creato, negli anni, inutili competitività e a volte anche gerarchie auto referenziali; insegnanti che non si sentono più parte di un progetto condiviso e che vedono i propri funzionari ed i propri dirigenti come appartenenti ad altri mondi, quelli del primato dell’homo oeconomicus[11], del management, dei numeri, dei bilanci, della razionalizzazione delle risorse umane, dell’aumento dei carichi di lavoro, del pur mirabile tentativo di tenere aperti servizi in affanno. Ciò che si è creata è una separazione, oserei dire consensuale, tra chi dirige e chi esegue ed in tutto questo prevalere delle pur valide ragioni degli uni e degli altri mi chiedo che fine possa aver fatto la pedagogia e la centralità del bambino di ferrarottiana memoria.

Forse per meglio leggere le vicissitudini del sistema scolastico torinese è necessario, elevandosi dai suoi affanni, imparare a guardarlo un po’ più da distante. Infatti non possiamo più guardare attraverso “lenti” tardo novecentesche una realtà che costantemente muta, una società e dei processi culturali ed interculturali, tecnico scientifici e socio economici che corrono velocissimi, creando nuove forme di economia e suggerendo nuove modelli di welfare.

Se gli Enti Pubblici non si attrezzano per stare al passo con queste nuove prospettive rischiano di rimanere al palo rispetto ai contesti sociali, culturali ed economici che devono amministrare. La sfida che il postmoderno pone alle Amministrazioni Pubbliche sta proprio nella loro capacità di potersi dotare di nuovi strumenti e funzioni che creativamente possano stare al passo con il cambiamento.

All’oggi, gli Enti Pubblici, non hanno più a loro disposizioni il “potere del tempo mitico” di disponibilità economiche importanti, pertanto i processi socio economici e lo stesso welfare state non possono più guidarli dal “di sopra” ma è necessario che possano farlo dal “di dentro” o standone a fianco, nel creare, in una sorta di sociologia dei legami, una fitta rete di relazioni, dove queste ultime, nella “sburocratizzazione” ed umanizzazione dei processi sociali, possano acquisire anche un valore economico[12].

Come spiega la più attenta sociologia politica, devono imparare a stare dentro o a fianco i processi, come esempio virtuoso di impegno, in un ruolo di attivatori, facilitatori, ricercatori di risorse, creatori di sinergie, sperimentatori di nuovi modelli di cultura e sviluppo. In tal senso se non potranno più guidare i processi socio economici dal di sopra lo potranno fare non rinunciando alla loro “responsabilità educativa”, volendola intendere nel preciso significato latino della parola educazione, cioè nel e – ducere, nello stare innanzi, nell’indicare la strada, nel trarre fuori il meglio che la propria cittadinanza può mettere in campo.

A tal proposito, non posso fare a meno di pensare alla capacità che Walter Ferrarotti aveva di, sapendone anche prevedere i futuri battiti, ascoltare il cuore pulsante della società. Questa sua capacità di ascolto non era rivolta solo verso l’esterno ma anche all’interno, verso tutti coloro con i quali interagiva. Non mi sfugge il valore che lo stesso dava alle relazioni sociali, non solo realizzate nella sopra citata socializzazione della scuola, ma anche spingendosi sino al punto da dedicare almeno un’ora al giorno a tutti i collaboratori che chiedevano il suo ascolto.

A mio parere questa sua disponibilità non era solo una questione di buona educazione o di cortesia istituzionale, ma aveva un valore strategico, poiché in quegli incontri tesseva una fitta rete relazionale e motivazionale, dove ognuno riusciva a sentirsi compreso in un progetto condiviso. Questo suo riconoscimento andava con uguale intensità dall’operatore scolastico, all’educatrice, alla maestra, alla responsabile di servizio, tutti potevano avvertirsi come parte di un tutto, un tutto più della somma delle sue singole parti. In sostanza in quegli incontri, in quella fitta rete di relazioni e di legami sociali e professionali, lui applicava delle leggi sistemiche.

Ferrarotti un tratto identitario del sistema scolastico comunale torinese

Ho aperto questo mio articolo con una apparente contraddizione, cioè pensando a come i concetti ferrarottiani, che per alcuni detrattori potrebbero rappresentare il passato, possano essersi ben intersecati con i contenuti delle lezioni che ho tenuto per gli studenti del corso di Laurea in Educazione Professionale. Una contraddizione che potrebbe evidenziarsi soprattutto se penso al titolo che ho voluto dare a questo mio ciclo di lezioni: “Un nuovo mondo per una nuova educazione?”. I contenuti delle lezioni, in qualche misura, parlavano di futuro e quindi perché citare Walter Ferrarotti? In effetti si tratta solo di una contraddizione apparente poiché credo fermamente che l’opera ferrarottiana porti in sé un grande insegnamento che può essere applicato dal singolo soggetto ad intere istituzioni.

Traslitteriamo, dunque, tale insegnamento al livello delle istituzioni, pensando anche alle loro organizzazioni e a tutti i soggetti che ne permettono il funzionamento. Proviamo a pensare all’impellente emergenza di riuscire a stare al passo con una società che corre sempre più veloce. Proprio a tal proposito direi che: se le organizzazioni pubbliche devono imparare a lanciare le proprie intelligenze nella sperimentazione del futuro, non potranno mai farlo al meglio se allo stesso tempo non riescono a salvare i tratti identitari salienti del loro passato, vale a dire il proprio patrimonio culturale, teorico e metodologico, le proprie buone prassi, cioè quei valori essenziali che, al di là di tutte le esigenze di cambiamento, reggono l’usura del tempo, aiutandoci a comprendere chi siamo e dove vogliamo andare. Detto in altra maniera: risulta difficile sapere dove andare se prima di tutto non si sa chi si è. Quindi che sia ben chiaro, quando si incrocia sul proprio cammino Walter Ferrarotti, ciò che c’è in gioco non è la semplice nostalgia di un passato che non c’è più e mai potrà esserci, non si tratta solo di onorarne la memoria, ma si tratta di comprendere che lui, al più alto livello simbolico, rappresenta l’irrinunciabile ed indispensabile tratto identitario del sistema scolastico comunale torinese. Solo ripartendo da Ferrarotti, cioè dal chi siamo, si potrà comprendere chi vogliamo essere, cioè quale futuro poter dare alle Scuole dell’Infanzia del Comune di Torino.

 

Il valore della retrotopia

Le considerazioni poste a chiusura del paragrafo precedente mi portano a cogliere la peculiarità che avere memoria delle realizzazioni teorico – metodologiche ferrarottiane non significa rifugiarsi in una semplice visione retrotopica del passato, una visione ben descritta nel suo ultimo saggio, pubblicato postumo dopo la sua scomparsa, da Zigmund Bauman. Infatti egli lo ha voluto emblematicamente titolare “Retrotopia”[13]. Con tale termine ha inteso rappresentare uno degli aspetti salienti delle fenomenologie postmoderne e postindustriali: quello della nostalgia per il passato. Afferma che per certi versi si tratta di un’inversione, di un tentativo di voler rimettere indietro le lancette dell’orologio della storia, di un’utopia che, contrariamente a quelle che a partire da Tommaso Moro in avanti, sono sempre state rivolte verso il futuro, adesso si pone come retroattiva, guarda al passato. Quindi la retrotopia non mitizza più il futuro ma il passato. Volendolo, in altra maniera, dire con Benasayag, che traslittera nella nostra postmodernità un concetto di Spinoza, la nostra è “un’epoca di passioni tristi”, nella quale persiste una sensazione diffusa di impotenza, di non realizzazione e di disgregazione. Per meglio dire, si tratta di un’epoca in preda agli effetti dei processi postmoderni e postindustriali e alle plurime fenomenologie della globalizzazione. Si è persa la spinta positivista e scientista novecentesca che credeva in un futuro radioso, che non è più visto come risorsa ma come minaccia[14].

Allora dobbiamo chiedercelo, l’attualità del pensiero ferrarottiano significa abbandonarsi nostalgicamente alla memoria del passato? Su tale interrogativo, credo che meglio di qualsiasi prosa solo la poesia riesca a cogliere nei suoi significati essenziali quel po’ di verità che fenomenologicamente invece sfugge. Quindi, mettendomi in ascolto, lascio che sia lo stesso Ferrarotti a parlare: … Hai detto è passato. Non rimane che la memoria. Qui sta l’equivoco più grande di pensare la vita: la memoria è il nostro modo di vivere il futuro: è tutta “davanti” a noi …[15].

Ecco, la lettura dei significati contenuti in questi pochi versi, poiché scritti in tempi antecedenti l’uscita postuma del succitato testo di Bauman, porta ad attribuire alla retrotopia un ulteriore valore: il valore positivo non solo del passato ma anche del futuro. Nel senso del poter considerare la memoria come forza creatrice, non solo perché, come sopra accennato, ci ricorda chi siamo, ma anche perché è la base da cui parte e su cui si istituisce ogni creativa costruzione del futuro. In tal senso non si tratta più, quindi, di rendere valido il pensiero di Ferrarotti attualizzandolo, perché è già attuale, ma si tratta semplicemente di proiettarlo nel futuro, operando scelte, che potranno essere difficili, anche dolorose, ma soprattutto necessarie.

 

Che fare dell’eredità ferrarottiana

Quindi il vero obiettivo è la non dispersione dell’eredità ferrarottiana, un’eredità quanto mai attuale, se solo, ad esempio, vogliamo ritornare sul suo concetto di una scuola, intesa come scuola che deve insegnare a vivere[16]. Un tema rivoluzionario e profetico poiché presentato ben prima del 2015, prima dell’acuto “manifesto” di Morin, scritto allo scopo di esortare la scuola e l’educazione ad insegnare a vivere, attraverso tre riforme fondamentali: la riforma del modo di pensare, di conoscere e di insegnare[17]. In questo tema si racchiude la vera sfida dell’insegnamento e dell’educazione del XXI secolo. Come dovremo educare i nostri figli, cosa dovremo insegnare loro, in un mondo che corre veloce, sempre più complesso, interconnesso, interdipendente, precarizzato ed ipertecnologico? Un mondo che crea solitudini ed individualismi, che crea disuguaglianze, disgregazione dei legami sociali, torsioni antropologiche della società in derive narcisistiche, anche della stessa scuola[18], ove ognuno rischia di godere solipsisticamente del proprio oggetto di consumo; un mondo dove vi è la paura del diverso e dove non vi è la consapevolezza che la propria libertà non potrà mai essere goduta appieno se non passa attraverso la liberazione dell’altro, del diverso, del bisognoso[19], di tutti quei cittadini che Bauman definisce “vite di scarto”[20].

A mio parere Walter Ferrarotti aveva colto appieno la sfida educativa del terzo millennio e l’aveva fatta propria, ne aveva colto le contraddizioni e le possibilità e molto probabilmente, se la sorte non l’avesse tradito, nel suo futuro insegnamento universitario, ne avrebbe ulteriormente approfondito i concetti, formando, così come aveva fatto con le sue maestre, i suoi giovani allievi.

Oggi rimane la sua preziosa eredità, un’eredità che credo lo stesso Ferrarotti avrebbe voluto connotare come socializzata in una dimensione di reti e di sinergie, di sostegni esterni e posta nell’ambito di un vero sistema scolastico integrato pubblico, parificato, privato. Si tratta di un patrimonio cittadino e non dobbiamo pensare che possa essere di solo appannaggio del Comune di Torino. Infatti, non a caso, Ferrarotti aveva portato il proprio impegno e contributo anche presso la Federazione Italiana Scuole Materne (F.I.S.M.). L’idea potrebbe essere quella che nella socializzazione di questa eredità veramente il tutto possa produrre molto di più di ogni sua singola parte, perché, come già sopra accennato, le relazioni intese nell’ambito delle sinergie e delle reti possono produrre anche un valore economico.

Il Comune di Torino dovrà prendere atto, a causa delle condizioni socio economiche sopra presentate e della carenza di risorse umane, che purtroppo esistono servizi che non si riuscirà a tenere aperti. Attenzione però, come dice Morin la logica deve essere quella di evitare che “Tutto ciò che non si rigenera degenera[21], per evitare questo pericolo dovrà veramente funzionare quel sistema integrato dei servizi scolastici torinesi in grado di accogliere e fare propri gli insegnamenti ferrarottiani, il suo apporto teorico – pedagogico, didattico – metodologico e realizzativo. In tal misura si entra in una dimensione di rigenerazione, poiché quello di Ferrarotti diviene un patrimonio che altri potranno portare avanti, anche sviluppandolo a livello cittadino.

Certo, una maggiore lungimiranza da parte dell’Assessorato alle Risorse Educative e della Stessa Università degli Studi di Torino, sarebbe stata utile, ad esempio nell’approfondimento del pensiero di Ferrarotti, attraverso un dottorato di ricerca, ma ciò non è stato possibile. L’università ha potuto solo impegnarsi nei lavori di tesi che trattano l’opera ferrarottiana.

 

Il significato dell’eredità

Non ho dimenticato le parole con cui ho chiuso il primo paragrafo di questo articolo, lasciando in sospeso i significati causali dell’eredità ferrarottiana e giungo finalmente ad esporli.

Ferrarotti, durante tutta la sua lunga carriera, ha saputo incarnare al meglio la funzione simbolica paterna, la sua è stata una leadership basata sull’esempio etico, sull’inclusione, sulla mediazione, sul convincimento, sul legame sociale. Come ogni buon padre simbolico ha saputo al meglio rappresentare il significante della legge, volendolo dire con Lacan, quel significante che tiene assieme in un discorso di senso tutti gli altri significanti[22]. In questa dimensione la sua figura ha rappresentato il collante che ha tenuto assieme in progetti e realizzazioni condivisi politici, tecnici e migliaia di collaboratori. Però il padre simbolico lascia ai propri figli la responsabilità della propria eredità e per poterla vivere appieno, come direbbe S. Freud citando Goethe, è necessario che: “…ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero…”[23]. Quindi si tratta, attraverso il riconoscimento del proprio debito simbolico verso un padre giusto, di non accogliere passivamente un’eredità già costituita, ma è necessario che questa sia soggettivizzata e fatta propria. Scrive Recalcati: “Senza questo movimento di ripresa del passato che ci costituisce, senza questo doppio tempo in cui dobbiamo fare nostro ciò che è già stato nostro, dove dobbiamo ripetere ciò che ci ha costituito, non si dà alcuna esperienza soggettiva dell’eredità. L’eredità non è mai per natura, per destino o per necessità storica. Non è un’obbligazione sebbene implichi un vincolo, un debito simbolico. Se l’eredità è un movimento soggettivo di riconquista del proprio essere stato, essa non definisce solo un evento di discendenza, ma è la stoffa stessa di cui è fatta la realtà soggettiva.”[24]

In tal senso possiamo dire che l’eredità di cui si tratta, nasce dalla mancanza di un padre simbolico, che ha saputo creare attorno a sé consenso per poter dettare e condividere le proprie regole, che per noi diviene fonte di desiderio, un desiderio che porta anche alla riconquista, facendolo proprio, di ciò che già si possiede. In altra maniera dobbiamo chiederci, al di là dei riferimenti teorico – metodologici e del lungo elenco delle sue realizzazioni, quale vera eredità Ferrarotti ci ha lasciato? Ebbene lo testimonia tutta la sua vita: ci ha lasciato in eredità la grande responsabilità del desiderio[25]. Lui è stato un uomo che non ha mai voluto desistere dal proprio desiderio di fare bene. Apparentemente sembra che ci abbia lasciato in eredità il suo sapere, ma non è così. Per poter fare veramente nostro quel sapere è prima necessario saperlo perdere, per poterlo nuovamente amare e desiderare. Il vero sapere è il desiderio e l’amore per il sapere, che sempre nasce dal prendere atto di una mancanza[26].

Alla luce delle considerazioni sopra poste e pensando alla crisi che sta attraversando il sistema scolastico del Comune di Torino oserei evidenziare che le possibili soluzioni non si possono esaurire solo grazie ad un colpo di bacchetta magica, capace di rimettere a regime tutte le risorse umane e finanziarie. Certo delle risorse in più sarebbero utili, ma, a mio parere, la vera sfida non si gioca sul piano delle risorse ma su quello delle motivazioni, cioè sulla capacità o meno di saper accogliere l’eredità ferrarottiana, ringenerandola nel nostro desiderio. Solo a partire da questa assunzione di responsabilità può avviarsi con fierezza ed orgoglio un cambiamento, una rigenerazione del sistema scolastico comunale torinese.

Adesso tocca a noi che, in questa epoca di evaporazione della funzione simbolica paterna[27], ci sentiamo come tanti piccoli Telemaco intenti a scrutare il mare, nell’attesa che possa giungere un novello Ulisse a liberarci dal godimento mortifero dei Proci.

Forse un giorno scopriremo che il più grosso insegnamento che Ferrarotti ci ha lasciato è stato quello di averci insegnato non solo a scrutarlo quel mare ma anche a navigarlo in burrasca e superata questa ardua prova saremo anche in grado di lanciare l’eredità del desiderio ferrarottiano, ormai fatto nostro, oltre il muro dell’impossibilità.

 

 

[1] Università degli Studi di Torino – Corso di Laurea Triennale in Educazione Professionale – Storia dei Modelli Pedagogici e delle Istituzioni Assistenziali – Docente Prof. Paolo Bianchini.

[2] FERRAROTTI W., Riflessione storica sul Consumismo, Rivista Associazione Educatrice Italiana, 1990

[3] FERRAROTTI W., (a cura di) VIROGLIO D., Una realtà infinitamente varia, Città di Torino, Torino, 2008

[4] FERRAROTTI W., Il diritto all’apprendimento nella scuola che cambia, Atti del Convegno FISM, 2003

[5] FERRAROTTI W., La scuola come vita, (da materiale grigio e appunti), Torino, non datato.

[6] FERRAROTTI W., Quadro di riferimento per la programmazione educativa nella scuola dell’infanzia, Città di Torino, 1988

[7] Fonte: Archivio anagrafico della Città di Torino – Servizio Statistica e toponomastica – Dati al 31/12/2017

[8] RIFKIN J., La terza rivoluzione industriale Come il “potere laterale” sta trasformando l’energia, l’economia e il mondo, Milano, Mondadori, 2011

[9] RIFKIN J., La società a costo marginale zero. L’internet delle cose, l’ascesa del «commons» collaborativo e l’eclissi del capitalismo, Mondadori Milano, 2014

[10] BAUMAN Z., Il disagio della postmodernità, Mondatori, Milano, 2000

[11] GIOVANOLA B., Oltre l’homo oeconomicus – Lineamenti di etica economica – Orthotes Editrice, Salerno, 2012

[12] DONATI P., Lo stato sociale in Italia: bilanci e prospettive, Mondadori, Milano, 2000.

[13] BAUMAN Z., “Retrotopia”, Editori Laterza, Bari, 2017.

[14] BENASAYAG M. – SCHMIT G., L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano, 2005

[15] FERRAROTTI W., La mia vita incomincia dove finiscono le strade battute, Poesie, Editrice, Prelum, Torino, 2010

[16] FERRAROTTI W., La scuola come vita, (da materiale grigio e appunti), Torino, non datato.

[17] MORIN E., Insegnare a vivere – Manifesto per cambiare l’educazione, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2015

[18] RECALCATI M., L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014

[19] BENASAYAG M., Il mito dell’individuo, MC Editrice, Milano, 2002

[20] BAUMAN Z., Vite di scarto, Laterza Editore, Bari, 2005

[21] MORIN E., Convegno dell’Unesco, Luglio 2001

[22] LACAN J., Il seminario – Libro III – Le Psicosi, Einaudi Editore, Torino, 1979

[23] FREUD S., Compendio di psicoanalisi, in Opere, Vol XI, Bollati Boringhieri, Torino, 1979

[24] RECALCATI M., Il complesso di Telemaco – genitori e figli dopo il tramonto del padre, Feltrinelli Editore, Milano, 2013

[25] Ibidem

[26] RECALCATI M., L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2014

[27] RECALACATI M., (A cura di) RAIMO C., Patria senza padri – Psicopatologia della politica italiana, Edizioni minimum fax, Roma, 2013

1 commento su “Walter Ferrarotti: il passato è davanti a noi”

  1. La ripresa, da parte di Francesco Garzone, del pensiero di Ferrarotti, secondo il quale il “passato è davanti a noi” non può che costituire un programma di lavoro motivante ed esaltante, nonostante le difficoltà presenti in ogni contesto di vita, espressione di cambiamenti culturali, sociali e politici, di non facile intercettazione ed interpretazione. Garzone ha ricordato tre modalità, tra le innumerevoli a cui Ferrarotti ricorreva, per far fronte ai problemi di organizzazione e di funzionamento dei servizi educativi: tenere raccordata la ricerca scientifica e la prassi, incontrare e far incontrare i collaboratori a tutti i livelli, da quello dirigenziale a quello degli operatori impegnati quotidianamente con i bambini. e, in terzo luogo, progettare costantemente. Ogni lavoratore, da quello addetto alla cucina al coordinatore pedagogico, doveva impegnarsi nella formazione, riflettendo anche sulla propria esperienza, oltre che studiando ed aggiornandosi. Ascoltare i collaboratori era un’attività quotidiana di Ferrarotti sia formale, attraverso riunioni programmate, sia informale, dedicando del tempo a chi glielo chiedesse. Ideare servizi, percorsi formativi, spunti didattici e metodologici, rappresentava un’attività professionale vitale per Ferrarotti , nella quale coinvolgeva sia i politici che gli insegnanti e i genitori, proponendo iniziative impensate e non prive di rischi, tali da richiedere audacia e coraggio per realizzarle. Proprio in queste ultime si attuava l’idea secondo la quale “il passato è davanti a noi” in quanto la formulazione di ipotesi garantisce quel dinamismo che è fecondo e vitale nel pensiero, nelle relazioni e nelle istituzioni.
    Milva Capoia

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