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Verso il sistema 0-6. E se fossero i bambini a chiedere a tutti un cambio di rotta?

Moira Sannipoli

Ricercatrice


Segmenti differenti: oltre l’omologazione e l’opposizione

 

Le riflessioni sulla possibilità di costruire in Italia un segmento 0-6 sono oggi molto vive ed articolate, supportate dai numerosi rapporti internazionali che da tempo definiscono i servizi prescolari come luoghi di educazione e di cura per l’infanzia e anche da un dibattito nazionale che, dopo l’emanazione del disegno di legge n. 1538 sulla “Buona scuola”, sembra essersi riacceso.

Il nostro però è un Paese a tante velocità, in cui le verità di diritto non sempre si traducono in verità di fatto e soprattutto, politiche, culture e pratiche hanno spazi e tempi completamente differenti tra loro. Siamo la grande dimostrazione che non bastano confini giuridici definiti, per quanto essenziali e irrinunciabili, per seminare cultura e cambiamento. Ad un certo punto, e nel momento che fa la differenza in termini di pensieri e azioni, arrivano le persone.

Allora l’attesa verso questo nuovo orizzonte normativo potrebbe non essere un tempo perso, ma uno spazio guadagnato per costruire lentamente e fiduciosamente una cultura sullo 0-6, provando ad invertire le sorti della Nottola e affermando con forza e in maniera invertita “fatti gli italiani, dobbiamo fare l’Italia”. «La Nottola inizia a volare sul far della sera, entra nel mondo quando il giorno sta finendo e tutto è già avvenuto. Insomma la Nottola arriva quando gli eventi sono già accaduti e, come la filosofia, si limita a osservarli, a interpretarli o a spiegarli, mai a costruirli, mai a determinarli, mai a influenzarli. Ma attenzione Hegel parla di filosofia, ma intende la conoscenza. Anche la conoscenza spesso è come la Nottola di Minerva: arriva a cose fatte, quando la realtà è già passata e già cambiata» (Spaggiari, 2010, p. 7). Si tratta allora di arrivare prima per una volta e provare ad essere pronti per consentire alla norma di tradursi in pratica.

Sicuramente 0-3 e 3-6 oggi sono per la maggior parte dei casi paesi stranieri che parlano lingue, credono in valori e sono normati in modo molto differente tra loro. Presi dell’enfasi di voler a tutti costi scrivere la pagina dello 0-6, potremmo cadere in due possibili derive: omologare ad un unicum ciò che è distinto oppure enfatizzare con forza le differenze e farle diventare opposizioni. Potremmo cioè fingere che in fondo 0-3 e 3-6 sono già la stessa cosa oppure leggere le due realtà come antitetiche, l’una opposta all’altra e inconsapevolmente, patteggiando per una delle due sponde, esprimere un giudizio di valore e di merito. Per evitare queste possibili cadute, è necessario un vero e proprio esercizio di epochè, «interrompere l’adesione a ogni formulario interpretativo, introducendo quello scarto rispetto al già detto che consente di mettere in scena questioni impensate, oppure questioni antiche ma indagate da un nuovo punto di osservazione» (Mortari, 2011, p. 101). Ciò di cui abbiamo bisogno è la possibilità di superare alcuni pregiudizi reciproci e permettere alle persone, prima che ai professionisti, di incontrarsi in una terra di mezzo, dove ciò che conta è il benessere dei bambini. Si tratta quindi di comprendere che la relazione tra soggetti differenti è sempre caratterizzata dalla tensione perché espone a spiazzamenti, imprevisti, alla fatica del riconoscimento, ma una volta dichiarata la differenza e ciò che distingue, è necessario individuare qualche somiglianza. «La somiglianza è ciò che permette di individuare un destino comune, la condivisione di una stessa storia, di una simmetria formale e non materiale tra destini diversi» (Sannipoli, 2015, p. 84). Nell’andare alla ricerca di una terra di mezzo, credo che ci sia più che mai un orizzonte che si impone e chiede delle risposte nuove: i bambini e le bambine di oggi. E se fossero loro questo elemento di somiglianza, tanto da chiedere in questo momento a tutto il mondo educativo, tanto dei servizi 0-3 che dei servizi 3-6, di essere altro?

 

Alla ricerca di somiglianze: i bambini e le bambine di oggi

La nostra attualità vive dentro dei contenitori culturali molto forti, lontani dall’essere definiti educativi: tra questi il desiderio continuo di «ricette», la ricerca di un colpevole dentro tutte le situazioni, il bisogno di «pagelle quotidiane», le continue cadute in visioni psicopatologiche e deficitarie, la liquidità sociale e le passioni tristi. Che fine fa l’infanzia dentro queste trame di significati?

Sicuramente assistiamo ad una prospettiva strabica tra comunità scientifica che da un lato attribuisce alla fascia 0-6 un’importanza mai avuta nella storia e la comunità civile e politica con un’etica della cura e della responsabilità tutta da costruire. Oggi sappiamo molto delle infinite possibilità dei bambini nel periodo prescolare che possono però facilmente tradursi in impossibilità, se non adeguatamente stimolate. Siamo consapevoli che lo sviluppo non è una somma di elementi (motorio, cognitivo, linguistico, emotivo,..) che procedono in maniera compatta e direttamente proporzionale ma un continuo intreccio dinamico delle diverse aree di crescita, fatto “normalmente” di stalli, momenti di crescita e di decrescita, dove il piacere di imparare è un importante motore. Quanto però queste evidenze entrano nei nostri posizionamenti e nelle nostre pratiche educative? Ci aspettiamo ancora che i bambini crescano in termini di continuo accrescimento o siamo disposti a pensare che possa anche non essere così? Siamo disponibili a dire che un bambino che non rientra nella nostra idea di bambino possa essere comunque sano e sereno? Il rischio sempre alle porte è quello di definire “strano” tutto ciò che non rientra nelle nostre mappe di pensiero. «Le persone sono sistemi autocorrettivi: essi sono autocorrettivi nei confronti di ciò che li disturba, e se la cosa ovvia non è di un genere che essi possono facilmente assimilare senza fastidio interiore, i loro meccanismi autocorrettivi si metteranno all’opera per metterla da parte, per nasconderla, addirittura fino al punto di far loro chiudere gli occhi se necessario» (Bateson, 1976, p. 442).

Per poter concedere ad ogni bambino il diritto di essere pensato daccapo, oggi più che mai, è necessario esercitarsi nella continua sospensione degli automatismi del conoscere, riconoscendo prima e silenziando poi le mappe di precomprensione.

«Ricordiamo che il termine “infanzia” proviene dal vocabolo latino infans (in-fans, “colui che non parla”). Siamo noi adulti che possiamo darle voce» (Hoyuelos, 2014, p. 28).

Allora interpellando educatrici di nido e insegnanti di scuola dell’infanzia, un quesito comune emerge con forza: i bambini sono cambiati o non siamo più in grado di accompagnarli?

Come in tutte le domande in cui è presente una scelta esclusiva, spesso la risposta è connettiva. I bambini e le bambine sono antropologicamente cambiati insieme alle loro famiglie e il sistema educativo è rimasto troppo immobile e identico a se stesso, con il rischio che ciò che qualche anno fa era automatico, il coincidere delle nostre idee con i bambini incontrati, oggi non funziona più. Sono antropologicamente cambiati perché cresciuti dentro pratiche di cura e di comunicazione completamente differenti ed è come se ciò che fino a poco tempo fa cresceva senza far tanto rumore, oggi necessita di un pensiero, di una progettazione mirata.

Vediamo insieme alcuni esempi.

Troviamo sempre più spesso bambini che usano meglio le dita che le mani e che hanno difficoltà nella comunicazione faccia a faccia: sembrano essere diventati dei piccoli E.T., l’extra-terreste di Steven Spielberg che con il suo dito indice poteva accendere il mondo. Tutta l’era digitale entra dentro questa partita, ma «l’idea che di più e più in fretta significhino necessariamente meglio va decisamente messa in questione»(Wolf, 2012, p. 232), soprattutto oggi che sappiamo che le nostre funzioni cognitive superiori si sviluppano lentamente (Cfr. Maffei 2014).

Incontriamo con maggior frequenza bambini che rispetto al passato faticano molto di più nel raggiungere le prime autonomie. Si tende a rimandare il protagonismo dei più piccoli, anticipando e sostituendosi anche nelle prime cure (lavarsi le mani, fare la pipì da soli, mangiare con le posate) e di fatto regalando loro una goffaggine diffusa, che inibisce l’iniziativa personale.

Ci sono molti bambini che hanno oggi meno occasioni di muoversi all’aria aperta o nel quartiere rispetto a qualche tempo fa e di conseguenza l’aspetto motorio è sottovalutato e ridotto a spazi chiusi, sicuri e facilmente controllabili; bambini delle agende piene e strutturate e la cui esplorazione è spesso negata a favore della ripetizione, dell’attività scritta a tavolino. Vengono meno gli spazi di progettazione del bambino che anche durante il gioco “libero” sperimenta una sorta di imbarazzo e disorientamento, come se gli mancassero tutti quei confini allestiti ad hoc dall’adulto.

Ci lasciamo sorprendere da bambini competenti e spesso apparentemente adulti in miniatura, ma rimaniamo altrettanto stupiti dal vedere che dentro soffrono «di frappè di emozioni» (Pellai, 2007, p. 36), tanto da faticare molto di più nel momento della separazione e nel tollerare i no e le frustrazioni che da questi derivano. L’interessante cambio demografico che negli ultimi anni ha posticipato, rispetto alle generazioni precedenti, la nascita del primo figlio e dall’altro l’allungamento dell’età della vita, ha costruito una congettura familiare che tende a prediligere il codice materno a quello paterno, il concedere e il coccolare al dire no. Ne derivano bambini senza o comunque con poche regole.

Anche la famiglia di oggi appare però sempre più in evoluzione e al plurale: gli studi in tutti i campi ci parlano di una metamorfosi sostanziale e frutto di una molteplicità di concause. Dentro alla crisi del paterno e del materno in termini di funzioni, le strategie educative diventano più incerte. I figli oggi sempre meno spesso “capitano” e sempre più frequentemente sono “voluti” e “scelti”, frutto di una razionalità esistenziale. Se il figlio è il frutto della scelta, deve anche dare piacere, corrispondere alla sfera del desiderato. L’impegno nella promozione migliore possibile del figlio può però facilmente nascondere forme di realizzazione indiretta del genitore. Se da un lato tutto questo rende ogni figlio unico e insostituibile, dall’altro introduce elementi di ambivalenza: l’amore dei genitori non è sempre così incondizionato; la minaccia di ritirare l’amore è sempre presente.

La cultura degli esperti (pediatri, psicologi, igienisti, esperti di educazione, ecc.) ha contribuito ad incrementare la gamma di bisogni infantili ai quali i genitori devono prestare attenzione. Si moltiplicano gli ambiti nei quali la responsabilità genitoriale si manifesta e aumentano le decisioni che i genitori devono prendere per potersi definire responsabili. Spesso per ridurre l’incertezza ricorrono ai consigli forniti dagli esperti, ammettendo una fragilità della propria autorevolezza e ricercando una fonte di autorità esterna. Ma anche gli esperti appaiono come fonti di autorità fragile e non sicuramente un porto sicuro: spesso forniscono interpretazioni differenti dello stesso fenomeno se non apertamente contrastanti, le soluzioni che suggeriscono sono solo parziali e troppo spesso poco vicino alle pratiche quotidiane. Il rapporto con questi professionisti diventa ambivalente: se da un lato vengono ricercati, dall’altro si teme il loro giudizio. Anche i servizi assumono spesso i confini dell’esperto: le istituzioni educative sono diventate un contesto nel quale a partire dalla valutazione delle qualità e delle performance del bambino, si effettua implicitamente un giudizio sulle competenze e le risorse genitoriali.

Solo alcuni esempi sono stati citati ma davvero il bambino e la sua famiglia sembrano avere delle peculiarità nuove, sulle quali tutto il mondo educativo è chiamato a confrontarsi al più presto. Il rischio infatti è di relegare queste metamorfosi sociali, culturali, educative esclusivamente sul bambino, non più ai nostri occhi competente come un tempo. E a partire da questi assunti malsani, potrebbe verificarsi un’eccessiva patologizzazione e medicalizzazione dei bambini di oggi, con il rischio di voler rinunciare ad una generazione solo perché non si è stati in grado di comprenderla sul serio, contenendo il rischio di una vera e propria inflazione diagnostica. «La questione centrale è come gestire pedagogicamente queste situazioni: osservarle per evidenziare sintomi, difficoltà e incapacità oppure osservare per comprendere e cogliere particolarità e potenzialità»(Goussot, 2015, p. 36). Finiremo forse per sentire la nostalgia dell’ “allampanato” Lucignolo, della “faccia tosta e trista” di Franti e di tutti coloro che pur non essendo funzionali e funzionanti nel sistema educativo, e non per colpa loro, hanno comunque imparato a vivere e a fare le proprie scelte?

 

Un nuovo sguardo da formare

Viste le nuove sfide, il segmento 0-6 ha davvero molto in comune e molto su cui poter ragionare insieme per evitare che un’emergenza educativa si traduca in altro e sia gestita da altri. Educatrici ed insegnanti sono chiamate, oggi più che mai, ad interrogarsi sulla propria idea di bambino, sulla significatività della proposta educativa, sull’idea di tempo e di noia, sulla fretta e sulla lentezza, sulla condanna o sul sostegno alla genitorialità.

Una formazione congiunta può essere una carta giusta, se giocata nella giusta direzione; non sbilanciata verso una delle due parti e non lontana dalle pratiche. È arrivato il momento, oggi più che mai, che possa chiamarsi formativo l’intervento che non solo informa, ma che permette di riposizionarsi rispetto alle proprie mappe e al tempo stesso di modificare le pratiche quotidiane. Perché si possa definire formativo, un intervento deve poter essere di cambiamento, senza che questo debba essere connotato positivamente o negativamente. Se ogni incontro mentre si fa, ci fa, tutto questo è maggiormente vero e importante nelle occasioni pensate per la cura di sé. Certo, non basta essere consapevoli che c’è molto e tanto da imparare in termini di contenuti e postura, ma è necessario ripensare i modi di vivere le relazioni e le diverse dimensioni della cura educativa. «Il coraggio di mettersi in gioco in prima persona nella formazione e nell’apprendimento legittima e consolida l’idea per cui il principale strumento di lavoro degli operatori è il proprio esserci, prima delle cose che si sanno o si fanno. Non si può cercare fuori l’ennesima ricetta per rendere più efficace la relazione di cura, ma dentro la propria esperienza le risorse di cui si ha bisogno e le modalità vagliate più consone»(Augelli, 2010, p. 15). Lo sforzo deve poter muovere anche il mondo della ricerca e della formazione nella consapevolezza che sempre più i teorici, nel loro elaborare, provano a dire parole ciò che i pratici vivono, in un’orizzontalità e ricorsività dell’azione e della ricerca.

Scegliere questa logica significa approdare nell’universo della complessità, imponendo un costante dialogo tra sapere e contributi, per tracciarne individualità e complementarità, tessuti di implicazione reciproca. La complessità non deve però diventare un alibi che si traduce nel “tutto è complicato e ci arrendiamo” ma nella piena consapevolezza che non tutto si può dominare e che il tempo e la relazione, se adeguatamente vissuti in termini di riflessività, fanno il resto.

Afferma Bruno Munari: «Complicare è facile, semplificare è difficile. Per complicare basta aggiungere, tutto quello che si vuole: colori, forme, azioni, decorazioni, personaggi, ambienti pieni di cose. Tutti sono capaci di complicare. Pochi sono capaci di semplificare. Per semplificare bisogna togliere, e per togliere bisogna sapere che cosa togliere, come fa lo scultore quando a colpi di scalpello toglie dal masso di pietra tutto quel materiale che c’è in più della scultura che vuol fare. Teoricamente ogni masso di pietra può avere al suo interno una scultura bellissima, come si fa a sapere dove ci si deve fermare nel togliere, senza rovinare la scultura? Togliere invece che aggiungere vuol dire riconoscere l’essenza delle cose e comunicarle nella loro essenzialità. Eppure quando la gente si trova di fronte a certe espressioni di semplicità o di essenzialità dice inevitabilmente: “questo lo so fare anche io”, intendendo di non dare valore alle cose semplici perché a quel punto diventano quasi ovvie. In realtà quando la gente dice quella frase intende dire che lo può rifare, altrimenti lo avrebbe già fatto prima. La semplificazione è il segno dell’intelligenza, un antico detto cinese dice: “quello che non si può dire in poche parole non si può dirlo neanche in molte» (Munari, 1992, p. 54).

Nella sfida dell’essenziale siamo chiamati tutti ad una responsabilità di fondo che può far davvero decollare lo 0-6 come possibilità di accompagnare l’infanzia e costruire un’umanità più equa e rispettosa, assumendosi il coraggio dell’intenzionalità educativa ma anche dell’indignazione, dove necessario. Un domandare umile che si nutre dei contributi di tutti i soggetti in causa perché «coloro a cui sfugge completamente l’idea che è possibile aver torto, non possono imparare nulla se non la tecnica»(Bateson, 1979, p. 42).

Lo 0-6 deve ripartire da qui, superando il rischio di cadere nella nostalgia del passato o di proporre un dover essere troppo lontano dal presente, ma facendosi guidare dal coraggio dell’utopia, accettando i bambini e le bambine così come sono e al tempo stesso facendo di tutto perché le loro possibilità possano tradursi in attualità. «Sono tre le esigenze, dunque: l’ascolto empatico, il richiamo della legge e la valorizzazione dell’io. Tre le derive, se queste esigenze vengono separate: la compassione vincolante, la sanzione cieca e l’idealizzazione ingenua. Una vera educazione è possibile, invece, se si riesce a unirle tutte e tre» (Meirieu, 2012, p. 19).

I bambini insomma chiedono di essere educati e non riabilitati, domandano cura e apprendimento, un silenzio pensante dell’adulto e uno spazio di parola che spalanca all’azione per loro.

Non vedo altri attori se non il mondo educativo chiamato ad assumere sulle proprie spalle il coraggio di cambiare e allo stesso tempo rimanere fedele al compito più antico del mondo, quello di chi intenzionalmente permette a ciascuno di trovare il proprio posto del mondo.

 

Riferimenti

Augelli A. (2010), Costruire sapere dall’esperienza, in Iori V., Augelli A., Bruzzone D., Musi E., Ripartire dall’esperienza. Direzioni di senso nel lavoro sociale, Franco Angeli, Milano.

Bateson G. (1976), Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano.

Bateson G. (1979), Mente e natura. Un’unità necessaria, Adelphi, Milano.

Goussot A. (2015), I rischi di medicalizzazione nella scuola. Paradigma clinico-terapeutico o pedagogico?, in “Educazione democratica”, n. 9, pp. 15-47.

Hoyuelos A. (2014), Il soggetto bambino. L’etica pedagogica di Loris Malaguzzi, Junior-Spaggiari, Parma.

Maffei L. (2014), L’elogio della lentezza, Il Mulino, Bologna.

Merieu P. (2012), Lettera agli adulti sui bambini di oggi, Junior- Spaggiari, Parma.

Mortari L. (2011), Apprendere dall’esperienza, Carocci, Roma.

Munari B. (1992), Verbale scritto, Il Melangolo, Genova.

Pellai A. (2007), Una calamita di mamma, Erickson, Trento.

Sannipoli M. (2015), Diversità e differenze nella prospettiva coevolutiva, Franco Angeli, Milano

Spaggiari S. (2010), La sera della Nottola, in “Bambini”, n. Giugno, 2010, pp. 6-7.

Wolf M. (2012), Proust e il calamaro. Storia e scienza del cervello che legge, Vita e Pensiero, Milano.

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