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Un’utopia dell’educazione

Marc Augè

È su questa base che si dovrebbe costruire ciò che, a volte, ho definito una “utopia dell’educazione”. Passo dopo passo, ma senza mai perdere di vista la finalità alla quale essa vorrebbe rispondere.
In questo settore, è importante non accontentarsi delle chiacchiere. Le affermazioni e le statistiche (per esempio, quelle che riguardano il tasso di scolarizzazione) non sono sufficienti; possono perfino servire da alibi alle inerzie più colpevoli. Certo, è importante che i ragazzi siano scolarizzati, ma è altrettanto importante che non vengano insegnate loro delle sciocchezze. Tenerli in classe senza prepararli a nulla, o imprigionarli per indottrinarli, non deve essere confuso con l’ideale dell’educazione per tutti. Possiamo immaginare che, in una società che abbia come fine la conoscenza e come conseguenza la prosperità, le ingiustizie sociali sarebbero considerate intellettualmente ridicole, economicamente costose e scientificamente pregiudizievoli. Potremmo concepire un modello, così come lo intendono gli scienziati, per tentare di verificare o di perfezionare questa ipotesi. Del resto abbiamo già accertato, anche se in scala assai ridotta, che quei gruppi culturalmente ed economicamente svantaggiati in cui era stato compiuto uno sforzo di educazione e di formazione per le donne avevano migliorato la loro condizione in maniera sensibile. A dire il vero, però, questo tipo di «verifica» è del tutto inutile. Non solo perché, come spesso capita, in casi di questo genere il dispositivo sperimentale non fa che dimostrare l’evidenza, ma ancor più perché lo sviluppo dell’educazione è un imperativo categorico generale, che non ha bisogno di essere supportato da giustificazioni di profitto economico; è un fine in sé, in nome dell’unità del genere umano- un principio assiomatico, ma che, abbiamo forti ragioni di pensarlo, una volta realizzato avrebbe tra le prime conseguenze la prosperità economica.
D’ora in poi, l’utopia dell’educazione è l’unica speranza di riorientare la storia dell’uomo nella direzione dei fini. Perché la chiamiamo utopia? In realtà il termine «utopia», per l’utilizzo che ne facciamo qui, ha senso solo in rapporto alle politiche reali, che, indipendentemente dai propositi, si muovono tutte in direzione sbagliata: si affidano ai dati relativi all’insuccesso scolastico, legano intimamente la questione della scuola o dell’università a quella del lavoro, non si occupano a sufficienza di creare le condizioni necessarie perché si diffonda una cultura generale, indipendente dall’ambiente familiare o sociale, e nel complesso non prestano abbastanza attenzione agli obiettivi, o li riducono al campo dell’economia, affermando, per esempio, che il ritorno alla crescita sia il requisito assoluto di qualsiasi iniziativa sociale. Ma questa “utopia” ha il suo luogo: la Terra, l’intero pianeta; per ottimismo, sarei tentato di definirlo un “programma”. Il programma può adeguarsi al tempo, anzi ha bisogno del tempo politico, della lunga durata (che rappresenta una forma di speranza), ma solo se l’avvicinamento alla sua applicazione è percepibile o quantomeno discernibile, cosa che oggi non accade in nessun luogo ma che domani potrà avere inizio.
Ovviamente, un programma di questo tipo non può nascere da un qualsiasi desiderio di governare in nome di un sapere assoluto. La conoscenza, diversamente dall’ideologia, non è né una totalità, né un punto di partenza. Si tratta, al contrario, di governare in vista del sapere, di darsi il sapere come fine, individuale e collettivo, destinato a rimanere prospettico e asintotico. E un vero peccato che il termine “scientismo” venga spesso utilizzato in maniera troppo disinvolta da polemisti consapevoli o inconsapevoli delle sue risonanze. Se con questa parola indichiamo l’affermazione di un sapere totale, da cui dedurre quale debba essere il comportamento degli uomini nella società, nessuno scienziato è scientista. Al contrario, se questa parola esprime la convinzione – comune a tutti gli scienziati – che la mente umana possa progredire indefinitamente nella conoscenza, fino a conoscere quei meccanismi cerebrali che le permettono tale progressione, il suo utilizzo polemico sarà solo puro e semplice indice di malafede e oscurantismo.

Oggi a che punto siamo? Ci viene detto, qua e là, che molti giovani sono di fatto descolarizzati, e ci chiediamo quali forme di apprendimento potrebbero garantire una transizione morbida dalla scuola al mondo del lavoro; ci viene detto che i ritardi scolastici si accumulano e che una parte degli studenti che accedono alla prima media non conosce i «fondamentali», la lettura, il calcolo, la scrittura; che al termine del primo anno di università un numero importante di giovani abbandona gli studi; che le università non collaborano a sufficienza con le imprese per assicurare uno sbocco lavorativo ai loro studenti.
Capisco che i responsabili, a tutti i livelli, si trovano di fronte situazioni concrete difficili e non ho la pretesa di elargire soluzioni prestabilite per l’immediato.
Resta il fatto che, nel momento in cui vengono invocate le esigenze di profitto per giustificare le riduzioni di organico, che, a loro volta, comportano una diminuzione del potere d’acquisto, e questa stessa diminuzione causa un rallentamento della crescita (è uno dei circoli viziosi del capitalismo nella fase attuale), le politiche dell’educazione sono sempre meno orientate verso l’acquisizione del sapere per il sapere. L’orientamento scolastico è sempre più anticipato e negli ambienti “economicamente svantaggiati”, per riprendere l’eufemismo corrente, i ragazzi hanno una possibilità minima, per non dire nulla, di accedere a certi tipi di insegnamento. I sociologi hanno evidenziato che oggi, in un paese come la Francia, il sistema educativo tende non a ridurre ma a riprodurre i divari sociali. Certo, siamo nell’età dell’apertura dell’insegnamento superiore al maggior numero di persone, ma il tasso di insuccesso nei primi due anni è considerevole. Inoltre, l’apertura delle università ai grandi numeri è ufficialmente considerata come qualcosa che ne trasforma la vocazione: le si invita, prima di tutto, a rispondere ai bisogni del mercato del lavoro.

Ritorniamo, dunque, all’utilizzo del termine “utopia”, che forse può esserci utile per ricordare qualche principio, per delineare un ideale, suggerire qualche pista e rifiutare qualche vicolo cieco.
Il tema dell’utopia dell’educazione si ricollega ai vecchi dibattiti che, dal Rinascimento in poi, hanno segnato la storia europea. Ma se Montaigne parlava della pedagogia in generale, Rousseau, invece, si occupava dell’educazione ideale di un soggetto singolare ed esemplare. Nella sua riflessione sugli intellettuali (Difesa dell’intellettuale), Sartre cambia prospettiva e si interroga sulla categoria dei “tecnici del sapere pratico”, sul loro sistema di reclutamento e sulla formazione che hanno ricevuto, ma il suo discorso non ha ambizioni pedagogiche. Siamo nel 1966, in un’epoca di relativa prosperità economica, e Sartre sviluppa un pensiero critico radicale, infervorato dagli interrogativi posti dai fenomeni contemporanei, come la lotta di classe, il colonialismo, l’imperialismo, il razzismo e il sessismo. Mezzo secolo più tardi, questi interrogativi continuano a riproporsi, ma in termini diversi; rimane che, appunto, questo scarto di tempo è forse utile per conquistare, insieme al distacco, una maggiore consapevolezza delle poste in gioco della politica educativa.

In questo testo – scritto originariamente per una conferenza che si tenne in Giappone nel settembre-ottobre 1966 – Sartre cerca di definire i caratteri della «categoria sociale» di quelli che chiama i «tecnici del sapere pratico».
Per lui, la classe dominante ha una prima responsabilità: decide del posto di lavoro che occuperanno questi tecnici – medici, insegnanti ecc. -, del loro numero, della loro specializzazione e della loro distribuzione; ciò significa che tutta una categoria di adolescenti si trova dinanzi a “una strutturazione del campo delle possibilità, gli studi da intraprendere, e quindi a un destino”. Per compiere le sue scelte, la classe dominante tiene conto della crescita industriale, della congiuntura e dei nuovi bisogni emergenti, come la pubblicità o lo human engineering. Insomma, Sartre formula, prima che l’espressione assuma il suo significato ufficiale che ormai conosciamo, un sunto della “teoria dell’innovazione” in materia sociale, assieme a un’analisi che anticipa quanto, quarantacinque anni dopo, possiamo confermare: “Oggi la cosa è chiara: l’industria vuol mettere le mani sull’università per obbligarla ad abbandonare il vecchio umanesimo ormai superato e a sostituirlo con discipline specialistiche, destinate a dare alle imprese testers, funzionari secondari ecc.”.
Sartre affronta poi la formazione ideologica e tecnica ricevuta da questi specialisti del sapere pratico, all’interno del sistema di insegnamento (classi secondarie e insegnamento superiore) imposto loro “dall’alto”. Questa formazione assegna e insegna loro, sottolinea Sartre, due ruoli: ne fa “degli specialisti della ricerca”, certo, ma anche dei “servitori dell’egemonia” o, per riprendere l’espressione di Gramsci, dei “funzionari delle sovrastrutture”.
Infine, Sartre ricorda che sono le relazioni di classe a regolare automaticamente la selezione di questi tecnici. Nelle loro fila non troviamo molti operai, poiché il sistema permette loro di figurarvi solo eccezionalmente. Per la maggior parte, essi vengono reclutati tra i figli dei piccolo-borghesi delle classi medie, ai quali fin dall’infanzia (nell’insegnamento primario e secondario) è stata inculcata l’ideologia particolaristica della classe dominante. Fin dal principio, il tecnico del sapere pratico vede la sua sorte determinata dalla classe dominante, che decide, soprattutto, della parte di plusvalore da consacrare al suo salario in funzione della congiuntura e della crescita: “In questo senso il suo essere sociale e il suo destino gli vengono dal di fuori: egli è l’uomo dei mezzi, l’uomo-medio, l’uomo delle classi medie: i fini generali ai quali si rapporta la sua attività non sono i suoi fini”.

Le analisi di Sartre, segnate dal loro tempo e da un linguaggio senz’altro ormai obsoleto, restano comunque affascinanti perché definiscono l’intellettuale come “qualcuno che si immischia in ciò che non lo riguarda” – rimprovero che dall’esterno gli viene rivolto spesso ma che egli, in tutta coscienza, potrebbe contestare, visto che sa che, appunto, tutto ciò “lo riguarda”. L’intellettuale sartriano è un tecnico dell’universale “che si accorge che, nel suo campo, non esiste universalità bella e fatta, ma che essa è continuamente da fare”. A differenza dei filosofi del XVIII secolo, che appoggiavano le rivendicazioni della borghesia di cui facevano parte e, in questa misura, erano degli “intellettuali organici”, in senso gramsciano, l’intellettuale sartriano è l’uomo della presa di coscienza: prende coscienza del fatto che, dentro di sé, il singolare e l’universale coesistono, e che può pretendere di raggiungere l’universalità solo se non nega la sua singolarità. L’intellettuale sa da quale classe proviene e, se vuole liberarsene, deve prenderne coscienza critica; proprio come Flaubert, deve sforzarsi non di sfuggire al passato, che costituisce la sua «singolarità», ma di sfuggire alla determinazione attraverso questo passato. “La vera ricerca intellettuale, se vuole liberare la verità dai miti che la offuscano, implica che l’indagine passi attraverso la singolarità dell’indagatore”. Evidentemente questo principio – che potremmo attribuire a un antropologo, visto che questi, per poco che rifletta sulla natura del suo oggetto di indagine, deve innanzi tutto prendere coscienza di esserne parte – prende di mira tutti i pregiudizi di classe e di situazione, tutte le alienazioni di classe o di funzione che pesano sulla libertà di analisi, di osservazione e di decisione. Sartre illustra questa filosofia della libertà attraverso due citazioni che si fanno eco, una di Ponge (“l’uomo è l’avvenire dell’uomo”) e l’altra di Malraux (“una vita non vale niente, niente vale una vita”), con quest’ultima che fa dell’ambivalenza l’elemento costitutivo dell’opera letteraria, e di quest’ultima l’espressione della contraddizione, sempre feconda, tra il particolare e l’universale.
Sartre è un bravo analista e un brillante dialettico, ma prima di tutto è spinto dall’impeto volontaristico che è seguito alla seconda guerra mondiale. Nell’immediato dopoguerra, si pensava di cambiare la società, di gettare le basi di una solidarietà nuova, si credeva nel futuro. Certo, le divisioni c’erano e il Partito comunista, allora molto potente, suscitava parecchie opposizioni; ma a quell’epoca si sono create diverse collaborazioni e, soprattutto, al termine di una prova così straziante era impensabile non rivolgere lo sguardo verso un altro orizzonte. La letteratura e il cinema testimoniano di questo stato d’animo che, sul piano storico, imponeva di superare l’orrore della guerra e del nazismo e, su quello metafisica, di trascendere, magari attraverso un’etica dell’eroismo, il sentimento dell’assurdo provocato dal confronto dell’uomo con il silenzio del mondo. Pensiamo a Camus, naturalmente, ma anche all’esistenzialismo: affermare che l’esistenza precede l’essenza significa definire l’uomo come creatore di se stesso.
Gli orrori del mondo non hanno diminuito la loro intensità, ma oggi non usciamo da una prova così fondamentale, identificabile e simbolica come quella della seconda guerra mondiale. Fino a prova contraria, le crisi economiche suscitano più inquietudini, più depressioni o violenze incontrollate che non reazioni intellettuali. Ecco perché l’utopia dell’educazione è utopica: non si accorda sufficientemente al momento storico per imporsi da sé.
Eppure qualche segno a prima vista contraddittorio potrebbe militare a suo favore. Le rivolte dei giovani nei diversi agglomerati urbani e nei diversi continenti forse non rappresentano un appello diretto a rifondare il sistema educativo, ma non sono neppure soltanto un’espressione di pura violenza o una semplice reazione alla povertà. Nella misura in cui esprimono l’ingiustizia di una situazione di emarginazione sociale, rappresentano una ricerca di verità: cosa dovrebbe essere la società visto che, evidentemente, fallisce nell’affermarsi come comunità di destini? Il tema dell’esclusione (sociale, economica, intellettuale) contiene in sé il suo contrario: che cosa dovrebbe essere l’inclusione sociale? Ogni protesta sociale ha il suo rovescio, che è la domanda fondamentale: che cos’è il legame sociale? Ogni protesta è una forma di ricerca.
C’è un altro segno, decodificabile in maniera più diretta: il bisogno di sapere che il pubblico, qualora gli si offra l’occasione, manifesta. Da questo punto di vista, l’Italia è un esempio notevole, considerato il numero di festival e di convegni che vi si organizzano, trovando un’accoglienza entusiastica. Anche in Francia, dove le iniziative di questo tipo sono più rare, un’esperienza come quella dell’Université de tous les Savoirs, voluta nel 2000 dal Ministero dell’Educazione per diffondere la cultura attraverso conferenze gratuite, poi scaricabili dalla Rete, ha incontrato un enorme successo; ci sono poi diverse Universités populaires (la più nota è quella di Caen), tutte molto frequentate. Complessivamente, almeno in Europa, prevale l’impressione che esista un immenso giacimento non sfruttato di capacità intellettuali – che, a contrario, provoca un sentimento di frustrazione e di ingiustizia -, una carenza che non sarebbero in grado di colmare né gli incessanti e più disparati flussi di informazione televisiva (“Ci sarebbe acqua su Marte”, “Il Paris Saint-Germain ha acquistato cinque nuovi giocatori”), né gli inviti rivolti agli utenti della Rete perché commentino a modo loro le ultime notizie del giorno.
Utopia: il primo merito di questa parola è quello di obbligarci a rivolgere lo sguardo verso il futuro. Il secondo è quello di invitarci, almeno a titolo di morale provvisoria, a non tener conto delle argomentazioni di ogni sorta che potrebbero essere utilizzate a suo sfavore, se non, riprendendo il linguaggio semplice ma efficace di Sartre, per considerarle espressioni della «classe dominante»- diciamo: del sistema vigente.
Utopia pratica, pragmatica, progressista ma progressiva: questi aggettivi hanno la loro importanza, perché presiedono alla possibilità di un effettivo passaggio all’atto. Una rivoluzione di questa portata può compiersi solo al termine di un’evoluzione controllata, misurata e, all’occorrenza, emendata e corretta. Alcuni princìpi potrebbero prendere forma abbastanza velocemente. Vediamone alcuni.
Per lottare contro l’insuccesso scolastico, alcune classi «difficili» delle scuole primarie dovranno essere composte solo di quattro o cinque allievi. Per qualche anno (il tempo che gli effetti della riforma della primaria si facciano sentire) la misura potrebbe applicarsi anche alle classi della secondaria. Ovviamente, una misura del genere implica dei reclutamenti supplementari di insegnanti.
I programmi saranno concepiti secondo un’ottica generalista e basata sui fondamenti. L’orientamento verso l’indirizzo scientifico, letterario o misto avrà luogo il più tardi possibile, nel primo o secondo anno delle superiori. In tutti gli indirizzi sarà obbligatorio l’insegnamento di due lingue europee.
Un ampio programma di borse di studio per alloggi e residenze studentesche romperà l’isolamento geografico ed economico dell’insegnamento secondario, permettendo agli allievi di famiglie povere che lo desiderano di rendersi più autonomi e scegliere la loro sistemazione. Per i più giovani, sarà necessario inventare e sviluppare qualche forma di internato o semi-internato, così da assistere finanziariamente e culturalmente le famiglie bisognose. Quest’ultima misura costerà molto cara e implicherà numerose assunzioni.
Quando questo programma verrà attuato, non ci sarà più nessuna necessità specifica di riformare in modo sostanziale l’insegnamento universitario (sebbene le cose possano presentarsi diversamente a seconda dei paesi e, in ogni caso, debbano essere tenute sotto stretto controllo l’attribuzione di borse di studio, in base a criteri economici, e le politiche di reclutamento, in base a criteri scientifici). Ma un punto resta essenziale: le università devono salvaguardare la vocazione che il loro nome implica. La loro autonomia non deve servire a trasformarle in appendici delle aziende. Le università assicurano, e devono continuare ad assicurare, una formazione di base, animata dalla sola ricerca del sapere. Le aziende, ovviamente, possono entrare in contatto con le università e comunicare quali siano le loro esigenze in termini di personale, ma dovranno farsi carico in prima persona di eventuali formazioni pratiche complementari. In maniera generale, la distinzione tra ricerca pura e ricerca applicata è utile a entrambe. Sappiamo bene che in certi settori questa distinzione si assottiglia o si abolisce – è il caso, per esempio, della fisica pura, che può progredire solo grazie ai costosissimi strumenti che, a poco a poco, vengono messi a punto. Ma quando si è responsabili di un’università quello che va tenuto a mente è l’obiettivo della conoscenza pura.

Se ho menzionato in maniera rapida e superficiale questi pochi punti di un programma possibile, ovviamente suscettibili di discussione, non è tanto per aprire un dibattito che, nelle condizioni attuali, sarebbe evidentemente prematuro, quanto per sottolineare una semplice verità di buonsenso: in nome dell’«utopia», si possono proporre alcune riforme parziali e concrete perfettamente realizzabili. L’etnologo come tale analizza situazioni esistenti; non ha nessuna vocazione da profeta – anche se gli è capitato di lavorare su alcuni personaggi che rivendicavano questo titolo e questa funzione. Tuttavia, il mondo in cui viviamo è continuamente attraversato da messaggi che pretendono di fornirci la chiave del presente, misurando il passato recente (ieri è già storia) e il futuro immediato (domani è già oggi). Questi messaggi sono l’espressione della verità oppure, a poco a poco, vanno a comporre il mito e l’ideologia del mondo globale a cui apparteniamo?
Questo problema è più familiare all’etnologo; egli sa bene che, di solito, le visioni costruite del futuro nascondono solo le carenze e le paure del presente. Nulla ci obbliga ad approvare queste carenze e queste paure, e ancor meno a condividerle. Abbiamo il diritto di non aderire agli arroganti discorsi dei politici, più impegnati a punire i furti di qualche rivoltoso che non a riformare il loro sistema scolastico e sociale. Abbiamo il diritto – e alcuni direbbero persino il dovere – di rifiutare la nostra fiducia a quelli che ci chiedono di fare sacrifici in un mondo di disparità che essi stessi si accaniscono a proteggere, a riprodurre e ad amplificare. Abbiamo il diritto, insomma, di rimanere liberi di osservare, di giudicare e di non fidarci delle parole di cui ci impongono l’uso.

A prima vista, l’assicurazione e il credito sono due figure antinomiche dell’economia, due opposte modalità di esprimere il rapporto con il futuro. Mi assicuro contro tutti i rischi della vita, se sono assicurato, non mi può capitare nulla di grave; posso anche proteggere i miei cari, la mia famiglia: se “mi succede qualcosa”, come si dice, riscuoteranno del denaro; posso perfino prevedere i dettagli dei miei funerali. Così, tutto il percorso della vita si presenta circoscritto, ordinato e controllato, come quelle autostrade sorvegliate dalle forze di polizia nelle giornate di traffico intenso. L’assicurazione è una protezione contro i casi della vita, l’esatto contrario dell’avventura.
Il credito, invece, è aperto al futuro. Vivere a credito significa confidare nella vita, prendersi dei rischi, seguire i propri desideri, soddisfarli e pagare più tardi, realizzare i propri progetti o, detto altrimenti, trasformare il lontano futuro che si attribuisce alla nozione di economia (“faccio economia” per vivere più tardi) in un presente immediato. In questo senso, il credito è il contrario dell’investimento che “frutta” a termine, è la spesa rinviata. È il contrario o l’altro volto, dal momento che il proprio credito può anche essere venduto.
In realtà sappiamo che, dal punto di vista finanziario, le cose non sono così semplici. Le assicurazioni sono un prodotto come un altro e alcune società assicurative sono quotate in borsa. Inoltre, nel caso di investimenti a rischio, generalmente sono assicurati anche i crediti.
Le cose non sono così semplici neppure dal punto di vista psicologico. Assicurarsi non significa eliminare gli imprevisti della vita, ma soltanto concedersi i mezzi finanziari per farvi fronte. Significa immaginare che si avrà una vita sovraccarica di eventi, gli uni più catastrofici degli altri, una vita in cui si è sempre esposti alla minaccia di un incidente stradale, di un furto con scasso o di una malattia. In teoria, la vita dell’assicurato è una vita da avventuriero. Non si è mai assicurati contro la noia. Viceversa, il credito è piuttosto una prefigurazione rischiosamente concreta dell’avvenire. Soddisfacendo immediatamente il desiderio, il credito lo elimina dalla visione, lo consuma, lo divora. Uccide doppiamente l’immaginazione, mettendoci sotto gli occhi la mediocrità dei nostri desideri futuri. Quando non sono più un’idea o un progetto, un’automobile, una casa entrano a far parte della dura realtà quotidiana. Non bisogna più sognare, ma amministrare … e rimborsare il credito.
Sia il credito sia l’assicurazione, infatti, ci offrono alcune versioni asettiche della messa in intrigo e dell’inaugurazione. Inquadrano in modo efficace i desideri e le paure, li incanalano e li orientano. Sono procacciatori di illusioni: illusioni di protezione o illusioni per il futuro, che è un po’ la stessa cosa. Nella società dei consumi, i soli veri avventurieri sono i burattinai che muovono i fili e talvolta li spezzano, imponendo così alle loro vittime un nuovo racconto, in cui all’improvviso proliferano dei personaggi solitamente più riservati: i mercati (sempre febbricitanti), i trader (sempre sospetti), i fondi sovrani (sempre mal gestiti). I titoli dei capitoli di questo nuovo racconto hanno nomi terribili: il debito, la crisi, la recessione. I copioni di crisi sono sempre un po’ gli stessi, mettono in scena con un gran chiasso la paura del futuro immediato, ma una volta che i mercati si calmeranno, che la febbre sarà scesa (non c’è niente di meglio del vocabolario medico per rappresentare i movimenti finanziari), tutto potrà ricominciare come prima. Massima astuzia del sistema: cambiare qualche parola ma riproporre sempre la stessa minestra, per far credere a quelli che ha impoverito di poter diventare, grazie ai loro sacrifici, gli artefici del nuovo inizio. I due volti del Giano economico, il credito e l’assicurazione, recupereranno entrambi il loro bel colorito, in attesa di una nuova crisi e di nuove paure.

Visto che stiamo parlando di educazione e di futuro, sarebbe il momento di abbandonare la metafora economica (l’educazione è un investimento per il futuro ecc.). Smettiamo di evocare l’interesse generale, che spesso nasconde interessi particolari, e partiamo piuttosto, non dall’interesse individuale in senso stretto, ma dall’interesse generico. Solo accogliendo le esigenze dell’individuo che, nella lingua di Sartre, è singolare e universale, solo accogliendo la parte di umanità generica che egli reca in sé, e a cui si rivolge qualsiasi sforzo di educazione, avremo una possibilità di rifondare la società.

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