Intervista a Angelo Mari a cura di Enrica Fontani
Angelo Mari
è professore stabile della Scuola Nazionale dell’Amministrazione – Presidenza del consiglio dei ministri.
Insegna dal 1998 Programmazione e direzione amministrativa alla Libera Università Maria Santissima Assunta (Lumsa) di Roma.
- Il titolo del suo libro “Il sistema integrato di educazione e di istruzione dell’infanzia” ha un sottotitolo (“Un ordinamento ad assetto variabile”) che ci richiama alla particolare situazione italiana e alla oggettiva complessità della materia su cui è intervenuta la legge 107/2015, la cosiddetta “buona scuola”, e in particolare il decreto legislativo 65/2017 sull’istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione 0/6. Quali novità rispetto alla norma precedente e quali criticità da monitorare per non cadere in trappole attuative che pregiudicherebbero la sua forza innovativa?
Mi sembra che la novità più importante consista proprio nell’aver creato un “link necessitato” tra i due sistemi educativi dell’infanzia finora separati e articolati nello zero tre anni (asili nido e servizi integrativi) e tre sei (scuola dell’infanzia). Il percorso di innovazione normativa statale ha faticato a seguire le indicazioni delle scienze pedagogiche e psicologiche e delle poche esperienze esistenti orientate verso il percorso unitario, perché le implicazioni istituzionali e socio economiche conseguenti al nuovo disegno del tratto educativo zero sei erano, e sono, tutt’altro che banali. Occorre considerare, infatti, il noto divario territoriale di copertura degli asili nido tra Centro Nord e Sud del Paese, tra centri urbani e piccoli comuni, per non parlare delle capacità organizzative e di spesa fortemente differenziate nel territorio che costituiscono la pre condizione per migliorare la situazione o per far naufragare qualsiasi tentativo di riforma.
Il nuovo sistema è stato costruito in modo tale che per realizzarlo concretamente è necessario che tutti gli attori coinvolti debbano cooperare per il raggiungimento di obiettivi condivisi. Basti pensare al nuovo ruolo conquistato dall’amministrazione centrale, Ministero dell’istruzione e organismi di coordinamento (Commissione per il sistema integrato di educazione e di istruzione e Cabina di regia di supporto, monitoraggio e valutazione). Secondo me, ciò va bene a condizione che si consenta alle diverse realtà di operare in modo autonomo e con tempi e modi differenziati, senza cercare pervicacemente modelli omogenei obbligati che rischiano di provocare un doppio effetto negativo: deprimere le eccellenze, senza migliorare le situazioni più deboli. In sostanza, ritengo che l’ordinamento ad assetto variabile del sistema integrato di educazione dell’infanzia sia al tempo stesso una realtà giuridico amministrativa inevitabile e un potenziale fenomeno virtuoso, soprattutto se ci si pone nell’ottica di valorizzare le best practices, esplorando modi, metodi e forme di replicabilità dei casi di successo.
In tale contesto, occorre monitorare innanzi tutto il funzionamento della filiera decisionale, a cominciare dalle decisioni che dalla ripartizione dei pochi finanziamenti nazionali disponibili conducono fino alla erogazione delle risorse a livello di singole organizzazioni, pubbliche e private. In alcune realtà questi meccanismi rischiano di incepparsi, spesso per “pigrizia istituzionale”, a volte per scarsa conoscenza da parte degli operatori delle possibilità offerte dal nuovo sistema. Un attento e trasparente monitoraggio potrebbe evitare di cadere in trappole attuative, costituite innanzi tutto da un eccesso di burocratizzazione del sistema.
Non è trascurare infine il monitoraggio della situazione relativa al personale che opera nel sistema integrato. Ricordo solo l’attuale differenziazione contrattuale e retributiva degli educatori a seconda della realtà operativa di riferimento e le esigenze di qualificazione universitaria poste come obiettivo di riforma, quali elementi sui quali porre attenzione e per i quali entrano in gioco altri soggetti: dai sindacati alle università.
- La legge 107/2015 e il decreto legislativo 65/2017 sul sistema integrato 0/6 hanno scelto la strada più laboriosa e difficile nell’intento di valorizzare le esperienze dei servizi educativi e delle scuole dell’infanzia, nel rispetto della diversa origine e storia ma con un obiettivo che li coinvolgesse entrambi in un unico progetto pedagogico 0/6, che potrà poi specificarsi nel progetto dello 0/3 e nel POF per la scuola dell’infanzia. Secondo lei era meglio procedere a una riforma più radicale, superando l’attuale dualismo, e istituire uno 0/6 integrale su modello di alcuni Paesi nordici?
La situazione istituzionale italiana in materia è complessa, per cui l’attuale quadro di articolazione delle competenze normative, amministrative e l’assetto della finanza pubblica non consentono di istituire uno 0/6 integrale e universale, cioè rivolto potenzialmente a tutti i bambini. Cerco di dire perché.
Dal punto di vista della ripartizione delle competenze normative tra Stato e regioni, gli asili nido hanno sempre rappresentato un tema critico. Negli anni le numerose sentenze della Corte costituzionale – da quelle adottate prima della riforma costituzionale del 2001, fino alla recente decisione n. 107/2018 riguardante il presupposto della residenza nella regione Veneto come criterio di preferenza dell’accesso al servizio – hanno dovuto approfondirne la qualificazione giuridica e la funzione educativa e sociale. Il punto di arrivo del dibattito credo possa essere cosi riassunto: gli asili nido sono a “vocazione universalistica”; svolgono innanzi tutto una funzione educativa a vantaggio dei bambini; svolgono anche una funzione sociale nei confronti delle famiglie; attuano il principio di uguaglianza sostanziale ai sensi dell’art. 3 della Costituzione. Diciamo che da questo punto di vista si stanno facendo passi avanti.
Tuttavia, sotto il profilo della copertura del servizio 0/6, la situazione è molto discriminante. In effetti, la copertura del servizio 0/3 in Italia, è di circa il 23%, mentre quella della scuola dell’infanzia è di circa il 97%; di conseguenza, soltanto ¼ dei bambini frequentano oggi sia l’asilo nido sia la scuola dell’infanzia. Essendo il percorso 0/6 prima della scuola dell’obbligo, si potrebbe dire che parte delle famiglie preferiscono tenere a casa i figli piccoli, ma non è così qualora si consideri l’altro dato relativo alla differenziazione territoriale della copertura prima ricordata. In questa situazione, istituire uno 0/6 integrale e universale per portarlo anche semplicemente al livello auspicato dall’Agenda di Lisbona (33% di copertura) e fatto proprio dal decreto legislativo n. 65/2027 comporterebbe uno sforzo economico difficilmente sostenibile (servirebbe a regime una spesa pubblica annua di circa 2,5 miliardi di euro, a fronte di una spesa attuale di circa 1,2 miliardi). È evidente che lo stanziamento annuo aggiuntivo disponibile a regime per l’attuazione del sistema 0/6 pari a 239 milioni di euro è insufficiente.
- La legge 26 maggio 2016, n. 89 ha “mutato” i livelli essenziali, previsti dalla legge 107/2015, in fabbisogni standard. Quali conseguenze nella realizzazione del sistema integrato avrà questo declassamento?
Anche il tema dei livelli essenziali delle prestazioni da garantire a tutti (cittadini e stranieri in regola con le norme di soggiorno) su tutto il territorio nazionale è fortemente dibattuto sia sotto il profilo giuridico sia in riferimento alle implicazioni economiche. La Corte costituzionale ha avuto modo di sottolineare che è “essenziale” ciò che esce dalla discrezionalità dell’amministrazione pubblica in quanto diritto sociale esigibile ad ottenere determinate prestazioni. In altre parole, quando, come e chi beneficia delle prestazioni e con quali risorse finanziarie sono definiti direttamente dalla legislazione statale. Si tratta delle cosiddette disposizioni auto applicative, che sono diverse da quelle di principio o direttive. Dal punto di vista sostanziale è “essenziale” ciò che è necessario, appropriato e sostenibile. Detto diversamente, se la legge statale e i decreti legislativi avessero dovuto disciplinare il servizio educativo 0/6 come essenziale, la stessa normativa avrebbe dovuto avere le caratteristiche che ho appena ricordato. Siccome questo sarebbe stato impossibile, allora si è rimediato “correggendo l’errore” e facendo riferimento ai fabbisogni standard.
Come è noto, i fabbisogni standard sono calcolati utilizzando diverse variabili che fanno però riferimento a dati contabili e a dati strutturali rilevati tenendo conto della situazione attuale del costo delle prestazioni erogate. La situazione territoriale anche qui è differenziata, per cui gli standard nazionali rischiano di penalizzare le regioni del Centro Nord in favore delle regioni del Sud.
Un ulteriore aspetto critico da considerare è quello relativo al fatto che i servizi educativi per l’infanzia rientrano tra le funzioni fondamentali dei comuni che le dovranno esercitare superando il meccanismo di finanziamento dei servizi a domanda individuali (compartecipazione necessaria delle famiglie). Anche qui il cosiddetto federalismo fiscale imporrebbe meccanismi di perequazione territoriale, qualora si decidesse di estendere il servizio senza le necessarie risorse finanziarie aggiuntive. Il che avrebbe come effetto perverso la penalizzazione dei territori dove oggi il livello dei servizi e quantitativamente e qualitativamente migliore.
Insomma, anche il riferimento ai fabbisogni standard pone problemi pratici di attuazione, tant’è che tale meccanismo rischia di essere difficilmente attuabile.
- Il fatto che, in seguito al ricorso della Regione Puglia e alla relativa sentenza della Corte costituzionale 284/2016, i requisiti strutturali, organizzativi e qualitativi siano ritornati nelle competenze normative regionali, la nave della riforma dello 0/6 rischia di affondare o è semplicemente stata colpita gravemente? Quali possibili strategie consiglierebbe per arrivare a requisiti unici a livello nazionale per garantire realmente servizi educativi di qualità per ogni bambina o bambino indipendentemente dalla sua residenza?
La Corte costituzionale in questa sentenza ha ribadito quanto aveva già affermato alcuni anni prima in riferimento alla legislazione della regione Toscana su impugnativa del Governo che ne contestava la legittimazione (sentenza n. 120/2005). Pertanto, su questo assetto di competenze è difficile tornare. Lo spazio residuo di normazione statale tuttavia esiste ed è relativo alla definizione di principi fondamentali in materia di servizi 0/3 e specifiche norme generali sull’istruzione nel segmento 3/6 in modo tale da costituire punti di riferimento in grado di orientare la successiva legislazione regionale. Si tratta di percorsi che richiedono tempo e impegno politico, per cui si può sperimentare anche una ulteriore strada.
Per arrivare a definire standard minimi di qualità senza ricorrere ad una legge statale si potrebbe farne oggetto di un accordo da sottoscrivere in Conferenza unificata Stato, regioni ed enti locali. La soluzione tecnica potrebbe essere quella di stabilire e fissare regole comuni, di cui tener conto nella definizione dei parametri di ripartizione di una quota delle risorse finanziarie disponibili sia a livello centrale sia a livello regionale. Una parte delle risorse disponibili sono indirizzate verso il raggiungimento di standard minimi di qualità predefiniti. Inoltre, Stato, regioni e comuni dovrebbero impegnare loro stessi a tener conto degli stessi standard negli atti di normazione e di programmazione successivi alla sottoscrizione dell’accordo.
Dal punto di vista delle attività, assumono rilevanza la definizione di Linee guida per lo sviluppo dello 0/6 e gli orientamenti educativi, che ovviamente rappresentano strumenti di soft law, ma utilissimi per aumentare la qualità dei servizi.
- Il decreto legislativo 65/2017 disegna per la prima volta, a livello nazionale, una nuova governance per lo 0/6. Finalmente il cittadino sa a chi rivolgersi se al Miur, alla Regione, al Comune. Certamente le maggiori responsabilità gravano sulle Amministrazioni comunali che autorizzano e accreditano i servizi educativi e sono impegnati nell’attuazione del sistema integrato 0/6 in prima persona. Tenendo presente che molte Amministrazioni medio-piccole o piccole non hanno personale professionalmente preparato nel settore educativo, quale ruolo può svolgere l’Anci per sollecitare i Comuni a farsi parte attiva nell’educazione dei loro cittadini più piccoli?
L’attuazione del sistema integrato dell’infanzia presuppone il coinvolgimento di diversi attori, istituzionali e non, che operano a livello territoriale. Cito solo tre esigenze: coinvolgere i diversi stakeholders nelle attività di programmazione e di gestione, superando la rigida separazione pubblico/privato; ispirare le attività al principio dell’educare insieme, in modo da coinvolgere i servizi, gli operatori, le famiglie e gli atri soggetti interessati; considerare importante una sorta di responsabilità educativa diffusa, come pratica di impegno collettivo. Tutto questo comporta la costruzione di partnership sociali, di alleanze educative e di reti organizzative e professionali. Per stimolare, accompagnare, assistere anche sotto il profilo tecnico le amministrazioni ed ottimizzare le risorse disponibili, l’Anci potrebbe svolgere un ruolo fondamentale pro attivo, quindi ben più importante della semplice consulenza agli associati. L’Anci potrebbe aiutare i territori: ad evitare interventi educativi improvvisati e spinte centrifughe; creare un equilibrio flessibile tra centri istituzionali e periferie informali; favorire lo smistamento e lo scambio di informazioni; scambiare esperienze e buone pratiche; aiutare a migliorare le situazioni problematiche; rendere replicabili i casi di successo.
- La Commissione europea con i propri documenti (Comunicazione 66/2011, Raccomandazione 112/2013, Quality Framework/2014, Raccomandazione 761/2017) insiste per la promozione di servizi educativi 0/6 di alta qualità quale strada principale per abbattere gli abbandoni scolastici e collaborare per ridurre la povertà non solo educativa. Perché, secondo lei, la classe politica italiana è così disattenta ai servizi educativi e alle scuole dell’infanzia con la conseguenza immediata di pregiudicare i diritti delle bambine e dei bambini alla cura e all’educazione?
Mi pare che il tema dei servizi educativi e della scuola dell’infanzia sia da qualche anno all’attenzione dell’Agenda politica. Basti far riferimento al Piano straordinario per i nidi lanciato con la finanziaria del 2006 che ha consentito in dieci anni quasi di raddoppiare la copertura del servizio, alla legge sulla buona scuola e al decreto legislativo n. 65/2017 e al processo di implementazione in corso, alle dichiarazioni programmatiche dell’attuale Governo e al grande lavoro di aggiornamento e innovazione normativa svolto dalle regioni. Pertanto, più che di disattenzione parlerei di insufficienza delle politiche per i servizi all’infanzia. L’insufficienza riguarda sia gli investimenti finanziari – quindi occorre maggiore attenzione e lo stanziamento di maggiori risorse – sia il sostegno ai processi di implementazione delle riforme. Ad esempio, in alcune regioni del Sud non si riesce ad utilizzare tutte le opportunità offerte dai diversi canali di finanziamento e alcuni comuni non solo non riescono a mantenere aperti gli asili nido, ma a volte sono costretti a chiuderli pur in presenza di liste di attesa.
Un’ultima questione che ritengo critica riguarda le modalità per tenere viva l’attenzione al tema del sistema integrato che si va costruendo. Qui è fondamentale la comunicazione tra tutti i soggetti interessati, dalla società civile alle istituzioni – e i percorsi di aggiornamento e formazione degli operatori. Un ruolo importante può essere svolto, oltre che dalle istituzioni ai diversi livelli di governo, dalle associazioni professionali, dalle comunità di pratiche e dalle altre organizzazioni rappresentative.