
Roberta Pucci
La quotidianità, osservata con nuovi occhi, racchiude scoperte speciali ed episodi inattesi. La conoscenza dei linguaggi visivi offre all’insegnante l’occasione per trasformare il contenuto dello sguardo in oggetto concreto.
La quotidianità: non sarà forse un soggetto noioso da raccontare? Può suonare un po’ fuori moda questa parola nella percezione contemporanea – in un contesto che idealizza la rapidità e la novità. La quotidianità non è appariscente, e nello specifico dell’ambito educativo può accadere che le aspettative dei genitori si concentrino su attività specifiche o progetti con esperti, come se queste occasioni innescassero chissà quali apprendimenti straordinari.
Novità e ripetizione sono due aspetti complementari della quotidianità. Un elemento inatteso risulta interessante grazie alla routine in cui si inserisce, dove rimette in circolo i pensieri e li riorganizza. Mentre nel susseguirsi ininterrotto di cose sempre diverse, la novità diventerebbe pratica abituale e perderebbe il suo senso.
Guardando più da vicino, il confine tra “quotidiano” e “straordinario” si rivela sottile, variegato. Nella routine dei Nidi e delle Scuole dell’Infanzia accadono senza preavviso episodi speciali, testimonianze improvvise e sorprendenti dei processi in atto. Come “catturare” questi momenti preziosi e restituirli ai genitori?
Nella quotidianità, le teorie dello sviluppo e tutte quelle conoscenze teoriche che sostengono il pensiero educativo prendono corpo, diventano reali. Come riconoscerle nella routine di ogni giorno e come renderle visibili?
Dobbiamo innanzitutto esercitare il nostro sguardo con attenzione, costanza, partecipazione; renderlo sensibile ai dettagli – una postura, un gesto, “una prima volta che”.
La documentazione per trasformare lo sguardo in oggetto concreto
E a questo punto entra in gioco la documentazione, il passaggio che trasforma il contenuto dello sguardo in un oggetto concreto: la mediazione che ci permette di comunicare e condividere.
Ma per far sì che il messaggio arrivi a destinazione occorre scegliere il linguaggio giusto per veicolarlo, e fare il giusto uso del linguaggio. Il rapporto tra contenuto e forma si potrebbe definire circolare piuttosto che lineare: la “tecnica” non è altro dall’oggetto; la forma contribuisce a connotare semanticamente il contenuto, così come un certo contenuto può essere espresso da alcune forme e non da altre.
Entrando poi nello specifico, ogni linguaggio possiede una sua peculiare grammatica, un sistema di regole che lo strutturano. Così la fotografia, il video, la grafica necessitano di specifiche competenze che non appartengono alla professione di insegnante, nonostante la documentazione sia diventata ormai parte integrante di questo lavoro.
Come recuperare quindi l’inevitabile scarto? Come conciliare l’importanza di documentare con la specificità delle competenze che ciò comporta?
Credo che un buon punto di partenza possa risiedere nella consapevolezza della complessità insita nella professione di insegnante; di conseguenza, nella consapevolezza di dover far fronte a questa complessità acquisendo gli strumenti necessari.
Gli insegnanti e la conoscenza dei linguaggi visivi
Conoscere i linguaggi che si utilizzano diventa così un’esigenza imprescindibile che può attivare molteplici strategie su diversi piani: dalle scelte del coordinamento pedagogico, ad esempio attraverso corsi di formazione sulla grafica o sulla fotografia condotti da professionisti del settore, alla crescente sensibilità del singolo insegnante nei confronti degli aspetti visivi della vita di tutti i giorni.
La nostra “grammatica visiva” può essere costruita per gradi sviluppando attenzione e curiosità verso qualsiasi tipo di comunicazione – libri, riviste, siti internet, packaging. Cosa ci piace e cosa no? Perché? Quali elementi rendono facilmente leggibile un manifesto? Perché quella foto è confusa? Quali accorgimenti catturano l’occhio e lo trattengono, quali affaticano la lettura?
Parallelamente, l’osservazione del contesto che ospiterà la documentazione e le condizioni che la definiscono (per chi? Con quale frequenza?) ci forniranno indicazioni utili di cui tenere conto. Quali spazi abbiamo a disposizione? Quali sono le caratteristiche degli spazi e quali linguaggi grafici risultano più adatti a queste caratteristiche?
I pannelli con le fotografie, la soluzione più ricorrente, sono senz’altro efficaci ma spesso anche una scelta scontata, un’abitudine acquisita che ci preclude altre possibilità: proiezioni, cornici digitali, video, superfici appese al soffitto, percorsi incollati a terra.
La documentazione, le documentazioni.
Infine, un ultimo aspetto da considerare riguarda la relazione tra la documentazione quotidiana e le altre documentazioni o comunicazioni della scuola. Infatti, tutti gli aspetti comunicativi dovrebbero essere parte di un sistema armonico, con significati complementari non ridondanti e una forma visiva coerente.
Cercare di tenere insieme queste parti è complesso, significa mantenere vivo un approccio progettuale di ricerca.
Qualche anno fa ho partecipato a un lavoro interessante da questo punto di vista che vorrei portare come esempio. La responsabile del settore Infanzia della Cooperativa Sociale Labirinto di Pesaro, Gina Iacomucci, propose al gruppo delle coordinatrici di creare un “oggetto” che potesse presentare i servizi, raccontando quello che succede ogni giorno ma anche l’idea di educazione che sostiene l’interpretazione e le scelte del quotidiano.
Per un certo periodo iniziale, il lavoro si è svolto su due piani paralleli: quello del “contenuto”, attraverso la raccolta di materiali teorici e la definizione più precisa possibile di ciò che si voleva dire; e quello della “forma”, osservando materiali grafici e cercando di identificare gli elementi che più si adattavano a veicolare i contenuti. Nel percorso progettuale, le due strade sono comunque destinate ad incontrarsi molto presto: una volta stabiliti alcuni contenuti, infatti, la scelta delle relative foto già rappresenta contemporaneamente una questione estetica e semantica.
Subito dopo la scelta, ecco che si ripresentano aspetti specificatamente “visivi”: dove posizionare la foto nella pagina? In che rapporto con il testo? A colori o in bianco e nero? E così via, intrecciando e alternando momenti di ricerca sull’uno o sull’altro piano, in un percorso non lineare che alla fine abbiamo cercato di ricostruire con l’aiuto della competenza di grafico e illustratore di Michele Ferri.
Il “piccolo libro” come risultato di un lungo lavoro
Il risultato di questo lungo lavoro è un “piccolo libro” in cui cinque foto selezionate dalla documentazione quotidiana dei servizi, insieme a cinque testi teorici e a cinque poesie, esemplificano i cinque principi educativi portanti, che attraversano metaforicamente le pagine come fili colorati, declinati in modi sempre diversi
Il piccolo libro è diventato, come direbbe Bruner, un pensiero “esternalizzato” che, portato al di fuori di noi, ha acquisito un’esistenza propria; un oggetto “mediatore” tra gli stessi insegnanti, tra i diversi servizi, tra insegnanti e genitori, tra scuola e società.
“L’esternalizzazione”, trasformando il pensiero in qualcosa di concreto, rende anche più efficace e più semplice la rielaborazione del pensiero stesso, che poi di nuovo può tornare ad assumere altre forme, in altri luoghi.
Un esempio calzante è il progetto della parete di ingresso del Nido Comunale “L’incontrario” di Pesaro, gestito dalla Cooperativa Labirinto. L’allestimento della parete, realizzato insieme a Michele Ferri, ripropone i cinque concetti-chiave attraverso il tema del filo (che qui diventa anche motivo decorativo) e permette contemporaneamente di esporre in modo flessibile la documentazione.
Così le immagini del quotidiano non appaiono come episodi isolati a sé stanti ma all’interno di un pensiero; mentre le soluzioni grafiche del piccolo libro, anziché costituire un limite a cui doversi adeguare, hanno suggerito la direzione giusta per formulare un’idea collegata all’esperienza precedente ma riadattata al nuovo contesto e alle sue diverse esigenze.
I fili diventano “veri” e possono creare infinite combinazioni di linee, passando intorno a una serie di pomelli fissati a distanze regolari sulla parete. I pomelli vengono anche utilizzati per appendere fotografie o lavori dei bambini nel corso dell’anno, come piccole finestre su quello che succede nelle sezioni.
Un esempio, l’uso di una metafora
Lo scorso anno, ad esempio, le insegnanti hanno scelto di documentare come i bambini hanno utilizzato nella quotidianità dei libricini costruiti per loro dalle mamme, durante un laboratorio
L’esperienza acquisita nel tempo ha reso le insegnanti molto abili anche nella scelta e nella disposizione spaziale delle foto, di cui l’unica stampata a colori è stata collocata al centro. Inoltre la metafora del filo è stata sapientemente declinata in altri particolari della comunicazione del Nido, ad esempio nel piccolo gomitolo colorato che identifica un certo gruppo di bambini e che, essendo attaccato alla porta con del velcro, può essere spostato da una porta all’altra per indicare dove si trovano quei bambini.
A questo tipo di competenza si intreccia, naturalmente, quella pedagogica. Ed ecco che sulla parete compare la frase “Dove sei tu? Dove sono i tuoi amici?” per invitare i bambini a ritrovarsi tra le fotografie, un gioco che amano molto fare insieme ai genitori.
Lo sguardo attento vede sfumature diverse nella stessa azione ripetuta, di cui le foto diventano testimonianza. “Occhio, mente e cuore”: una buona fotografia, secondo il prezioso consiglio di Ferdinando Scianna, deve essere bella, comunicare l’informazione e trasmettere un’emozione. Mi sembrano queste le parole migliori per concludere la riflessione, augurando a tutti un buon inizio o un proseguimento fruttuoso e stimolante della ricerca sui linguaggi visivi.