Francesco Caggio
Ci sono giorni qualunque?
“Come accade la vita? È una questione di cui mi sono preoccupata presto… La vita si compone di innumerevoli, microscopici frammenti temporali. . .? Strano allora che non riusciamo a coglierla Dobbiamo riconoscere che è qualcosa di più della somma degli attimi. Più anche della somma di ciascun giorno. A un certo punto inavvertitamente, tutti questi giorni si trasformano in tempo vissuto”… (1)
Così C. Wolf ci richiama e ci ricorda che viviamo vivendo giorni, uno dopo l’altro, forse senza sapere, inconsapevolmente, che questi ci fanno, che li facciamo definendoli e definendoci attraverso di essi, accecati, come ci ricorda l’autrice, dalla realtà stessa in cui siamo e che compartecipiamo a costruire in un circuito che si autoalimenta, spesso nel silenzio. E questo silenzio sui giorni vissuti, come se ogni giorno fosse lo stesso giorno di ogni giorno, ripetuto e ripetibile (e questo ovviamente tanto più rischia di accadere nelle istituzioni) trascina con sé soprattutto il quotidiano che io apprezzo tanto. Dove? Nell’oblio.
E allora nel perdere e nel dimenticare il giorno che si ripete, ripetuto e ripetibile, abituale e annoiato e noioso, forse grigio della sciatteria del dato come ovvio e scontato, non ci perdiamo e non ci dimentichiamo di noi? Non perdiamo e non dimentichiamo la nostra soggettività che è pur proiettata in una storia? In una storia che non è soltanto nostra ma, anche compartecipata da altri e con altri; una storia che e individuale, ma anche comunitaria come accade anche, e ovviamente, per e in istituzioni, organizzazioni e servizi. Non perdiamo e non dimentichiamo momenti di essere? Non perdiamo e non dimentichiamo passaggi e momenti che nella loro apparente insignificanza, si sedimentano nel significato complessivo che prende una biografia, mentre, poi e dopo?
I bambini al nido vanno pur costruendo una biografia, esito di momenti di vita vissuti in un luogo diverso da casa; vanno costruendo una loro parziale, ma non irrilevante (anzi!) biografia che confluisce con le altre che si snodano e si costruiscono fra le diverse dimore da essi frequentate. Quanti momenti di oblio da parte degli adulti verso i loro momenti di essere? Sono forse già da subito – i bambini – educati a non pensarsi nel tempo? Quanta irrilevanza scorre nei nostri giorni rispetto al loro darsi come simili se non uguali; noia. Per noi adulti questo è certamente gravosamente vero; ma possiamo condividerlo, farne partecipi i bambini? Certamente no; sono meravigliati dal nuovo giorno e dal filo d’erba incontrato mentre vanno correndo in giardino, sono chiamati dagli attimi di incontro e di apertura del proprio sé che il mondo offre loro, nuovo per loro e rinnovato e da rinnovare per noi adulti. Adulti che non sono tenuti: a evitare il banale, a cercare o addirittura a inscenare quello che è significativo. Anzi è il banale che va aperto, che va dispiegato e forse sapremmo perché diamo così poco conto delle nostre esistenze non spettacolari, né particolarmente significative per la Storia, ammesso che questo sia vero una volta che ci si è pensato.
Non a caso la cosiddetta “nuova storia” (che ormai non lo è più, vista la datazione del testo fondamentale di Le Goff) ha fatto del quotidiano uno dei suoi luoghi, dei suoi tempi di esplorazione e ricostruzione di significati rilevanti per la storia di uomini e donne comuni; anche i bambini e chi li educa sono nella categoria del “comune”, la nuova storia, e non solo, ha preso su di sé tutto: il potenziale narrativo contenuto praticamente in qualunque giornata.
Vediamo, proprio seguendo il diramarsi della “nuova storia”, cosa i frammenti di memorie che troviamo nei nostri cassetti ci evocano, vediamo cosa ci possono dire questi resoconti di una giornata al nido stesi dalle educatrici: ci possono dire, sull`asse della storia della mentalità, qualcosa su come vengono pensati i bambini, come si pensano le educatrici, come viene concettualizzato il lavoro educativo; ci possono dire, sull’asse della storia della cultura materiale, come i bambini vanno crescendo fra oggetti, utensili, materiali di gioco e di impegni, con cosa e come vengono lavati, puliti, alimentati, di come e dove stanno concretamente; ci possono dire, sull’asse della storia dei marginali, di come il bambino e assunto a uno status privilegiato seppur esposto continuamente a periferizzazioni o insignificanza; ci possono dire, sull’asse della storia dell’immaginario, come viene costruita la mente dei bambini e di come vengono coltivati i loro sogni, i loro desideri, la loro immaginazione nonché la fantasia e la creatività e specificatamente attraverso quali attività e quali prodotti ritenuti di valore; ci possono dire, sull’asse della storia dell’immediato, come va evolvendosi il farsi delle loro microstorie di bambini; di come, nel tempo che scorre giorno dopo giorno, si costruisce, ora dopo ora, una storia più articolata e prospettica dei soggetti che vanno vivendo.
Nello specifico quello che raccontano le educatrici non solo dà loro la possibilità di recuperare e ricostruire significati al loro essere impegnate nella cura di qualcuno che è in fieri, ma anche dà dignità a questo essere in fieri, lo avvalora, proprio per essere richiamato nei racconti delle educatrici stesse.
(1) C. Wolf , Un giorno all’anno, 1960-2000, Roma, E/O, 2013 (edizione tascabile), p. 7.