Tradizionalmente il tema dei servizi educativi è stato associato alla voce costi e quindi è stata una ricorrente giustificazione per indirizzare presunti risparmi di spesa e tagli di risorse.
Dovremmo impegnarci e impegnare la ricerca in economia a analizzare quale valore per tutta la popolazione hanno i servizi educativi anche in termini economici: sono i luoghi della prevenzione (minor costi sociali e sanitari), le famiglie vivono più serene (meno difficoltà), offrono opportunità di lavoro (che peso hanno nel PIL?), etc etc
Una oggettiva ricerca sull’incidenza nel PIL darebbe già una collocazione più solida al settore e metterebbe in discussione una visione di tipo assistenziale caritatevole.
Se poi consideriamo anche gli aspetti non strettamente economici, prendendo in considerazione la logica del benessere di tutta la società (che ha comunque ricadute economiche non indifferenti) il nostro sguardo assume una prospettiva decisamente più ampia.
Questo potrebbe essere una visione da tradurre in obiettivi pratici e su cui stimolare un impegno dei ricercatori in campo economico-sociale.
Recuperare alcuni valori sociali (utilizzando in primis il buonsenso)
Dagli anni ‘70 abbiamo assistito (siamo stati coinvolti) a una mutazione genetica del welfare che da sociale si è trasformato sempre più in welfare aziendale. Questo processo ha progressivamente stravolto il concetto e la considerazione del “pubblico” avvilendone il valore a vantaggio di altre presenze che non sono state immuni a loro volta dalle mutazioni genetiche. Senza entrare in antichi dibattiti, ma con uno sguardo a quello che sta effettivamente verificandosi nel mondo attuale, quale è stata la mutazione del sistema cooperativo negli ultimi 50 anni? Che cosa si sta verificando nel mondo dell’impresa sociale?
Piccoli obiettivi di “buon senso”
In tutti questi processi, mentre continuiamo a celebrare l’obiettivo e la condizione essenziale della qualità dei servizi per l’infanzia, chi ha pagato lo scotto concreto e immediato in termini di protezione sociale (contratti di lavoro) e, diciamolo chiaro, monetaria, è stato il personale educativo. Siamo in presenza di una miriade di contratti a fronte della medesima prestazione. Possiamo pretendere lo stesso impegno, la stessa partecipazione in persone che facendo lo stesso lavoro, sono diversamente discriminate?
Il contratto unico per la medesima funzione può sembrare un obiettivo “ridotto”, ma proviamo a declinarlo e a porcelo come primo passo per un approccio di innovazione qualitativa del nostro immaginario del sistema dei servizi.
Poi seguiranno altre valutazioni che mettono in discussione altri sistemi di interessi: se la formazione universitaria “formato spezzatino” è intesa alla competenza dei futuri educatori o risponde alle logiche degli interessi universitari, se la segmentazione dei contratti (e dei gestori) dell’educazione zerosei è funzionale alle prospettive di sviluppo del sistema integrato o risponde a vecchie logiche di spartizione di tessere e potere…
Potremmo continuare, ma vuole essere solo un avvio di riflessione. Raccogliamo la sfida?