Negli incontri che si succedono in questo periodo il discorso cade spesso, e non a caso, sui temi della delega contenuta nella 107 e sulle prospettive dei servizi dell’infanzia.
L’atteggiamento più diffuso tra le educatrici è di preoccupazione per il futuro. La domanda ricorrente è: che cosa faranno di noi? Quale sarà il nostro futuro? Che cosa decideranno?
È un atteggiamento che mi fa letteralmente infuriare. Non per la preoccupazione condivisibile per le prospettive di cambiamento e per l’investimento umano, culturale, professionale che può richiedere il rimettersi in gioco. Su questo siamo d’accordo che ogni cambiamento è una sfida che richiede investimento di energie, volontà di rinnovamento, scommessa sulle proprie capacità. Può esere un momento di difficoltà, ma è certamente un momento positivo.
Quello che trovo inaccettabile e non riesco a condividere è la rassegnazione che traspare da quel chiedersi: che cosa faranno di noi? Veniamo da decenni di frustrazioni economiche, di incantamenti televisivi, di funambolismi della politica, ma non possiamo rassegnarci all’impotenza. Credo che sia assolutamente da combattere il diffuso atteggiamento di remissione, di affidamento a volontà esterne con una sostanziale rinuncia al pensiero critico, al giudizio autonomo, alla volontà e alla pratica di “contare”.
Questo soggetto indefinito che dovrebbe decidere per noi e del nostro futuro, non esiste se non siamo noi a dargli spazio e di cedergli il potere. Siamo in una società democratica, pur con tutte le imperfezioni e i limiti di una democrazia, ma sempre di democrazia sui tratta. Siamo cittadini e cittadine, siamo noi i titolari del potere politico, sta a noi indirizzare le scelte.
La rassegnazione è un fatto grave perché significa abdicazione della nostra i’umanità piena: non lasciamo ad altri quello che è nostro. Partecipiamo nelle sedi di elaborazione e decisione, facciamoci sentire.
Tanto più è importante essere attivi e protagonisti almeno per due motivi:
- per la storia della nostra professione perché i servizi per l’infanzia non sono calati dall’alto, ma sono stati conquistati giorno per giorno, passo per passo dalle educatrici che ci hanno preceduti, dai genitori che hanno preteso un futuro per i loro figli;
- per il significato profondo della nostra professione: siamo chiamati a formare i cittadini di domani (a far crescere i piccoli cittadini perché siano attivi protagonisti domani): rassegnarsi oggi, abbandonarsi a scelte e volontà esterne, è tradire il senso profondo della missione di educare.
Non ci viene chiesta la rivoluzione, non ci è chiesto di scendere in piazza (forse servirà anche quello): il primo essenziale passo è riprenderci lo spirito critico, rimettere in moto la testa, rifiutare di accettare acriticamente le posizioni che ci vengono proposte.
Ragioniamo, prendiamo posizione, non abbiamo paura di sbagliare e di confrontarci. Solo se siamo cittadini consapevoli e attivi saremo educatori responsabili.
Per finire in termini più leggeri, ricordo un episodio della politica di diversi decenni fa. Il ministro dell’epoca all’Agricoltura (credo fosse Ferrari Aggradi, quindi siamo alla fine degli anni ‘50) mentre si discuteva della prima grande riforma agraria, in un momento di grande tensione in Consiglio dei Ministri, sbottò in un’esclamazione: “per fare bene qualsiasi cosa, zucche ci vogliono, zucche!”. E non si riferiva alle cucurbitacee.
Pensiamoci anche noi: le zucche ci sono? E sono attive?