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Siamo tutti mutanti

Ornella Martini

Professore associato


Novembre 2015

Dove, parlando di natura e cultura, racconto perché diventiamo giovani e come i giovani oggi sono quel che sono

Nel mio articolo precedente ho raccontato un po’ chi sono, dove e come vivo, e come questo determina quel che scrivo. Scelgo il termine ‘determina’ per sottolineare, con forza e intenzioni positive, che ciascuno di noi è, al tempo stesso, il frutto della relazione dinamica tra il contesto ‘naturale’ e ‘culturale’ in cui vive; in questa dinamica si attua la condizione umana in tutta la sua complessità e varietà.
Ho considerato proprio l’unità inscindibile di natura e cultura la variabile principale di tutto il mio ragionamento, utilizzando il rimando a Damasio come fondamento: il neurofisiologo parla dell’omeostasi come processo di regolazione della vita degli esseri viventi, che si attua costantemente tra due varietà che lui chiama “fondamentale” e “socio-culturale”. Riporto la citazione che ho utilizzato:
“Le varietà dell’omeostasi – a entrambi i livelli, fondamentale e socioculturale – sono separate da miliardi di anni di evoluzione e tuttavia, sebbene in nicchie ecologiche differenti perseguono il medesimo obiettivo: la sopravvivenza degli organismi. Nel caso dell’omeostasi socioculturale, quell’obiettivo si è ampliato fino ad abbracciare la ricerca deliberata del benessere. Va da sé che il modo in cui il cervello umano gestisce la vita richiede che entrambe le varietà di omeostasi interagiscano continuamente. Tuttavia, mentre la varietà fondamentale dell’omeostasi è un’eredità prefissata dal genoma, la varietà socioculturale è un fragile work in progress responsabile di gran parte della drammaticità, della follia e della speranza insite nella vita umana. L’interazione fra questi due tipi di omeostasi non è confinata al singolo individuo. Dati sempre più numerosi e convincenti indicano che, nell’arco di numerose generazioni, gli sviluppi culturali inducono modificazioni nel genoma” (Damasio, 2012, 42-43).
Le scienze umane, attualmente, condividono lo stesso orientamento, sulla sua base sviluppano nuove prospettive di ricerca e di azione politica; soprattutto il confronto, a distanza variabile, tra neuroscienze e psicologie produce le ricerche più interessanti, per me. In questa cornice teorico-pratica fondata sul processo trasformativo della natura in cultura, in una spirale continua nella quale la cultura diventa natura e così via, individuo temi e ipotesi delle mie ricerche in campo educativo, nelle quali la presenza di tutte le tecnologie è parte integrante del processo.
Ecco, in questo contributo individuo il tema delle età della vita come frutto del processo regolativo tra organico e culturale, ragionando sull’età giovanile e la sua necessità in termini generali, di specie, e in termini particolari, di attualità, cioè cos’è l’infanzia e l’età giovane oggi.
La faccenda inizia circa sei milioni di anni fa quando gli antenati umani cominciarono a sperimentare la posizione eretta. Questa fondamentale tappa evolutiva comportò numerosi vantaggi e trasformazioni, come la liberazione della mano e la funzione del pollice opponibile, da usare, per prima cosa, per procurarsi il cibo non più soltanto con la bocca e poi per raccogliere, trasformare, costruire oggetti; la liberazione della bocca comportò la straordinaria possibilità di sperimentare il linguaggio; la posizione eretta quella di realizzare la sessualità frontale, maggiormente ricca di comunicatività affettiva.
In cambio di tali significativi vantaggi, la posizione eretta richiedeva la modifica delle dimensioni delle dimensioni e del canale del parto, cioè la loro riduzione, onde evitare, sia al feto sia alla madre, le conseguenze di un peso e di un volume eccessivo da sopportare durante la gravidanza e, soprattutto al momento del parto.
“Tale assetto, presente tra i primati solo negli umani, ebbe importanti conseguenze sulla gestazione e la nascita, e influì in modo decisivo sull’evoluzione socioculturale della nostra specie. La restrizione del canale del parto imponeva, infatti, limiti considerevoli al volume che il cranio poteva avere al momento della nascita: per prevenire i rischi di morte della madre o del bambino durante il parto, la natura ridusse quindi la durata della gestazione, così che da quel momento in poi i piccoli d’uomo vennero al mondo ‘prematuri’ incapaci di provvedere a se stessi e bisognosi di cure più di qualunque altro primate. Per garantire la sopravvivenza della specie, fu necessario allora offrire al cucciolo la possibilità di dipendere da un adulto capace di proteggerlo, nutrirlo, farsi carico dei suoi bisogni. Di tale compito si occupò la madre, sostenuta non solo dalla predisposizione all’allattamento ma anche da sentimenti che le suggerivano di mantenere una vicinanza, una prossimità fisica con il bambino, al fine di renderlo adatto a sopravvivere” (Turuani, Comazzi, 2015, 14-15).
La ‘scimmia nuda’ è un essere fragile, il cui cervello di neonato sapiens non raggiunge che il 23% delle sue dimensioni, mentre quello “dello scimpanzé neonato possiede già il 70% della sua dimensione adulta[…] Effettivamente l’uomo, dal punto di vista fisico, è un feto di primate giunto alla maturazione sessuale.[…]. Soltanto il suo cervello e la sua placenta sono considerevolmente evoluti. Certamente, questo processo era già in movimento tra gli antropoidi, ma è sotto la spinta socioculturale che prosegue con l’ominidizzazione” (Morin, 1994, 86-87).”
L’“ominidizzazione” è il lungo e complesso percorso attraverso il quale i primati ominidi sono diventati uomini, si basa sulla costante dinamica tra natura e cultura, le due varietà di omeostasi, fondamentale e socio-culturale, indicate da Damasio: proprio la condizione naturale d’immaturità, fragilità e debolezza, dovuta all’esigenza di far crescere il cervello dopo la nascita, e quindi di procedere lentamente con la crescita, ha permesso e permette all’uomo di sviluppare e trasformare la dimensione socioculturale.
La fragilità di quell’umanoide deambulante si è trasformata nella sua forza, rendendolo biologicamente e culturalmente destinato ad accrescere il suo cervello, ritardando così la maturazione a essere adulto; anzi, proprio i limiti di dimensioni e funzioni cerebrali alla nascita rendevano possibile un’interazione continua con l’ambiente, tale da rendere il processo di maturazione potenzialmente infinito e, dunque, incompleto, attraverso l’esperienza e l’apprendimento.
Questo passaggio è incredibilmente interessante perché ci spiega la ragione per la quale la specie umana ha bisogno dell’età giovane, ovvero della lunga fase che, dall’infanzia attraverso l’adolescenza, arriva all’età adulta. Il processo di allungamento dell’età infantile e giovanile permette al cervello di crescere e di strutturare dinamicamente le sue funzionalità: i processi di ”cerebralizzazione” non possono essere disgiunti dai processi di “giovanilizzazione”. L’essere umano ha bisogno del tempo lungo dell’infanzia e dell’adolescenza per permettere al cervello in azione con l’ambiente circostante di crescere, organizzarsi e funzionare.
La crescita e la maturazione avvengono attraverso l’esperienza e l’apprendimento in un determinato contesto socioculturale, quindi, a seconda delle caratteristiche di questo cambiano i tempi e i modi dell’infanzia e dell’adolescenza: le età della vita, nonostante un fondamento biologico, cambiano in funzione del contesto.
E qui viene il bello per noi. Cosa sta succedendo oggi? Alcuni tempi si accorciano, altri si allungano; cambiano le famiglie, le relazioni sociali, le conoscenze, le teste.
Vediamo per cenni la situazione. Il nostro paese è sempre più ‘vecchio’, con uno degli indici di natalità più bassi del mondo; i bambini, sempre più rari, sono vezzeggiati e protetti a lungo, troppo, soprattutto dalle madri “avatar” di specie italica, la più insistente nel prolungare l’estensione del cordone ombelicale invisibile, oggi costituito dalle varie forme di controllo e interazione digitale, ben oltre i limiti dell’infanzia propriamente detta. Nello stesso tempo, si accorcia il passaggio dall’infanzia all’adolescenza perché la pubertà arriva prima, per effetto anche qui della dinamica tra fondamento biologico e socioculturale: il benessere fisico diffuso comporta una maturazione fisiologica generalmente più precoce, questa è accompagnata da una sovra-esposizione informativa dei preadolescenti che li rende molto informati, maturi sessualmente ma non altrettanto psicologicamente.
L’infanzia si allunga con le madri, si accorcia con lo sviluppo, s’interrompe, spesso bruscamente, con l’adolescenza; l’adolescenza si prolunga, troppo, verso un’età adulta che sembra non arrivare mai, accompagnata da genitori sempre più impreparati, sempre più infantili e da condizioni socio-economiche che non aiutano certo l’inventività e l’autonomia. In tutto questo gli anziani sono sempre di più e sempre più anziani, proiettati, però, verso condizioni di ringiovanimento.
Queste sinteticissime note s’intrecciano con altri elementi di contesto, che rendono l’insieme ancora più elastico e indefinito: la cultura digitale sta modificando nel profondo il mondo in cui eravamo, stiamo vivendo una “mutazione”, per dirla alla Baricco, che ci rende anfibi, ancora una volta nelle due dimensioni dell’omeostasi, fondamentale e socio-culturale. Siamo tutti mutanti e i nostri figli e nipoti lo sono sempre di più, e non sappiamo se e quando la trasformazione sarà completa.
“Si, da alcuni anni mi accorgo che viviamo un periodo paragonabile all’aurora della paideia, dopo che i Greci appresero a scrivere e a dimostrare, e simile al Rinascimento, che vide nascere la stampa e affermarsi il regno del libro. Periodi tuttavia incomparabili perché, mentre cambiano le tecniche, il corpo subisce una metamorfosi, si trasformano la nascita e la morte, la sofferenza e la guarigione, i mestieri, lo spazio, l’habitat, lo stare al mondo” (Serres, 2013, 9).
I cambiamenti in atto sono così tanti e, spesso, tanto veloci da confondere e far perdere l’orientamento: praticamente non c’è più nulla che riusciamo a tenere al suo posto, né regole né principi, né relazioni né sapere, soprattutto, non riusciamo più a tenere fermi i ragazzi nei banchi. Non è detto che tutto questo sia necessariamente un male: perdendo tutti i riferimenti abbiamo la possibilità di scegliere e negoziare quali e come considerare validi; è una sfida affascinante e difficile: richiede lucidità, passione, fantasia, consapevolezza, sensibilità, conoscenza, disponibilità. Inutile e insensato restare ciecamente aggrappati a certezze ormai soltanto nominalmente tali; molto più sensato, utile, impegnativo accogliere il cambiamento che travolge ciascuno di noi e, senza necessariamente lasciarsi andare alla corrente recriminando, provare a navigare immersi, cercando di tracciare noi la rotta, orientandoci tra le nostre nuove esperienze e quelle di quei giovani esseri le cui mutazioni sono più avanzate e che, nel bene e nel male, in questo nuovo mondo si muovono più agilmente e sensatamente di noi adulti.
“I giovani sono portatori all’interno della classe degli uomini del loro gusto del gioco, della loro affettività, delle loro molteplici domande, della loro curiosità onnivora, e questi caratteri possono integrarsi collettivamente (danze, feste, giochi) e far sopravvivere individualmente ciò che fa sì che l’uomo maturo possa restare in un certo senso giovane, non più fisiologicamente, bensì nello spirito. Di conseguenza la classe degli uomini non è propriamente parlando la classe degli adulti, è la classe maschile degli uomini giovani, degli uomini maturi, dei vecchi, dove gli adulti si considerano dei giovani in rapporto ai vecchi, coloro che sanno, coloro che hanno realmente accumulato la cultura e che, nelle situazioni incerte o equivoche, sono ugualmente capaci di ricordarsi buone soluzioni già sperimentate e di inventare una soluzione nuova” (Morin, 1994, 87).
Gli adulti hanno, oggi più che mai, nonostante la perdita di tutte le certezze, la possibilità di costruire proprio insieme ai giovani le forme e i contenuti dell’età adulta, attraverso la testimonianza di una maturità consapevole e creativa, colta e affettuosa. Tutto il contrario dell’atteggiamento immaturo tanto diffuso che, imitando i ragazzi , del gioco coglie soltanto la leggerezza stolta dell’intrattenimento e della seduzione.
La mobilità biologica e culturale delle età è ormai così dinamica e elastica da facilitare, volendo, gli scambi tra una e l’altra, a patto che si lavori per favorirli, altrimenti il rischio è la perdita della possibilità stessa che gli adulti svolgano il loro compito di esempio e di supporto al passaggio alla maturità; che gli anziani abbiano l’occasione di contribuire con la proposta di “buone soluzioni già sperimentate” e, ancora meno, d’inventarne di nuove.
Abbiamo bisogno di reinventare l’educazione per renderla coerente con le trasformazioni in atto: liberare i bambini dalle paure degli adulti per rendere loro la libertà di movimento e il gusto di provare a fare da soli, rischiando di sbagliare e di fallire; lasciarli crescere senza la fretta di capitalizzare gli investimenti economici e affettivi fatti, affiancandoli nell’esplorazione delle caotiche e sorprendenti possibilità messe in circolazione dal dilagare della cultura digitale. Più di ogni altra cosa, dobbiamo ripensare la considerazione dell’adolescenza non più come età ingrata in costante stato di emergenza deviante ma, al contrario, come “età delle opportunità” (Steinberg, 2015), dovuta proprio alla plasticità del cervello ancora in formazione, quel cervello alla nascita tanto piccolo per poter entrare in quella testa. Dobbiamo investire sui ragazzi in affettività e fiducia, per non lasciarli soli e fragili, con tanti adulti che giocano a fare gli adolescenti.
“Come atomi senza valenza, i ragazzi sono nudi”, scrive ancora Serres; al grande vecchio, filosofo e intellettuale, fa eco la ragazza che, dai suoi sedici anni, scrive: “Noi ragazzi e ragazze siamo sospesi tra ignoranza e genialità.”

Rimandi
Damasio Antonio (2012), Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, Milano
Morin Edgar (1994), Il paradigma perduto. Che cos’è la natura umana?, Feltrinelli, Milano
Serres Michel (2013), Questo non è un mondo per vecchi. Perché i ragazzi rivoluzionano il sapere, Bollati Boringhieri, Torino
Steinberg Laurence (2015), Adolescenti. L’età delle opportunità, Codice, Torino
Turuani Laura, Comazzi Davide (2015), Mamme avatar. Come le mamme possono usare collaboratori, tecnologia e presenza simbolica per accompagnare i figli nella crescita, anche quando sono lontane, BUR parenting, Milano

Documentazione:

Il cinghiale e la contadina