Due principi che dovrebbero essere garantiti dalla democrazia e che invece, sempre più spesso, risultano inconciliabili .
DAL CASO DEL PANINO A SCUOLA ALLE INGIUSTIZIE SUBITE DAI MIGRANTI
Luigi Manconi e Valeria Fiorillo
Per i giudici lasciare che ciascuno consumi il proprio pasto familiare vorrebbe dire accettare disparità tra gli alunni.
Le vite di chi cerca rifugio in Europa hanno un valore diverso e inferiore rispetto alle vite di coloro che vengono da realtà favorite.
Non avrà, certo, la forza irridente dello’hamburger riprodotto da Andy Warhol, e tantomeno l’ironia sovvertitrice della ricetta per la perfetta tartare di manzo, proposta da Marcel Duchamp: tuttavia, il panino di alcune scuole di Torino ha già meritato un ruolo significativo nella storia gastronomo-ideologica del nostro paese.
I fatti risalgono al 2014, quando un gruppo di genitori degli alunni di alcune scuole elementari e medie torinesi chiese alla magistratura di tutelare il diritto di scegliere per i propri figli tra refezione scolastica e pasto domestico, da consumarsi nei locali della mensa dell’Istituto. La vicenda giudiziaria si è conclusa qualche settimana fa con una sentenza, pronunciata dalla Corte di Cassazione in Sezioni Unite, dove si afferma che non esiste “un diritto soggettivo all’autorefezione individuale”, in quanto la sua esistenza contrasterebbe con il “diritto alla piena attuazione egualitaria del progetto formativo, comprensivo del servizio mensa”. In altre parole, per i giudici della Cassazione consentire a ciascuno di consumare il proprio pasto in base alle risorse e alle ricette familiari evidenzierebbe condizioni di disparità tra alunno e alunno, compromettendo il connotato ugualitario dell’offerta scolastica. La Cassazione tuttavia ha affermato che le concrete modalità di gestione del servizio mensa, rientrando nell’autonomia organizzativa delle scuole, possono essere oggetto di scelte condivise con le famiglie.
In ogni caso, quella sentenza riflette un dilemma sempre più frequente nelle società avanzate. Ovvero la necessità di scegliere tra due beni essenziali, costituzionalmente protetti, come il principio di uguaglianza e il diritto alla piena autodeterminazione individuale: anche per quanto riguarda le preferenze e i gusti in campo alimentare. Si tratta di due diritti che possono entrare in aperto conflitto. La pronuncia della Cassazione tenta una mediazione: da una parte, salvaguarda la finalità fondamentale del servizio pubblico scolastico che impone la parità nell’intero processo di formazione; dall’altra, raccomanda (ma si tratta, appunto, di una raccomandazione) accordi e provvedimenti che rispettino la libertà del singolo senza che questa venga compressa a vantaggio di un’uniformità imposta dall’alto.
Ma, come si vede, il conflitto tra due diritti, entrambi meritevoli di protezione, resta irrisolto e “la guerra del panino” mostra la profondità e, per certi versi, la drammaticità di alcune contraddizioni proprie delle democrazie mature. Dove, cioè, l’inclusione nel sistema della cittadinanza e l’estensione delle garanzie sociali al maggior numero possibile di individui può portare con sé – a causa della scarsità di risorse disponibili – una minore tutela per la peculiarità dei bisogni individuali. Gli esempi possibili sono mille, ma basti qui richiamare l’irrisolta tensione tra sicurezza collettiva e libertà personale oil contrasto così difficilmente componibile tra difesa del posto di lavoro e tutela della salute e dell’equilibrio ambientale.
E, tuttavia, non siamo ancora al cuore del problema che ha radici più profonde e tuttora inesplorate.
Quello che resta sommerso è la realtà ineludibile di organizzazioni sociali che tendono irresistibilmente a produrre vecchie e nuove diseguaglianze. E ciò si deve all’iniqua acquisizione e distribuzione delle risorse, materiali e immateriali, e alla diseguale disponibilità di potere e delle opportunità di accesso a esso. È questo il terreno di analisi affrontato dal recente libro di Didier Fassin, Le vite ineguali Quanto vale un essere umano (Feltrinelli, 2019). L’autore indaga su quelle disparità che non rimandano solo a condizioni sociali asimmetriche, ma, appunto, a vite ineguali, così determinate da ragioni antiche di natura etnica o confessionale, da cause antropologiche o da eventi per così dire naturali, come i disastri ambientali o le pandemie.
Ed ecco, allora, che le vite dei migranti che si rifugiano in Europa, dei malati di Hiv in Sudafrica, dei prigionieri illegalmente detenuti in Ecuador, dei neri d’America delle vittime del conflitto israelo-palestinese nella Striscia di Gaza hanno tutte in comune quel valore diverso e inferiore rispetto alle vite di coloro che provengono da realtà privilegiate Attraverso l’analisi di questi casi paradigmatici Fassin spiega che l’ineguale valore delle esistenze discende da uno scivolamento etico verso la bio-legittimità, cioè verso l’affermazione di un’etica della vita, che sacralizza la stessa nella sola dimensione fisica, individuandola come bene supremo, unico e assoluto. Questa concentrazione dell’etica sulla vita biologica porta con sé la marginalizzazione e degradazione della vita nella sua dimensione sociale e politica (quella che Giorgio Agamben, col quale Fassini dialoga, definisce bios o “vita qualificata”). Ciò determina una crescita delle disuguaglianze sul piano della giustizia sociale, con la conseguente ineguale dignità delle esistenze. Secondo Carlo Bordoni sociologo e studioso di Fassin, l’acuirsi della disparità tra “vite ineguali” è la cifra della post-democrazia Nel suo Uguaglianza. Crisi di un’utopia moderna (Castelvecchi, 2017) egli segnala la potente tendenza alla restaurazione delle differenze sociali e il fatto che, mentre si proclama il primato della libertà e delle libertà, si restringono gli spazi vitali per la loro affermazione. Anche questo autore, come gli altri citati, muove dalla convinzione che una presa di coscienza delle disuguaglianze esistenti sia il presupposto necessario per giungere all’adozione di provvedimenti “parificatori”. Questa indicazione, totalmente condivisibile, si scontra con la realtà delle politiche di gran parte dei governi delle democrazie occidentali, che si muovono risolutamente verso tutt’altra direzione: o per opzione programmatica o per debolezza politica e strategica. Esserne consapevoli non significa arrendersi e accettare una struttura sociale dove aumentano le sperequazioni tra gli individui ei gruppi. Al contrario: l’indagine più attenta delle dinamiche sociali può essere uno strumento per contrastare gli effetti di ingiustizia e sperequazione da esse prodotti. È la vita stessa di Fassin a suggerirlo. Medico, antropologo, vicedirettore internazionale di Medici Senza Frontiere, presidente del Comitato per la salute dei profughi, responsabile di numerose ricerche epidemiologiche in America Latina e in Africa. La biografia di Fassin dimostra come la conoscenza possa risultare un importante strumento di cambiamento sociale.
La Repubblica, Domenica, 11 agosto 2019