
Loris Malaguzzi
Da sempre il primo impatto che il visitatore aveva visitando i nidi e le scuole dell’infanzia di Reggio Emilia è stato quello della bellezza della qualità dei servizi sul piano visivo nelle sue diverse forme. Spazi ordinati, documentazioni esposte alla parete con un ordine non solamente funzionale, ampia disponibilità di immagini in tutte le sue forme e soprattutto la pregnante presenza dell’atelier che sembra dare logica e senso all’intero progetto educativo reggiano. Solo in un secondo momento e solo chi è più attento si rende conto che c’è molto di più, che la proposta educativa reggiana – pur nella centralità dell’atelier, presente e funzionante in ogni servizio – non è un semplice un vezzo estetizzante.
Da sempre e fin dagli esordi Malaguzzi non ha mai nascosto la sua diffidenza per gli schemi e le strutture (oggi, in modo ancor più riduttivo, si parlerebbe di format), così come per ogni forma di scientismo, consapevole che la realtà è sempre complessa e che anche la pedagogia e l’educazione non riducibili a modelli e paradigmi chiusi.
Lo dice chiaramente: l’esperienza degli atelier è stata ed è di fondamentale importanza ma – dice – “Non ci sono formule!”.
In questo senso, senza volere per forza appiccicare un’etichetta, Loris sembra essere in piena sintonia con Gadamer quando afferma che l’estetica si risolve sempre in un’ermeneutica, una partecipazione alla realtà complessa e insieme ad una sua elaborazione per la ricostruzione di mondi possibili.
La pedagogia di Malaguzzi non è tesa solamente al visivo (atelier costituisce solamente un aspetto, benché inevitabilmente il più vistoso e che può più facilmente colpire ad esempio il visitatore): basti pensare ad esempio alle letture originarie di Pinocchio (i primi “progetti” di lavoro della prima esperienza modenese erano incentrate sul burattino di Collodi) e soprattutto al sodalizio decennale con Gianni Rodari.
Il testo che proponiamo è un’intervista del 1988 e Malaguzzi offre una sorta di retrospettiva, uno sguardo nello stesso tempo non distaccato e sereno sulla pluridecennale esperienza degli atelier come componente integrante e sostanziale delle scuole dell’infanzia.
Battista Quinto Borghi
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“bambini”, Edizioni Scolastiche Walk Over – Bergamo, febbraio 1988, pp. 26-31
L’esperienza educativa dei bambini di Reggio Emilia ha alle spalle una lunga storia. Esperienza e storia conosciute e apprezzate in Italia e all’estero tanto da diventare riferimento e interlocutrici di migliaia di visitatori[1]. Dal 1981 al maggio 1988 Reggio Emilia ha ospitato 112 delegazioni italiane per 1875 unità. Nello stesso periodo ha ospitato 281 delegazioni straniere (Europa, USA, Asia, Africa) per complessive 3802 unità. Una prima mostra sull’esperienza “L’occhio se salta il muro” sta ancora girando per l’Europa. Una seconda mostra “I cento linguaggi dei bambini” ha di recente iniziato una tournée negli USA.
Loris Malaguzzi ha accompagnato il nascere e lo sviluppo di questa fatica che ora continua nelle mani dei suoi più giovani collaboratori.

I significati dell’innesto dell’atelier – I modelli pedagogici e culturali – Natura e finalità dell’atelier. Il doppio binario interpretativo della lettura dei linguaggi espressivi – Il cavallo di Freinet costretto a bere – L’arrivo delle tecnologie -Il flirt con la luce – La creatività inseguita da Scherlok Holmes e quella dei bambini – L’impostazione socio-interazionista nel segno di una nuova epistemologia – Il ruolo delle strategie educative e famosa macchina di Chicago.
Atelier è un termine storico preciso, indica il luogo di lavoro degli artisti tra la seconda metà dell’800 e i primi del ‘900 e nel linguaggio comune, spesso in modo retorico, è associato all’immagine dell’artista bohemien. Perché atelier e atelieristi?
L’atelier ha, con la tua chiave di lettura, i riferimenti che dici.
Ma, scusami, se scomodo Wittgenstein per dire che anche il concetto di atelier (come tutti i concetti) non spiega ma viene spiegato. Spiegato dal suo uso, dalla sua pratica.
Ad esempio, l’atelier nacque nella nostra esperienza (e parlo di 25 anni fa) già incluso nel progetto generale dell’educazione infantile e fisicamente incluso in ogni scuola dell’infanzia e poi, dagli anni ’70, in ogni nido. Il suo ruolo, integrato e combinato nel quadro della strategia didattica, nasceva non solo come ritorsione nei confronti della marginalità e del servilismo dell’educazione espressiva e di una concezione pedagogica fatta di parole e di riti poco più che baliatici ma innanzi tutto come recupero di un bambino più ricco di risorse e interessi, interazionista, costruttivista, di una scuola più consapevole e orientata e di una professionalità docente che, intristita dalle bassezze della scuola magistrale, doveva necessariamente rifarsi sul campo.
In questo quadro di poliglottismo culturale, per dirla con Lotman, e di connessioni batesoniane, l’atelier avrebbe dovuto reinventarsi. Parte di un disegno complesso, luogo aggiunto dove affondare e abilitare la mano e la mente, affinare l’occhio, l’applicazione grafica e pittorica, sensibilizzare il buon gusto e il senso estetico, decentrarsi in progetti congiunti con le attività disciplinari di sezione, ricercare motivazioni e teorie dei bambini dallo scarabocchio in su, variare strumenti, tecniche e materiali di lavoro, favorire trame logiche e creative, familiarizzare con le sintonie e le discrepanze dei linguaggi verbali e non, l’atelier non poteva delinearsi che come soggetto-tramite di una pratica polivalente, provocatoria di eventi specifici e interconnessi: trasferendo forme e contenuti nella proposta educativa quotidiana.
Una storia lunga la vostra, appoggiata ad un progetto già elaborato di educazione infantile. Avevate dei modelli cui richiamarvi?
I modelli? Un’ispirazione multipla da letture e esperienze che, in breve, arrivava da più sponde. Da Dewey, dalla Bauhaus col suo ripudio dei miti sublimi dell’arte e della sua scissione dall’esperienza di vita, da Peirce, Wertheimer, Bruner, Piaget, Arnheim, Gombrich, Read, Lowenfeld, Klee, Mondrian, Magritte ma anche da Luria, Vigotsky, Wallon, Freinet e l’attivismo, Ada Gobetti, Mario Lodi, Gianni Rodari e dalla riflessione critica circa le lezioni di Rousseau, Froebel, Montessori, Agazzi.
Con molta attenzione alle teorie della visione, ai problemi dettati dal crescere della società iconica, alle ricerche sul cervello e la percezione, ai cambiamenti delle scienze, all’avvento tecnologico, alla forza dei media, all’etica laica, ai mutamenti della famiglia e dei bambini, alle incongruenze pedagogiche, alle pressioni e contraddizioni sociali e di costume. E soprattutto con l’ansia e la volontà, come ho detto prima, di invertire la rotta di una scuola ottocentesca e filantropica, moralista e citazionista, tutta monopolio arrogante di una parte che rivolgendosi ad un bambino bambolo e paupero esaltava di fatto l’inesistenza pedagogica e di avviarla verso ricerche più ricche, rigorose e composite e nuove direzioni antropologiche e culturali.
Come vedi un filtraggio ampio e ambizioso. Da dosare, selezionare, senza mai paradigmi risolti. Privilegiando l’osservazione delle esplorazioni, delle procedure e delle teorie strategiche dei bambini, come premessa e strumento di studio, di analisi riflessiva, di ipotesi, per accomodare le proposte, i contenuti e gli atteggiamenti degli adulti. Nella convinzione che per i bambini e adulti valesse la regola di Hawkins: familiarizzarsi con l’uso dell’apprendimento e della conoscenza per acquisire ulteriore apprendimento e conoscenza.

Certo, la inclusione di un atelier nell’organizzazione scolastica ha rappresentato una caratterizzazione originale. Ma anche una caratterizzazione dell’atelier e del suo ruolo. Potresti inquadrarmi meglio le sue funzioni e le sue finalità?
Certo l’irruzione dell’atelier (e dell’atelierista, un insegnante diplomato dai licei o dalle accademie d’arte, una figura anche lei da reinventarsi strada facendo) organizzatore e elaboratore e co-organizzatore e co-elaboratore, perturbava volutamente il vecchio modello della scuola del bambino, già rimosso dalla compresenza di due insegnanti per sezione, dalla collegialità del lavoro, dalla partecipazione delle famiglie e della gestione sociale oltre che dalla garanzia di poter lavorare con gli stessi bambini per un tempo di tre anni e poi, con l’avvento dei nidi, per tempi quasi raddoppiati.
La genesi dell’atelier coincideva pertanto con la genesi di un nuovo progetto educativo, sistemico, laico, moderno. In questa contemporaneità genetica che apriva, nel modo più naturale, una processualità di sviluppo e di esperienza, l’atelier trovava via via la sua stessa natura e la sua stessa finalità, predisponendosi attraverso crisi, conferme, riformulazioni teoriche e pratiche che trascinavano con sé vuoi le questioni specifiche che quelle legate a interazioni più generali, ad una storicità del cambiamento.
Un solo punto fermo quello dell’uguale rispetto della pluralità e delle connessioni dei linguaggi infantili, diversi ma innestati su un’unica radice e conseguentemente la battaglia contro la vecchia e (ancora oggi funesta) cultura delle antinomie che oppone e gerarchizza discipline, comportamenti, intelligenze, moralità, ragione, fantasia, immaginazione, individualità e socialità, espressività e cognitività.
Tutto ciò conduce allora a conseguenze pratiche che modificano in modo rilevante le concezioni teoriche e didattiche correnti.
Già. Il problema di fondo era (ed è) quello di abituarsi a nuovi paradigmi di lettura: una lettura che dove va condurre a individuare nel sottosuolo delle diverse attività ed esperienze dei bambini quei tratti di procedure, abilità, intelligenze loro proprie e quelle invece decantabili in una specie di fondo comune attingibile anche da parte di situazioni apparentemente distanti e indifferenti.
Questa lettura conduce a due categorie concettuali: che anche la grafica deve essere letta in molte versioni interpretative più di quanto solitamente si fa (cosa che è responsabile in buona parte degli eccessi di specificità, di irripetibilità e di condanna autistica della grafica stessa) e che la medesima plurisignificanza interpretativa deve farsi per tutte le altre attività disciplinari. In altre parole, se è vero che la grafica, la pittura, la plastica hanno processi genetici e di sviluppo che sono loro, è altresì vero che esse attingono a recuperi e retroazioni derivanti da altro da sé. Questa matrice è ancora quella che vale per i nostri 20 atelier delle scuole dell’infanzia e che ispira i loro interventi nei 13 nidi.
Su quale immagine di bambino avete costruito il vostro lavoro?
Certo l’immagine che portiamo dei bambini è centrale nella determinazione tipologica dell’atelier e nei rapporti con gli adulti e le culture. Qual è l’immagine che abbiamo dei bambini?
Ricorro al cavallo di Célestin Freinet. “La scuola tradizionale – diceva Freinet – costringeva a bere il cavallo che non aveva sete. Invece noi provocheremo la sete del cavallo” Con Freinet siamo solo in parte d’accordo. Perché riteniamo che il cavallo (il bambino) nasca (anche) con la sete e ami con le sue forze trovare le fonti. Tocca a noi non disseccare e, semmai, dare una mano al cavallo (al bambino) quando esse sono solo nascoste o troppo lontane.
Semmai cambiano la sete e il bambino e noi: è quello che accade soprattutto oggi. C’è sempre bisogno di aggiornamento. Anche da parte dell’atelier che deve adeguarsi ai modi di vedere, sentire, parlare, rappresentare e raccontare per grafica dei bambini. Modi che riaprono molti problemi non solo teorici e culturali da troppo tempo immobili e non più giustificati.
Poiché investono addirittura le stesse funzioni e gli stessi interessi dell’esprimersi e del comunicare attraverso la grafica così come sono accreditati e percepiti dai bambini sotto la massiccia influenza di altri cento nuovi canoni iconici (espressivi e comunicativi) dei media. Persino differenzianti, in modo più palese, non solo l’insorgenza, l’evoluzione, le finalità e l’uso ma gli stili e i contenuti grammaticali, sintattici e semantici della produzione grafica, inventiva e verbale dei due sessi.
Nei vostri atelier si trovano insieme il forno per la ceramica e la macchina fotografica, i pennelli e il videoregistratore, carta e filo di ferro, conchiglie e foglie. Non c’è una sorta di sovraeccitazione visiva?
Sì, forse hai ragione. C’è molta roba nei nostri atelier. Una volta pensavamo che lo spazio fosse sufficiente. Da anni abbiamo decentrato atelier più piccoli, siamo ricorsi agli archivi, al centro di documentazione. Lo spazio è scoppiato col crescere delle idee. Poi la tecnologia ha portato dentro all’atelier e alla scuola la macchina fotografica, il videotape, il registratore, il videoregistratore, la copiatrice, il computer e altro. La cassetta degli attrezzi s’è allargata. I rischi ci sono ma nessuno e più grande di quello di immobilizzare nel tempo la scuola e l’esperienza e di lasciare orfane le conoscenze che occorrono.
La scuola abbisogna di altre architetture e di spazi più ampi. Sovreccitazione visiva? É un problema che non ci sfugge anche se i bambini oggi sono navigatori eccellenti e amano passare tra gli scogli. La concentrazione quando si attiva occupa poco spazio e annulla il resto.
La questione sta lì.
Nella scuola “Diana” ho visto una forte presenza di vetrate. Presumo rispondano a funzionalità volute.
Le vetrate sono un elemento costitutivo della nostra architettura. In omaggio, internamente, ad una circolarità che riteniamo feconda, esternamente ad una collusione col territorio. Ci piacerebbe che la scuola fosse un tunnel di vetro nella città. La glasnost, la trasparenza interattiva è un nostro vagheggiamento.
Avrai visto che i bambini lavorano e giocano molto sulle vetrate che sono come dire, un’estensione sorprendente del foglio, del cavalletto… Il flirt con la luce, perché la luce si fa materia e coautrice di straordinari giochi grafici e pittorici, è un’altra delle seduzioni cui non resistiamo. Anche perché è uno degli infiniti regali che gratuitamente la natura ci offre. Da S. Apollinare in Classe e dai vecchi bizantini in poi ci arrivano messaggi da non perdere.
Della creatività che ne dici? Appartiene veramente ai bambini?
La creatività è ancora inseguita da Sherlock Holmes. Non sappiamo bene cosa è ma sappiamo che c’è. Forse più disponibile di quanto si creda, certamente sottovalutata più di quanto si pensi.
I bambini sono creativi? Non lasciamoci distrarre dalla fiaba e dalla lirica orgasmica degli idealismi che fanno tutta l’infanzia d’oro. Nessuno lo è in nome del Signore. Ma se la creatività è un valore, un bene (e i bambini la sentono meglio degli adulti) allora bisogna cercarla e attrezzarci per averla qualche volta almeno) a disposizione. Tutto costa e possiamo tentare di restringere l’area del caso.
Ma il tentativo non starà in piedi se non saremo convinti che i bambini, tutti i bambini, hanno grosse potenzialità (d’accordo con Vigotskij) di candidarsi alla creatività: se non altro perché non appartengono ancora a quegli individui, citati da Claude Bernard, “che avendo un eccessivo attaccamento alle loro idee non sono molto adatti a tentare e a fare scoperte”.
L’argomento richiama una filosofia pedagogica, quella di Gianni Rodari, ad esempio. Occorre credere (e non è facile) che la ragione è alleata della fantasia e viceversa e creare le partiture adatte all’azione. E questo è ancora più difficile. Perché le didattiche che occorrono vanno contro vento. Mentre invece, per legge, politica e cultura, continuano a fingersi Diogene, che cerca a lanterna spenta.
E se rovesciassimo il problema cercando di capire che cosa è e cosa produce l’increatività? La distruttività risponde Sinnot. Destinata a colmare il vuoto in cui dovrebbe esserci la creatività. Distruttività come rinuncia, perdita di umanità, come “trantran” così ben deriso da Rodari.

C’è qualche esperienza nel lavoro dei bambini che avete fatto o state realizzando e che vi risulta particolarmente importante?
Un capitolo a sé, di ampia rilevanza che direttamente investe la metodologia del lavoro richiama la opportunità di rimuovere quella persistente realtà del bambino solo davanti foglio, al cavalletto, ai colori, la creta…, solo davanti ai suoi fantasmi e modelli, in una specie di solitaria capsula terrestre. Un individuo epistemologico proprio della più ambigua psicologia cognitiva.
Credo sia tempo di rivalutare gli apporti della ricerca psicosociologica e riporre al centro gli eventi di straordinaria ricchezza interazionale che i bambini in piccolo gruppo (2/4) sanno godere e mettere a frutto in ogni senso. Rifiutando l’analisi stretta del parallelismo tra strutturazioni cognitive e strutturazioni sociali, rinforziamo l’attenzione sui temi delle complesse e articolate procedure e causalità nella genesi della conoscenza e delle appropriazioni infinite di esperienze di ogni tipo che i bambini sanno regalarsi e costruirsi reciprocamente.
Da questa impostazione sociointerazionista o sociocostruttivista il nostro lavoro e quello dei bambini, dentro e fuori l’atelier, ha ricavato riflessioni e reperti di straordinario valore. Ma è questo un argomento di tanta ampiezza che ci conviene chiuderlo prima ancora di aprirlo. Era solo, per adesso, importante dirlo.
Siamo al commiato e al grazie. Vuoi aggiungere qualche considerazione?
Convincerci che la grafica e le competenze espressive crescono e maturano i loro linguaggi vicino e lontano da casa. E che i bambini scoprono (con noi) le amicizie delle azioni, dei linguaggi, dei pensieri, dei significati; che è decisivo preservare nei bambini (e in noi) i sentimenti dello stupore: la creatività, come la conoscenza, è figlia dello stupore; che anche l’espressività è un’arte e una costruzione combinata (affatto immediate e spontanee, affatto isolate, affatto subalterne) che hanno motivazioni, forme, procedure, contenuti (formali e informali) e comunicatività, prevedibili e imprevedibili, che attingono sia dal gioco che dall’esercizio, dallo studio, dall’apprendimento visivo: sia dai soggettivismi interpretativi dell’emozione, dell’intuizione, del caso come dell’immaginazione razionale e delle sue possibili trasformazioni e trasgressioni. Il tutto favorito o tollerato o impedito dalle tendenze e dalle politiche culturali.
Insomma, disegnare, pitturare, è un’esperienza e un’esplorazione di vita, di senso e di significato: è un’espressione di urgenze, desideri, conferme, ricerche, ipotesi, adeguamenti, costruttività, invenzioni: è una logica di scambi, solidarietà, comunicazioni con sé, le cose, gli altri e di giudizio e intelligenza sugli eventi che accadono.
Cosicché (anche) l’arte dei bambini (arte, intesa con Sklovskij, come uscita dalle stereotipie e dagli imballaggi retorici) sta dentro nel suo nascere e sviluppo ad un gioco fitto di relazioni e colloquialità permanenti.
Come nella facciata della casa del vecchio re dove erano incastonate in tondo centinaia di perle cangianti di luce e di colore e dove ogni perla si rispecchiava a modo suo nelle altre, costruendo e ricostruendo il mondo e il proprio mondo.
Formule? Non ci sono. Ci sono solo delle strategie possibili. Fare ni modo che i bambini, soprattutto, familiarizzino le loro menti con le immagini, che sappiano tenerle vive, che apprendano il gusto di riattivarle, rigenerarle, moltiplicarle col massimo di uso personale e creativo. Condizione assoluta resta che le immagini siano buone e significative per sé, per i bambini, per gli adulti.
E allora, solo allora, che le immagini di volta in volta combinandosi e ricombinandosi (e non sempre con utili lineari e cumulativi) nelle forme del realismo, del somigliante, della finzione, del logico, dell’immaginario, del simbolico, diventano segno e semiotica.
È l’unica procedura, difficile, incerta e forse decisiva, che intanto cancella quella sorta di macchineria pedagogica rassomigliante – come diceva Poincaré: «a quell’imballo di macchina arbitraria e nefanda (che ieri aveva fortuna e oggi ancora di più con la complicità di accademie e ministeri) in cui si introducono gli assiomi da un’apertura e se ne raccolgono i teoremi dall’altra come quella famosa macchina di Chicago dove si mettono maiali vivi e da dove questi escono trasformati in salumi e salsicce”.
[1] In “bambini”, febbraio 1988, pp. 26-31. Si tratta di un’intervista a Loris Malaguzzi a cura di Enzo Catini, docente di educazione artistica.