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Ripartire dall’educazione

Elisabetta Musi

Ricercatrice di Pedagogia Generale e Sociale presso l’Università Cattolica di Milano (sede di Piacenza)


Educare il sentire: un’urgenza denunciata da tempo ma ancora senza una pratica diffusa e sistematica, senza percorsi formativi capillari ed efficaci. È noto che alla trascuratezza della vita emotiva sono da ricondurre disagi e persino tragedie. Ma allora perché questa rimozione è così difficile da contrastare?

Fin dalle origini la cultura occidentale si è consacrata al culto e all’esercizio della ragione. A partire dalla filosofia di Platone si afferma un controllo razionale sui miti, i sentimenti, le passioni. Viene sancita una dicotomia che finisce per caratterizzare un sistema binario, in cui una dimensione si afferma ai danni dell’altra (mente/corpo, cultura/natura, oggettività/soggettività, maschile/femminile…). Si impone così una concezione dell’essere umano composto di due realtà separate: il corpo e la psiche.

Nella tripartizione platonica dell’anima, l’elemento razionale è situato nella mente ed è contrapposto all’elemento irrazionale o “appetitivo” (situato nel ventre: quando si dice un “sentire di pancia”, ci si riferisce proprio a questa concezione) che si accompagna alla soddisfazione dei piaceri materiali del corpo (Platone, La Repubblica, libro IV, 439d). Ciò che si agita oltre la soglia della razionalità e della consapevolezza, sfugge al controllo della ragione e spesso la mette in scacco.

Passioni ed emozioni rappresentano, secondo quanto afferma Remo Bodei (Geometria delle passioni), delle energie selvagge e brancolanti nel buio, delle “alterazioni” che intorbidano e confondono uno stato d’animo normalmente “non perturbato”. La razionalità ha il compito di sottometterle, secondo un’istanza ordinatrice (contro il disordine dei sentimenti), di illuminarle (contro le tenebre delle passioni), di incanalarle o reprimerle, di esercitare una “tutela correttiva” di queste forze pericolose e inquietanti. E tuttavia proprio l’irriducibilità delle emozioni all’ordine razionale esprime l’imperativo con cui la vita interroga se stessa, e in questo interrogarsi avverte il pericolo di affacciarsi su “abissi insondabili”, di sporgersi su “precipizi senza fine”, travolti da “tempeste fragorose”, come scrive Maria Zambrano (Verso un sapere dell’anima). Inoltre emozioni e sentimenti costituiscono la radice di ciò che unisce, più che di ciò che divide, il denominatore comune che vede insegnante e allievo/a, educatore e disabile, medico e paziente, carcerato, tossicodipendente, … in balia di un unico, umano avventurarsi, di un’analoga finitezza, che accomuna lo sconforto di un criminale per una condanna senza fine con le cadute nello scoraggiamento di chi si adopera per recuperarlo, la disperazione di un malato “terminale” con i vuoti di senso in cui ogni esistenza inciampa, le insicurezze di uno studente con le fragilità e i dubbi del suo insegnante.

La ragione stabilisce rassicuranti steccati, arroganti gerarchie, distanze difensive: acquieta ciò che l’emozione, senza preavviso, scompiglia. A meno che non ci si disponga a guadagnare una grammatica della vita interiore quale fonte di comprensioni verso cui mantenersi in ascolto: recettivi, arrischiati, e tuttavia fiduciosi di scoprire nuovi e più profondi significati attraverso i quali immergersi nell’esistenza.

Qui dovrebbe inserirsi l’educazione: non per fornire dispositivi con cui domare i rigurgiti di grovigli emotivi, ma per affrontare quelle domande di senso che operano in profondità e che, se inascoltate, producono deflagrazioni, tumulti vulcanici che quando si riversano all’esterno hanno una potenza devastante. Attrezzarsi come adulti – soprattutto se genitori, educatori, insegnanti – per conoscere queste dinamiche, imparare ad agirle con consapevolezza prevenendone effetti disastrosi, non significa garantirsi definitivamente dal rischio di comportamenti inconsulti, ma può forse limitarli, promuovendo al contempo la capacità di assumere una maggiore consapevolezza di sé, da cui discende la libertà e la responsabilità di scegliere, ovvero di rispondere di sé a qualcuno ma anche di qualcuno, della sua incolumità. Accanto all’emergenza etica e civile di prestare maggiore attenzione all’infanzia, è evidente anche a chi non ha dedicato i propri studi primariamente all’educazione (mi riferisco ad esempio alle ultime pubblicazioni di Heckman, Bauman, Rifkin, Chomsky) che se si vuole non solo migliorare le sorti di un popolo, ma salvaguardare nientemeno che l’esistenza e il futuro dell’umano, in contesti circoscritti (come quelli familiari, delle relazioni genitori-figli, di coppia, tra uomini e donne ma anche tra educatori/educatrici e bambini/e) e su larga scala, non si può che ripartire dall’educazione.

Speriamo che questa convinzione si radichi e si diffonda, incidendo significativamente sul pensiero comune, le politiche e gli investimenti. Evitando così che a continuare a denunciarne una sostanziale assenza siano le drammatiche conseguenze di relazioni sofferenti e inascoltate.

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