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Quando abbatteremo i muri della diffidenza e dell’estraneità?

di Umberto Galimberti

Non bastano l’integrazione e neppure l’assimilazione dello straniero. Quel che occorre è il reciproco riconoscimento.

Se è vero, come riferisce il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (PNUD), che noi occidentali, per mantenere il nostro attuale livello di vita, abbiamo bisogno dell’80% delle risorse della terra, è ovvio che l’emancipazione dei popoli non può conciliarsi con la permanenza del modello di vita occidentale, e, prima che questa contraddizione esploda (non voglio immaginare con quali terribili guerre), è ovvio che gli affamati della terra facciano ressa alla porta dell’Occidente. Ne consegue che il fenomeno migratorio non è un evento episodico che possiamo arrestare, ma solo l’inizio di una storia che, senza interruzioni, caratterizzerà gli anni a venire. Questa è la prima cosa da capire per sapere che fare.

Le opere assistenziali, messe in atto dai centri studi, centri salute e sindacati, per ridurre le sofferenze e le ingiustizie che spesso subiscono gli immigrati che giungono da noi, per quanto lodevoli e meritevoli, non affrontano il problema dell’accettazione della diversità, che è l’unica via percorribile per abbattere i muri della diffidenza e dell’estraneità che non consentono una pacifica convivenza. Infatti, mettendo a fuoco solo le sofferenze e le ingiustizie, si finisce col ridurre il mondo della diversità a un problema di assistenza, quando invece il confronto con la diversità ci obbliga a riflettere, quando non a metter in gioco le rispettive identità.

La nostra cultura e le nostre leggi tendono all’integrazione”, che tradotto significa che il diverso deve diventare come uno di noi, dove è evidente che quel che si nega è proprio l’accettazione della diversità e l’assunzione del nostro modo di vivere e dei nostri costumi come la vera misura dell’umano. Viene qui in mente il monito che Rousseau rivolgeva agli illuministi: «Essi confondono l’uomo di natura con gli uomini che hanno sotto gli occhi. Sanno assai bene cos’è un borghese di Londra e di Parigi, ma non sapranno mai cos’è un uomo».

Oltre all’integrazione, che priva l’altro della sua alterità e quindi del tratto tipico della sua identità, da rifiutare è anche l’assimilazione”, la quale riconosce che l’altro è un uomo come noi, ma proprio per questo esige che si elevi al nostro modo di vivere. Sottintendendo ancora una volta che il nostro modo di vivere è la misura dell’umano.

Se l’accettazione della diversità è la condizione essenziale per una pacifica e proficua convivenza, l’unica via da percorrere è quella del “reciproco riconoscimento” che, come scrivono Carmelo Vigna e Stefano Zamagni in Multiculturalismo e identità (Vita e Pensiero), oggi comporta che sia occidentali sia i non occidentali provino a rinunciare alla loro “identità originaria” per una “identità utopica”, da intendersi non come un sogno, ma come un lavoro che consente a chi lo compie di scoprire, sotto la propria identità elaborata all’interno della propria particolare cultura, le possibilità che, in quell’identità, ancora non hanno trovato espressione, e che possono essere svelare proprio dal confronto con l’altro da sé. Del resto, già lo ricordava Nietzsche: «L’uomo è un animale non ancora stabilizzato».

D la Repubblica. 23 DICEMBRE 2017

 

 

 

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