Intervista a Francesco Tonucci a cura di Ferruccio Cremaschi
Hai vissuto attivamente le situazioni determinate dalla pandemia della Covid19, intervenendo “dalla parte dei bambini” avanzando e sostenendo proposte in campo educativo. Buon ultimo è il volume “Può un virus cambiare la scuola?”. Puoi sintetizzare la tua valutazione su cosa è successo in questi mesi?
Ero salito come ogni estate a Cervara di Pontremoli, un paesino quasi disabitato dell’Alta Lunigiana, per ricordare i miei 80 anni con figli e nipoti, e sono rimasto isolato qui fino ad ora, e agli 80 anni si sono aggiunte le più di 80 teleconferenze e altrettante interviste. Questo per significare l’eccezionalità della vita di questi mesi, per un lato isolata dal mondo, senza contatti reali con i familiari e con le colleghe dell’Istituto e per l’altro con un contatto quotidiano con una dozzina di paesi europei e latinoamericani. Tutto è cominciato a metà marzo quando in una intervista a “El Pais”, il giornale spagnolo, dissi che la scuola doveva interrompere i suoi programmi e smettere di dare i compiti per dedicarsi ai suoi alunni, per aiutarli a capire, per vivere insieme a loro questo momento tragico e misterioso che stava sconvolgendo il mondo. Con quella intervista mi sono giocato le vacanze. Non mi era accaduto mai nella vita un periodo così intenso. La impossibilità di muoversi ha reso paradossalmente più facile l’incontro e la comunicazione. Le piattaforme hanno permesso una comunicazione facile e la partecipazione di decine di migliaia di persone, come mai sarebbe stato possibile in situazioni normali, con incontri in presenza. L’esperienza di questi otto mesi è diventata questo piccolo libro con interventi, esperienze, riflessioni e anche vignette.
Come hanno vissuto questa esperienza i bambini? Quanto sono stati coinvolti nelle decisioni?
I bambini sono stati considerati ancora una volta oggetti di cui gli adulti debbono farsi carico e per i quali prendere decisioni, e non soggetti di diritto. La Convenzione dei diritti dell’Infanzia è stata ancora una volta ignorata, lasciando supporre che al Governo e nei Ministeri competenti neppure la si conosce. Per quello che ricordo non è stata mai citata nei documenti e negli interventi ufficiali. Eppure l’articolo 12 lo dice chiaramente: “Il bambino ha diritto ad esprimere il proprio parere ogni volta che si prendono decisioni che lo riguardano, e il suo parere deve essere tenuto in conto”. Da 31 anni questa è legge dello Stato eppure tutte le norme fissate a tutti i livelli sui comportamenti permessi o vietati ai bambini sono state prese senza consultarli, e quindi in modo illegale.
Come hanno vissuto i bambini questo periodo? Noi, con le città del progetto internazionale “La città delle bambine e dei bambini”, come nostra abitudine, lo abbiamo chiesto a loro e non agli esperti. Lo abbiamo chiesto attraverso i “Consigli delle bambine e dei bambini” delle città della nostra rete, nei vari paesi europei e latinoamericani, e attraverso alcune ricerche svolte in Italia, Spagna, Perù e attualmente in svolgimento in altri Paesi. Da queste informazioni di prima mano risulta che i bambini hanno vissuto abbastanza bene, specialmente i più piccoli, il periodo di quarantena nelle loro case, con i loro genitori. È evidente che questo non vale per i casi di forte disagio sociale e di violenza. Si è molto parlato del problema grave della reclusione, ma i bambini erano reclusi anche prima. Specialmente nel nostro Paese i bambini non escono mai da soli fino a quasi adolescenti. Questo rimane un problema aperto, una carenza grave, che crea grandi problemi educativi che, speriamo, si voglia prendere in esame quando finalmente si potrà tornare ad uscire liberamente. Anche i bambini!
E i bambini cosa dicono? Che cosa hanno “perso” in questo periodo? Che cosa hanno imparato?
Nelle nostre inchieste emergono altre due indicazioni che i bambini danno in modo sostanzialmente omogeneo nei vari Paesi. Più di tutto mancano loro gli amici, manca il contatto reale, l’incontro nel gioco. Direi che l’incontro e il gioco sono stati i due grandi diritti dei bambini ignorati dal mondo adulto, dai Governi, dalle Amministrazioni locali e dalle famiglie. La terza osservazione che i bambini di tutti i Paesi fanno è che non ne possono più dei compiti e sono stanchi e annoiati di seguire le lezioni. I bambini dei vari Paesi bocciano la didattica a distanza. Questa valutazione generalizzata e definitiva non dovrebbe stupire perché la scuola, per una maggioranza degli alunni, crescente con l’età, non era amata neppure in presenza. Molti alunni si annoiavano, molti non andavano volentieri e quindi presumibilmente non imparavano. La scuola aveva una grande occasione per affrontare la situazione del tutto nuova e inesplorata con un atteggiamento nuovo, adattandosi alla situazione, assumendo le nuove responsabilità: accompagnare bambini e ragazzi in questa nuova e terribile avventura, ascoltarli e cercare di capire insieme, come d’altronde la scuola dovrebbe sempre fare. E invece la scuola si è nascosta dietro ad un assurdo slogan: “La scuola non si ferma”. Ma come è possibile? Si è fermato il mondo e la scuola va avanti. E andare avanti ha voluto dire continuare con il suo programma di storia o di letteratura, di scienze e matematica. E con i compiti, molti compiti già che il tempo libero degli allievi era tanto.
Le tue proposte per una buona scuola in tempo di quarantena.
Non ho inventato niente, non ho neanche pensato a una buona scuola, ma semplicemente ad una scuola capace di riconoscere la realtà e di lavorare coerentemente con essa. Ho solo tenuto conto di quello che dicevano bambini e ragazzi e ho detto alla scuola: “Per favore fermati, sospendi i tuoi programmi, sospendi i tuoi compiti, tieni conto che il mondo dei tuoi alunni si è ristretto alla loro casa e allora considera la casa come il nuovo laboratorio scolastico e chiedi ai genitori di diventare assistenti di laboratorio aiutando figlie e figli ad apprendere le varie attività domestiche, dalla pulizia alla cucina, che possono diventare i nuovi compiti”. E poi suggerire a genitori e bambini di ricostruire la storia personale e della famiglia attraverso le fotografie, inventare insieme nuovi giochi, leggere insieme un libro, mezz’ora al giorno tutti i giorni fino a finirlo per incominciarne un altro. Suggerire agli alunni di tenere un diario che può restare segreto dove scrivere le proprie paure, emozioni, scoperte. Curare una pianta, osservarla, descriverla, come lavoro di scienze naturali
Questa proposta che abbiamo chiamato “La casa come laboratorio” è stata accolta in vari paesi, persino dai Ministri dell’Educazione in Argentina e in Colombia e in Argentina il Ministero ha pubblicato un quaderno intitolato “Saberes cotidianos, explorar, jugar y aprender en casa” diffuso in decine di migliaia di copie a bambini, insegnanti e famiglie.
Questa proposta aveva vari obiettivi: dare valore alla nuova esperienza casalinga; ricucire un rapporto di collaborazione di alto livello con i genitori; proporre a bambini e bambine attività spesso considerate legate a un genere; offrire la possibilità a tutti, anche a chi non aveva connessione o sufficienti strumenti elettronici, di partecipare alle attività; infine quello più importante, suggerire apprendimenti che sarebbero rimasti per sempre, dando soddisfazione e facendo crescere l’autostima delle bambine e dei bambini.
Con molte difficoltà e in mezzo a mille contraddizioni si prova a ripartire: Quali sono a tuo parere le condizioni e le prospettive per il riavvio della scuola che non sia il ripristinare vecchie situazioni?
In questi mesi ho citato spesso la frase di Einstein “La crisi può essere una grande benedizione per le persone e i paesi perché porta progresso” ed è vero, siamo in una condizione di crisi profonda, che dagli aspetti tragici di tipo sanitario fa ripensare anche tutti gli altri aspetti sociali e culturali. Chi pensa che varrebbe la pena approfittare della crisi per avviarsi verso un cambiamento, anche radicale, credo possa farlo, ma ad una condizione, che ne sia convinto e ne senta la necessità. Perché ancora Einstein avvertiva: “Non si pensi che le cose possano cambiare se si fanno sempre le stesse cose”. Io spero che la scuola abbia capito il suo errore durante la chiusura e sappia cercare una via di uscita non tanto dettata dalla pandemia, che di per sé non ha proposte da avanzare alla scuola, ma da quanto dettato e promesso dalla legge che afferma, all’articolo 29 della Convenzione dei diritti dell’Infanzia, che l’educazione deve avere come suo obiettivo “lo sviluppo della personalità del bambino nonché lo sviluppo delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità”. Solo questo. Che significa non pensare a livelli uguali per tutti sui quali valutare, promuovere o bocciare, ma l’impegno ad aiutare ogni alunna e ogni alunno a trovare le sue attitudini, le sue vocazioni e svilupparle in tutta la loro potenzialità.
Per fare questo la scuola ha bisogno di un nuovo patto educativo che veda seduti allo stesso tavolo la scuola, la città, la famiglia e i bambini. Su quel tavolo si dovranno definire le nuove finalità, le nuove regole. Nuove deleghe e nuove fiducie.
La città potrà aprirsi alla scuola non solo offrendo spazi vuoti per dividere le classi, ma occasioni di conoscenza e di esperienza offerte dagli enti pubblici e privati della città che si aprono alla scuola.
La città potrà regalare ad ogni scuola le strade limitrofe perché nel periodo di apertura della scuola restino chiuse al traffico e considerate spazi di rispetto e di competenza della scuola che potrà utilizzarle per le sue necessità educative: per l’intervallo, per la ginnastica, ma anche per le normali attività didattiche. Si aumenterà così sensibilmente lo spazio disponibile per la scuola e si creerà attorno alle scuole una zona di rispetto senza rumore, inquinamento e pericolo.
I bambini potranno andare a scuola a piedi da soli, con i compagni, riducendo così il numero di persone che si muovono e raggiungendo quella autonomia di cui hanno urgente bisogno.
E l’extrascuola, l’esterno, la città che prospettive assumono? Abbiamo esperienze che permettono di sperare in una nuova attenzione da parte di adulti, amministratori?
Pensando che i bambini erano la categoria sociale che stava rispettando questo lunghissimo e difficilmente comprensibile periodo di isolamento con molta pazienza, a maggio abbiamo lanciato una petizione proponendo ai Sindaci di ringraziare i bambini facendo loro un regalo: prima di riaprire le città al traffico regalarle per un giorno alle bambine e ai bambini perché le utilizzassero per giocare, naturalmente rispettando le norme sanitarie necessarie. Questo appello ha avuto una grande diffusione e accoglienza specialmente in America Latina dove è stato firmato da molti Sindaci e anche da qualche Ministro. Mi piace chiudere citando due episodi significativi. Rispondendo a questo appello il Governatore della Provincia di Neuquen[1], durante la quarantena, aveva ordinato per decreto la chiusura delle strade cittadine la domenica pomeriggio perché fossero lasciate ai bambini per giocare e più recentemente ha emanato un nuovo decreto, che varrà per la apertura, che chiede a tutte le città della Provincia di chiudere alcune strade o spazi della città la domenica pomeriggio per lasciarli ai bambini per giocare.
La seconda iniziativa si è realizzata nel mese di novembre e ha visto come protagonisti Lerner, vice Ministro argentino alla Infanzia e alla Famiglia, la Federazione Argentina dei Municipi (la loro ANCI) e il sottoscritto, per la firma di un patto che impegna le città argentine in quello che si è chiamato “Uscire per giocare”. Nel quale le città saranno aperte al gioco dei bambini.
Le due esperienze hanno un elemento fondamentale in comune: l’invito ai bambini ad uscire di casa e usare lo spazio pubblico per i loro giochi senza che gli adulti indichino dove e come giocare. Questi due impegni sembrano indicare un modo nuovo e corretto di considerare il gioco come esclusiva competenza delle bambine e dei bambini, nella quale gli adulti non dovrebbero entrare né per orientarla, organizzarla e limitarla i spazi riservati, né controllarla e vigilarla.
[1] L’Argentina come si sa è una Repubblica federale e gli Stati si chiamano Provincie.
Ho sempre pensato che l’emergenza che stiamo vivendo potesse portare dei vantaggi e questo ne è un esempio, peccato che in Italia non ho sentito parlare della bellissima iniziativa, di lasciare le strade ai bambini, almeno, nella mia piccola regione, la Valle d’Aosta questo non si è verificato.
Sarebbe stato meraviglioso sentire di nuovo i bambini giocare in autonomia.
Le idee molto semplici e a portata di tutti possono cambiare la visione delle cose
Antonella Migliore