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Parlate con bambini come fate con le bambine

Andrew T Reiner

I maschi hanno bisogno di un vocabolario emotivo: se non ce l’hanno dipende anche dall’educazione differente rispetto a quella ricevuta dalle femmine. Dipende cioè dal comportamento di padri e madri che dopo i primi mesi di vita cominciano ad usare linguaggi diversi.

L”Italia è uno dei pochi paesi dell’Europa occidentale in cui è ammissibile che ragazzi e uomini esprimano apertamente le proprie emozioni. In altri paesi dell’Unione Europea, e negli Stati Uniti, dove vivo – terra della cultura maschia, rude e individualista dei cowboy – è previsto che gli uomini non chiedano mai aiuto e tengano la bocca chiusa riguardo alle proprie emozioni, eccetto la rabbia. In realtà molti maschi italiani esternano le proprie emozioni non tanto per migliorare le proprie capacità comunicative o rafforzare i legami con amici, parenti, amanti, mogli o figli. Il più delle volte lo fanno per fini personali, come gli hanno da sempre insegnato le loro devote mamme e nonne. Ci sono un’infinità di articoli e blog che descrivono questo fenomeno.

In un’epoca di grave inquietudine economica e culturale che rivela segnali di fallimento da parte dei maschi di qualsiasi età – superati dalle femmine nel rendimento scolastico e nei voti di diploma, rintanati nell’oblio dei videogiochi, sempre più spesso vittime di suicidi, aggrappati disperatamente a comportamenti violenti di iper-mascolinità – questi maschi hanno bisogno di un nuovo linguaggio.

Ragazzi e uomini potrebbero trarre beneficio dall’opposto di ciò che stanno perseguendo, ovvero da un minore analfabetismo emotivo, un vocabolario dei sentimenti più articolato che offra loro maggiore stabilità.

Magari state pensando: fermo un attimo! Anche se volessimo dare ai ragazzi (o persino agli uomini) un nuovo vocabolario, come sarebbe possibile? Sappiamo già che i maschi sono programmati per un minor livello di empatia e sensibilità delle femmine.  In realtà no. È stato scoperto che i maschi nascono più sensibili e con maggior necessità di sostegno emotivo delle femmine.

Per oltre tre decenni Edward Tronick ha sondato il rapporto tra neonati e madri. Assieme ai suoi colleghi del reparto di Neonatologia della Harvard Medical School ha scoperto che le madri sono inconsciamente più premurose e vigili con i neonati maschi che con le femmine. Si sono accorti che ai maschi serve più sostegno per controllare le emozioni. Un altro studio ha rivelato che, forse per analoghi motivi, le madri toccano il corpo dei neonati maschi più di quanto facciano con le femmine. Per di più, ulteriori studi hanno dimostrato che fino all’età della scuola materna, la maggior parte dei maschi è in grado, come lo sono le femmine, di decifrare e comprendere le emozioni del prossimo dalle espressioni facciali.

Eppure cambiamo il copione per i maschi appena superano la prima infanzia. Che succede alle madri degli esperimenti di Tronick e alle madri che toccavano i neonati maschi più spesso che se erano femmine? Nel periodo che va da sei mesi a un anno dalla nascita, esse riducono in modo significativo le dimostrazioni e le espressioni vocali di affetto. E i questa tendenza prosegue ben oltre l”infanzia. Uno studio del 2014 pubblicato sulla rivista Pediatrics riporta che le madri interagivano verbalmente più spesso con le figlie femmine che con i maschi. Un altro studio, condotto da un’équipe di ricercatori britannici, ha rilevato che le madri spagnole erano più portate a usare termini emotivi e affrontare argomenti emotivi quando si rivolgevano alle figlie femmine di 4 anni che con i figli maschi della stessa età.

Non sorprende scoprire che anche i padri contribuiscono, ma non come ci aspetteremmo. Certo, gli studi confermano ciò che molti di noi già sanno, ovvero che i padri trattano i figli maschi in modo diverso dalle figlie femmine (fanno la lotta coi maschi, invece leggono o parlano con le femmine). Ma anche il linguaggio che impiegano ha un impatto sui maschi.

Uno studio del 2017 ha rivelato che i padri cantano e sorridono più con le figlie femmine, usano con loro un linguaggio più “analitico” e che rivela la propria tristezza molto più di quanto facciano con i maschi. I ricercatori ritengono che queste discrepanze del linguaggio paterno possano contribuire alla “sistematica osservazione che le femmine superano i maschi nei risultati scolastici…”. La ricerca dimostra che i maschi, bambini o ragazzi più grandi, ricevono lo stesso messaggio anche a scuola (dove gli insegnanti parlano e trattano le femmine in modo diverso dai maschi), e anche nel diventare adulti. Gli studi di Brené Brown confermano quel che sento dire dalle mie studentesse ogni semestre nel corso che tengo sulla mascolinità: le donne insistono a volere che gli uomini si aprano emotivamente, ma poi si tirano indietro quando questi dimostrano vulnerabilità emotiva.

La domanda è d’obbligo: Perché neghiamo ai bambini e ai ragazzi un modo di parlare – e quindi un modo di interagire con il mondo – maggiormente allineato con la loro natura umana più profonda? Temiamo che l’intelligenza emotiva possa essere d’ostacolo alla loro resilienza in un mondo brutalmente, squallidamente competitivo. Forse questa logica sarà andata bene in passato, quando gli uomini credevano che le loro occupazioni “maschie”, fisicamente dure o pericolose, e il loro potere incontrastato sulle donne e le minoranze avrebbero continuato ad affermarne l’identità sessuale. Ma in un mondo in rapida mutazione, in cui tra le capacità necessarie per aver successo non possono mancare intelligenza emotiva e flessibilità – entrambe considerate caratteristiche femminili – queste fondamenta non sembrano di ferro, ma piuttosto di porcellana.

E sono d”obbligo altre domande: Dobbiamo davvero stupirci davanti all’impennata dei casi di depressione non trattata, e poi di suicidi, tra gli uomini negli USA e in Europa occidentale? Dobbiamo davvero stupirci, o dobbiamo pensare a una mera coincidenza, davanti ai livelli epidemici in America e altrove degli omicidi di massa, assurde manifestazioni di una sorda sofferenza interiore che nella mente dell’omicida mette in salvo il suo senso di maschilità danneggiato?

Gli uomini, e i bambini, sono di fronte a pressioni e mutamenti della propria identità maschile come mai prima d’ora. È evidente che il vecchio vocabolario non gli è d’aiuto. E neanche le vecchie paure. È giunta l’ora di dare loro una nuova voce: una voce che gli sarà d’ aiuto nei rapporti con gli altri, ma soprattutto con se stessi.

 

L’autore insegna alla Towson University e sta lavorando a un libro sulla mascolinità.

TRADUZIONE DI LUISAPIUSSI

La Repubblica, 20 agosto 2017

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