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Ogni passaporto è una promessa

Jhumpa Lahiri

Due mesi fa, all’aeroporto di Fiumicino, ci siamo accorti che il passaporto di nostra figlia era scaduto. Era arrivato il giorno fatidico: eravamo all’accettazione, in partenza per NewYork. “Il documento della bimba non è valido”, ha detto l’impiegata dell’Alitalia. Sono rimasta esterrefatta, schiacciata da un senso di colpa. In pena per il viaggio, presa da mille dettagli, avevo dimenticato di controllare la cosa più importante.
E stato un momento pesante, pieno di incertezza. Stavamo per rimandare il volo per poter sistemare il documento. Per fortuna l’impiegata è stata gentile e quando le ho spiegato che Noor, nostra figlia, aveva anche un passaporto britannico, valido, le ha consentito di imbarcarsi. Eppure per tutto il viaggio siamo stati in pensiero: cosa sarebbe successo al controllo passaporti dell’aeroporto JFK? Mi sono chiesta se ci stava aspettando, dall’altra parte, un altro ostacolo. Una volta atterrati abbiamo dovuto fare una fila separata per cittadini con documenti scaduti. E anche lì, per fortuna, la persona addetta al controllo ha capito, e ha fatto entrare mia figlia negli Stati Uniti.
Non è possibile rinnovare il passaporto di un minorenne a Brooklyn. Bisogna andare alla sede centrale della biblioteca pubblica e richiederne l’emissione di uno nuovo. Ci andiamo un sabato. Presentiamo i moduli compilati, facciamo una dichiarazione giurata davanti al pubblico ufficiale per testimoniare che nostra figlia è veramente nostra. Dopo la pratica faccio vedere a Noor la grande stanza dedicata ai libri per ragazzi. Le spiego che una volta, quando era bambina, abitavamo lì vicino, e ci venivamo spesso. Mi pare bello richiedere il passaporto in biblioteca: un luogo in cui si viaggia senza vincoli, tramite la lettura. Un luogo che ha sempre definito, per me, la pura libertà.
Mio marito è nato in Messico. I nostri figli, nati a NY, hanno la doppia cittadinanza – statunitense e britannica- grazie a me. Io sono nata a Londra ma ci ho vissuto solo per ì primi due anni della mia vita. A differenza dei miei figli, non avevo un passaporto quando ero piccola. La prima volta che ho attraversato un confine internazionale ero appesa sull’ultima pagina del passaporto indiano di mia madre. Non potevo girare per il mondo senza di lei. A un certo punto ho ricevuto un passaporto indiano grazie ai miei genitori, all’epoca cittadini di quel Paese, che però abitavano in America. Avevamo carte verdi tutti e tre.
A diciotto anni, per motivi universitari, sono diventata cittadina statunitense, per cui ho ceduto il passaporto indiano e ho preso quello americano. Poi una decina di anni dopo ho riempito un altro modulo, sono andata in posta e l’ho spedito e, in breve, mi è arrivato un passaporto inglese. Bastava il mio certificato di nascita per averlo.
La catena di cittadinanza della mia vita riflette il percorso geografico della mia famiglia, la traiettoria frastagliata della mia identità. Ogni tanto temo che ogni mio passaporto sia in qualche modo una forzatura. Ma so che un’abbondanza di documenti è una risorsa straordinaria.
Non posso fare a meno di pensare al dibattito prolungato e preoccupante sulla cittadinanza in Italia.
Se Noor fosse nata in Italia undici anni fa, non avrebbe ricevuto automaticamente il passaporto italiano. Come tutti i bambini nati in Italia da genitori stranieri, non avrebbe avuto un legame indiscutibile con il suo luogo di nascita.
Ma c’è buona notizia: la camera ha approvato la legge sullo ius soli. A gennaio ci sarà il voto al senato. Trasformerebbe le vite di un milione di bambini e ragazzi in Italia. Diventeranno italiani secondo la Costituzione, anche se, sotto ogni altro aspetto, lo sono già.
Il passaporto ha un doppio ruolo: ci definisce, ci radica, e al tempo stesso ci permette di spostarsi, di raggiungere nuovi paesi. Incrocio le dita per gennaio. Intanto penso ai rifugiati che si trovano bloccati ai confini europei. Mi auguro che anche loro potranno passare, e che saranno i benvenuti, ovunque arrivino.

D La Repubblica, 14 novembre 2015

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