
Roberta Pucci

Laura Malavasi
Ovvero del costruire il pensiero educativo giocando con le cose
Piccoli oggetti, solo apparentemente insignificanti, divengono veri e propri mediatori didattici capaci di stimolare la creatività e il pensiero divergente dei bambini, e in definitiva di produrre apprendimenti significativi.
Scoprendoci appassionate e coinvolte – quasi contemporaneamente ma all’insaputa una dell’altra- in percorsi di formazione abitati da oggetti e contenitori, abbiamo pensato di incontrarci e di scambiarci punti di vista e modi di stare in relazione agli oggetti che ci sono più cari. Ci siamo chieste quale contributo davvero nutriente poter portare insieme, che cosa ci sembra più “urgente” in educazione oggi? Quali ci sembrano essere i bisogni?
Cercando di rispondere a queste domande, prima di iniziare il nostro gioco di rimandi e rilanci attivati dagli “oggetti parlanti”, abbiamo condiviso alcuni presupposti o posture /atteggiamenti propizi all’esperienza:
- Essere parte attiva di un processo e “mettersi in gioco” in prima persona, con il rischio e l’imprevisto che ciò comporta
- Partire dalle cose, dalla concretezza; dare radici alle parole e alle teorie pedagogiche attraverso i dati di realtà – per evitare gli slogan e un dialogo su un piano unicamente concettuale (che ci trova tutti d’accordo mentre poi, nella pratica, viviamo delle realtà completamente diverse)
- Mettere le cose in relazione, evitare l’autoreferenzialità
- Essere disposte a raccontare parti di sé, accogliendo con gentilezza questi tasselli.
Dal momento che ci accomuna il piacere e il profondo rispetto del gioco, come una delle attività più colte che può arricchire la nostra vita, abbiamo pensato di veicolare i presupposti condivisi attraverso un gioco. Abbiamo scelto di volerci prendere scherzosamente sul serio, di sorridere e provare a giocare a distanza (essendo ancora in tempo pandemico). “Oggetti parlanti” è il nome che abbiamo dato a questo gioco dalle poche e semplici regole.
Ve lo proponiamo nell’augurio che possa sollecitare un dialogo inedito e profondamente formativo, come è successo a noi. Come si gioca?
Ogni partecipante (in questo caso Laura e Roberta) sceglie segretamente un certo numero di oggetti (in questo caso 3) e li mette in una scatola. A turno si estrae un oggetto che, facendo la sua parte, dirà quello che ha da dire in relazione a temi quali educazione, infanzia, formazione, culture, memorie, ricordi, condivisioni. Si passerà poi la parola all’altro giocatore che, invitato dalle parole ascoltate, proverà a rispondere con uno dei suoi oggetti, fino a esaurimento.
Semplice no? Un lancio e un rilancio fatto di parole evocate da oggetti sconosciuti a una e all’altra.
Si inizia, chi parte?
Tiriamo una moneta: vince Laura, che apre la sua valigetta di cartone, quella che usava il nonno per andare a scuola, ed estrae un DITALE.
Il ditale
Il ditale è un ricordo di mia madre, una sarta, un oggetto familiare che ci ha accompagnati fin da piccoli. Ci giocavamo, ne provavamo tanti, li infilavamo nelle dita cercando di suonare e di indagare nuovi rumori. Il ditale è un pezzo di storia personale, è proprio quello di mia madre, il suo preferito.
Un oggetto oggi sconosciuto che quando si propone ai bambini chiedono cosa sia. Lo guardano, lo studiano e iniziano a giocarci. Il ditale richiama relazioni immediate con il filo, l’ago e il tessuto ovvero con elementi che lo completano ma il ditale ha anche una funzione di cura: protegge la mano operosa che cuce. Ha un vuoto, un pieno, una texture, riporta ad un tempo necessario perché le cose divengano, un tempo di attesa laboriosa attraversato da una grande relazione con il materiale, il tessuto…
Proposto ai bambini, proprio perché inusuale, diviene un oggetto dalle mille anime, un cappello per personaggi piccolissimi, un vaso per semi piccoli, un fischietto, un oggetto che racconta delle sue storie passate e che racconta della mia infanzia. Può essere un oggetto che sfida l’oggi, la velocità, la tecnologia? O lo releghiamo in un tempo nostalgico? Come ci relazioniamo con questi oggetti: riusciamo a rimanere sospesi, a non commentare, a rispettare il silenzio quando presentiamo materiali non conosciuti o inediti ai bambini? Corriamo immediatamente a definire l’oggetto, il suo uso e il suo significato convenzionale o rimaniamo un passo indietro? Con un atteggiamento discreto ma curioso che apre a possibilità di ricerca e di creazione da parte dei bambini?
Il centrino
Al ditale risponde un centrino, un altro oggetto legato ai ricordi, ai giochi d’infanzia nel retrobottega di una piccola merceria. Spesso sottovalutiamo l’importanza della memoria, dell’aspetto affettivo delle cose, degli oggetti e degli spazi fisici che ci danno il benvenuto nel mondo. In qualche modo, queste prime esperienze sensoriali continuano a permeare le nostre scelte e preferenze estetiche fin nell’età adulta. Come ci insegna Pasolini, “la prima lezione me l’ha data una tenda” e se “siamo due sconosciuti, lo dicono le tazze da tè”.[1]
Il centrino era in mezzo a un mucchio di tende, pizzi e ricami nel banco di un mercatino dell’antiquariato. Pezzi unici, fatti a mano chissà quanto tempo fa, con grande cura e attenzione ai dettagli, in vendita a soli 50 centesimi al pezzo. Il centrino sembra chiederci: come attribuiamo valore alle cose e al tempo? Quanto tempo dedichiamo alle cose?
Oltre ai decori così attentamente studiati, il centrino presenta uno spazio vuoto al centro, pronto ad accogliere qualcosa: un vaso? Una candela? Una caramella? Un sassolino?
Spesso nei contesti educativi ci preoccupiamo di creare dei contenuti, delle proposte, ma non consideriamo altrettanto lo spazio vuoto necessario per far sì che qualcosa di significativo possa accadere.
Il centrino accoglie. Qualsiasi oggetto, anche uno scarto, appoggiato su di lui diventa importante, “visto” nella sua unicità. Per esempio, i sassi sono tutti diversi ma finché restano ammassati dentro un contenitore non si distinguono. Il modo in cui presentiamo le cose fa la differenza. Quindi il centrino diventa metafora di una funzione di valorizzazione e di cura del dettaglio, complementare al grande contenitore indistinto che offre la quantità.
Il ciondolo con lente di ingrandimento
Al centrino risponde un ciondolo- lente di ingrandimento, un monocolo da tenere al collo, da portare con sé e che permette di vedere particolari. Siccome l’oggetto di Roberta è un oggetto che parla di cura e di dettagli, è un oggetto che si definisce nei vuoti e nei pieni il pensiero va al desiderio di voler andare sempre un po’ oltre al primo sguardo che rischia di essere distratto e alla necessità di circondarsi di oggetti e strumenti per accorgersi meglio del mondo. Abbiamo bisogno di qualcosa che ci possa aiutare a vedere altro e oltre. Questa lente può provare a rispondere alla sollecitazione offerta dal centrino del dare valore alle cose e del vedere le cose da prospettive diverse che rende l’oggetto prezioso e unico. Il “mucchio” non fa perdere valore al singolo, anzi fa assumere a quell’oggetto, scelto tra tanti, un valore incredibile. Quanto siamo allenati a mettere a fuoco il singolo particolare, a scegliere tra tante cose, a decidere di espandere un’esperienza, una situazione, un oggetto tra il tanto che si fa? Scegliere cosa lasciare perdere è una delle competenze più complesse e se vogliamo più necessario all’educatore.
Sappiamo lasciar andare o vogliamo raccontare, per esempio tutto quello che facciamo con i bambini? Sappiamo trattenere? E quindi selezionare concetti esperienze e relazioni da condividere?
Il foglio morbido-rugoso
Al ciondolo risponde un foglio stropicciato. È stato chiuso e riaperto tante volte, è diventato più morbido, sembra quasi una stoffa. Il foglio ha conservato le tracce delle successive trasformazioni, cambiando in parte la sua identità.
L’accartocciamento è un’azione che esemplifica molto bene questo processo di trasformazione parzialmente reversibile: il foglio può essere riaperto e tornare al suo formato originario ma con una serie di segni e pieghe che prima non c’erano.
E un po’ come quando il tempo passa e si invecchia: paradossalmente, la superficie è meno liscia e più rugosa ma nel complesso ci si ammorbidisce. Sembra quasi un ossimoro: il “morbido rugoso”.
Con la lente di ingrandimento possiamo osservare da vicino tutte le pieghe, le rughe e gli anfratti. Così, cambiando punto di vista, il foglio diventa un territorio montuoso, una carta geografica da esplorare; un cm come diventa un kilometro visto da lontano.
Il “morbido-rugoso” è solo uno dei mille modi in cui può essere trasformato (e usato) un foglio di carta. Abbiamo bisogno di una lente speciale, ovvero di un certo sguardo, per riuscire a vedere il potenziale trasformativo delle cose comuni intorno a noi. Un potenziale sempre a portata di mano ma che non siamo in grado di attivare per la forza dell’abitudine e forse per pigrizia.
La bussola – meridiana
Al foglio morbido – rugoso risponde una bussola. Nel foglio di carta si nascondono tanti mondi e cartine geografiche, la bussola può essere utile per orientarsi secondo i punti cardinali e una piccola meridiana. Per cambiare il punto di vista, per poter vedere nel foglio di carta una mappa geografica dobbiamo avere una buona bussola per imparare ad orientarci e riconoscere sia i punti cardinali terrestri che quelli personali di ognuno di noi. In un contesto educativo è necessario definire i punti cardinali portanti per poi indagarne di nuovi e vedere porzioni di mondo molto differenti. Per poter dare una concretezza ai pensieri e alle parole, per ricercare la straordinarietà delle azioni quotidiane una bussola può aiutarci a spostarci verso nuovi riferimenti e nuovi movimenti. Quali sono i punti cardinali del nostro servizio? Sono i medesimi per tutti quanti? La nostra mappa, il nostro progetto educativo e pedagogico, possono rappresentare quella bussola a cui torniamo nel momento in cui ci sentiamo di aver perso l’orientamento? E quali sono gli elementi che aiutano i bambini e le bambine a orientarsi nel corso del percorso educativo, nelle tante esperienze, che li aiutano a capire dover stanno andando e cosa stanno scoprendo?
Il sasso
Alla bussola risponde un sasso, connettendosi alla necessità di avere dei punti fermi per potersi orientare (che può sembrare un paradosso). Il sasso sta, non cambia – o meglio, tra tutte le materie è quella che più rappresenta l’immutabilità, l’ermeticità. Il sasso è attesa, contemplazione, permanenza, perseveranza. Il sasso sa restare in silenzio, sostenere senza muoversi. È presenza.
Se metto il sasso in relazione al foglio “morbido-rugoso”, per esempio, si possono formare mille composizioni diverse proprio grazie alla relazione tra la flessibilità della carta e la saldezza, il peso e l’immobilità del sasso: il movimento della carta è possibile attorno a qualcosa che resta fermo.
Occorre quindi uscire dalla contrapposizione dualistica flessibilità VS stabilità; improvvisazione VS routine; creatività VS controllo. Si tratta di un equilibrio dinamico in cui entrambi i poli sono necessari.
Spesso nelle fiabe i sassolini vengono lasciati cadere lungo il percorso per ritrovare la strada. Con questa fiducia in tasca, con la certezza di ritrovarci, possiamo anche permetterci di perderci e di esplorare l’ignoto.
E guarda caso, è capitato un sasso proprio alla fine del gioco. Punto. Sosta di riflessione.
Oltre a dare corpo e voce a dei concetti attraverso degli oggetti concreti, questo gioco è esso stesso metafora che veicola alcuni significati importanti e poche (ma robuste) note metodologiche.
Innanzitutto, ha delle regole che lo rendono possibile e che, se usate nel modo giusto, favoriscono la relazione e la creatività.
In questo caso, gli oggetti sono “spinti” a fare degli incontri imprevisti e a cercare nuove connessioni tra loro: ciò permette di arricchire, rinnovare e ricontestualizzare i significati, in combinazioni potenzialmente infinite.
Non ci auspichiamo forse lo stesso nella quotidianità? Come reagiamo di fronte all’imprevisto, in quanti modi si possono mettere in relazione cose e persone? Proponiamo ai bambini situazioni in cui poter incontrare il non-conosciuto e l’inaspettato?
In secondo luogo, gli oggetti divengono pretesti per attivare una sorta di meta-riflessione, pongono domande che nascono da letture non letterali degli oggetti stessi. Quesiti e punti interrogativi che spingono gli adulti coinvolti in educazione a domandarsi come maneggiano alcune questioni fondamentali, quali imprevisti, attese, stabilità, creatività, certezze e incertezze, trasformazioni, unicità, necessità di definire, nominare riconoscere concetti, situazioni esperienze.
Infine, non dimentichiamoci del ruolo della scatola: il contenitore che apre e chiude il gioco, che raccoglie e offre degli stimoli accuratamente scelti, che attiva una sorta di ritualità nel gioco e che custodisce i diversi oggetti depositari di storie e di mondi sempre diversi, perché sempre diverse possono essere sia le relazioni tra gli oggetti che l’ordine con cui questi vengono “chiamati” fuori dalla scatola. Al termine del gioco gli oggetti tornano dentro, il coperchio si chiude.
Domani si può ricominciare e nasceranno nuove storie, nuovi incontri, nuove relazioni.
[1] Pasolini P. P., Lettere luterane, Milano, Garzanti, 2015