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La solitudine del bambino

Dario Arkel

Pedagogista e docente universitario


L’autore si sofferma su alcuni passaggi del libro “La solitudine del bambino”, nei quali Korczak rivela una profonda conoscenza del bambino, come sapiente medico e come pedagogista pensante.

Il libro Il vecchio dottore, edito nel 2019 da Zeroseiup, riporta due fondamentali elementi dell’opera di Korczak: gli interventi radiofonici e i brevi saggi, quasi delle meditazioni non solo trasmesse via etere, nominati Felietony e Gadaninki. Questi lavori appartengono per lo più alla maturità di Korczak, come ben evidenziato dal titolo dell’opera complessiva editata, eppure appaiono al lettore come base dell’intera opera del Pan Doktor.

I Felietony (dal francese Feuilleton – episodio di un romanzo), come spiega la pedagogista e traduttrice Izabela Stanecka, sono dialoghi non dialoghi nei quali il Vecchio Dottore, senza soluzione di continuità, alterna le proprie riflessioni, il proprio punto di vista alle perplessità che potrebbe porgli un piccolo interlocutore.

In questo numero del Magazine, mi voglio soffermare su un testo contenuto nel libro La solitudine del bambino, che già nel titolo può commuovere per l’ingegno e la sensibilità dello scrittore, perché in esso si evidenzia la sapienza medica anticipatrice e all’avanguardia del pediatra Korczak e la delicatezza del suo porsi quale pedagogista pensante col sentimento – esattamente come il bambino stesso (Il bambino pensa col sentimento – cit. Korczak).

Che cos’è la solitudine di un bambino? Non appena si accorge che non può tenere per sé e solo per sé la mamma e il papà, né l’ambiente che lo circonda e la stellina che ha scorto nel cielo, ecco che il bambino, sorpreso, ingenuo e spaventato, senza sostituti né giustificazioni, sente la spinta al ricercare e al trovare. È unico, vagante in un dove a lui ancora incomprensibile ma che intende scoprire con l’aiuto dell’innata ancestrale curiosità e con quelle sue sole forze che non sa di possedere.

 

Dice Korczak: … mi calma e mi consola il fatto che un momento non meno faticoso e difficile è già passato: quello in cui nasce l’uomo: il primo respiro, il primo sguardo. La vita – straordinario evento, ogni tanto troppo rumorosa e complicata perché sia corpo sia anima. La nascita è vista in questo passaggio come difficile (e in seguito ci torneremo) e complicata perché il neonato si dibatte tra il corpo e l’anima, naturalmente sprovvisto della consapevolezza dell’unione tra i due aspetti. Soffermandoci su questo logico insieme di corpo e anima incontriamo quanto ci insegna la lingua tedesca che distingue il corpo fisico e il corpo animato (Körper e Leib) riuniti in un unicum che, nelle scienze umane, sta alla base della filosofia dell’esistenzialismo fenomenologico.

Non per caso di questa unità divisa e riunita – e pertanto condivisa – troviamo riscontro anche nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art.3, la quale, seccamente, afferma “il diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza”, si noti: la virgola posta a seguito del termine vita lascia sottintendere non già puramente le azioni del vivere ma anche l’interiorità, il sogno e la speranza, l’ansia e la pazienza, la forza d’animo, l’intenzionalità e la volontà, la presa di coscienza… quindi è separata  dalla libertà che, perché non sia illusione, discende da ciò come conseguenza in quanto intesa tanto riguardo alle azioni del fare quanto a quelle del pensare, in connubio ristretto.

Così è per la sicurezza che non è solo esperienza fisica del corpo ma, ben di più, esperienza morale ed etica sita nella profondità dell’essere. Le azioni poste in essere per ricavare il senso della vita tendono a portare l’uomo oltre la sofferenza, nel limbo agognato della felicità che è esclusiva sensazione interiore, in quanto conferita dall’insieme dei sensi coordinati tra loro.

Di seguito, Korczak ci illumina sulla sofferenza del bambino parzialmente nascosta da quella della puerpera. Che cosa prova il bambino, dice Korczak, quando il cranio si richiude – quando sente una forza estranea che lo tira fuori dal grembo, quando emette il primo gemito. L’aria che penetra come un pugnale nella gola. Il petto che soffoca, con il gelo che riempie le viscere. Maldestro, indifeso, nudo e solitario, trema. Il primo flusso del proprio sangue, il primo bagno – sconosciuto, il tocco ruvido e doloroso di chi lo lava. Elementi estranei – aria e acqua?

Commentare questo passo è assai difficile perché la prima domanda che ci si pone è “come fa Korczak a conoscere così a fondo il bambino?” Da medico studia ogni reazione, si dedica ad un’osservazione metodica, sa che il primo atto del neonato è respirare e non certo il piangere, e che il respiro lo porta ad una sofferenza abnorme. Il pianto ne è la prima conseguenza, e poi  il suo tremare, il suo vibrare, il suo strillare, sono cagionati dal dolore, dalla sua intrinseca vulnerabilità.  Il suo viso si espande e assume colori d’arcobaleno, e a poco serve il calore di una coperta e quello della mamma che lo stringe a sé. Perché questa agitazione stenta a fermarsi? Perché è il primo passo verso l’esterno, verso il mondo. Ma attenzione, il bambino, che poco prima era cullato nel ventre materno e nulla doveva fare, ora acquista la reazione a eventi per lui drammatici come nessun altro, e ci si domanda, allora, se il bambino esca dal mondo viscerale e entri nel mondo dove si sconta il destino umano, o viceversa esca da un luogo più congeniale esclusivamente creato per lui. Korczak considera la vita individuale all’interno del grembo materno e ne vede l’esplosione nel vivere la socialità dopo la nascita. La palpazione del ventre materno è essenziale per capire e intuire, i movimenti del feto sono evidenti per il pediatra: la domanda è “che cosa manca al nascituro?” Manca la conoscenza, freddissima inizialmente, dell’esterno e la percezione e quindi la conoscenza o, meglio, la ri-conoscenza dell’altro. Per quanto possiamo interpretare, questa sofferenza è il prodromo di quanto sarà la vita a seguito del passaggio dal micro (macro) cosmo dell’interno vellutato e liquido del ventre al macro (micro) cosmo della connessione con quella che chiamiamo realtà nella quale compiamo le azioni del vivere. La sofferenza esperita inizialmente è la sofferenza del bambino, del ragazzo, dell’adulto, che confligge con la ricerca del ben-essere e che, giocoforza, contrasta la felicità che, a tratti o con consapevolezza del suo mantenimento (quando è possibile), trapunta il vivere di chiunque. Tre sono le considerazioni che mi sento di aggiungere, brevemente. La prima concerne il fatto che il vivere è come pattinare, spingendo dal dolore al ben-essere, in un’alternanza di sensazioni e fatti belli e brutti; la seconda è che, attraverso questo scritto, Korczak ci illumina sulla sua veggenza, data da inconfutabili prove ed esperienze, in seguito spiegate dalla scienza medica; la terza, universale, è che i passaggi dolorosi, la sofferenza, sono necessari per la distinzione male-bene, bello- brutto, alienazione-partecipazione.

 

 

Un pediatra-veggente sa ascoltare, sa utilizzare la sua osservazione e i suoi stessi sensi, tra i quali spiccano il tatto, la vista e l’udito, e perciò sa capire quanto avviene e formula la sua ipotesi su quanto avverrà, come e perché.

 

 

Così, il Pan Doktor apre a noi la sua arte del conoscere e del comprendere (e lo fa come se condividesse il vivere del neonato e del bambino); e dal respiro – la più magica delle esperienze umane e l’unica realmente vitale – ci conduce alla seconda importante riflessione inclusa nel testo, la scoperta del nutrimento. La prima delicata dolcezza del latte caldo. Il seno materno. È capace da solo. Succhia. Che meraviglia, che miracolo – dice Korczak. Bisogna usare le labbra, la lingua, il naso, la gola, l’esofago. Il primo pasto è difficile, goffo. E poi… Un sonno benedetto. Vero è che il neonato non conosce i suoi organi interni né quelli esterni, ma è vero che ne riconosce in modo assolutamente diverso dal bambino, dall’adolescente e dall’adulto, le potenzialità dacché comincia ad utilizzare i sensi. In questo caso, quelli legati all’allattamento che, proprio per questo, deve avvenire assolutamente attraverso il seno. Egli tocca, stringe, coglie l’odore, avverte il sapore e il calore di ciò che gli permetterà ancora di respirare e vivere. Deve, nella sua solitudine e in tempi brevissimi, riconoscere la fonte di tutto ciò per potervi tornare. L’aiuto della madre consiste nella sua disponibilità e pazienza, ma ancor di più nel gioire col bimbo di tutto ciò. Questa correlazione è vincente perché il piccolo, posto a suo agio e circonfuso d’amore, possa equilibrare quel sé stesso che è ancora nascosto nel complesso, ma già vivace nell’azione primaria del suggere.

 

 

Korczak avanza e, nel suo incedere poetico e preciso, si concentra a raggiera sugli altri sensi che vengono raffinati. Il primo sguardo, vagante. Intorno ci sono lampi, ombre, nuvole, suoni di un mondo lontano. Sta succedendo qualcosa? Sente il proprio lamento solitario, quando qualcosa fa male. Si è contorto, si è stirato, ha socchiuso gli occhi. Ha mosso la testa, ha sbadigliato, ha sospirato, si è arrossito, accigliato, disteso, ha fatto un centinaio di smorfie con il viso, movimenti della bocca, delle mani, delle gambe – ora sta sdraiato e guarda. Comincia a conoscersi! Tutto ciò che lo circonda, sopra di lui e in lui, insieme, uno, è inesplorato, imperscrutabile. Il cuscino e la madre, il brillare della lampada e il ticchettio dell’orologio. Grande e misterioso qui nella stanza, lì dietro il vetro e una confusa inerzia, un enigma grande, importante. Guarda, sta vegliando. Passano cent’anni (il tempo del bambino non conosce calendari).

 

Korczak è compartecipe di questo bambino, è in piena condivisione con lui, e le sue parole scivolano nette e delicate, come le carezze di un angelo. Egli vede ciò che il piccolo vede, lo ricopre di significati senza specificarli ma mantenendoli solo come tracce della crescita, dell’essere nel mondo. I sensi divengono anima e tornano in un attimo ad essere parte della fisiologia. Coglie pertanto l’occasione per informarci che il bimbo comincia a conoscersi. Non a conoscere i dintorni, ma a conoscere sé stesso, a sentire dentro un qualcosa d’altro perché è evidente nei suoi occhi adesso aperti alla luce, nelle sue orecchie che colgono il suo stesso lamento, e nei suoi muscoli appena tracciati quando si tirano e si distendono. Sì, questo è lui, è il nostro bambino alla ricerca del soggetto suo proprio e, al contempo, dell’oggettivazione che sta per raggiungere l’ambiente che lo circonda. E il tempo, il tempo del bambino, resta sempre e per sempre un infinito presente.

Le citazioni sono tratte da La solitudine del bambino in: Janusz Korczak, Il vecchio Dottore, a cura di Dario Arkel, traduzione di Izabela Stanecka, edizioni Zeroseiup, Bergamo, 2019

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