Massimo Mari
La legge di parità scolastica ha introdotto modifiche sostanziali al nostro ordinamento stabilendo che il sistema nazionale di istruzione, fermo restando quanto previsto dall’articolo 33, comma 2 della Costituzione, è costituito dalle scuole statali e dalle scuole paritarie private e degli enti locali, con l’ obiettivo prioritario per la Repubblica di espandere l’offerta formativa e la conseguente generalizzazione della domanda di istruzione dall’infanzia lungo tutto l’arco della vita.
Nel sancire tali principi il legislatore ha voluto declinare le condizioni minime essenziali necessarie alle scuole paritarie per poter entrare a far parte del sistema nazionale di istruzione.
Dentro questo quadro legislativo va collocata la presenza della scuola dell’ infanzia paritaria che, per storia e per incidenza, ha caratteristiche e peculiarità diverse da quelle svolte dalle istituzioni scolastiche paritarie degli altri ordini di scuola. Tant’è che la stessa legge destina al sistema scolastico integrato pubblico e privato dell’infanzia (3/6 anni) il 67% delle risorse statali.
Oggi la scuola dell’infanzia paritaria privata e comunale accoglie, nelle sue 9.781 scuole, 621.919 alunni, ovvero il 39,85% del totale dei frequentanti così distribuiti: il 10,32% degli alunni frequenta le scuole degli Enti locali, mentre il restante 29,53% è iscritto nelle scuole paritarie dell’infanzia gestite da privati con una consistente concentrazione nelle regioni del Nord.
Oltre alle rette e ai contributi statali le scuole dell’infanzia private paritarie possono contare sulle entrate sui finanziamenti erogati dagli enti locali a seguito dell’attivazione di apposite convenzioni e affidamenti.
Secondo una stima di fonte sindacale nelle scuole dell’infanzia paritarie operano complessivamente e a vario titolo all’incirca 60 mila lavoratrici e lavoratori in condizioni economiche e normative decisamente diverse per via della presenza di una pluralità di contratti collettivi nazionali distinti a seconda della gestione.
Si tratta per lo più di personale dipendente dislocato in unità produttive di piccole dimensioni ove, se escludiamo le realtà gestite dagli enti locali, vige una legislazione sul lavoro dalle tutele deboli rese ancor più problematiche dalle norme introdotte dal Jobs Act.
Molti economisti, sociologi e pedagogisti sostengono che nel valutare il servizio scolastico vada normalmente colta la correlazione che intercorre tra qualità dell’attività e le condizioni di lavoro con cui il lavoratore esplica la sua prestazione.
Nella consapevolezza di tale correlazione il legislatore ha previsto, tra gli altri, l’obbligo per il gestore di applicare al personale docente e direttivo contratti di lavoro coerenti con i contratti collettivi nazionali di settore ovvero di categoria. Ne consegue che la fonte regolatrice del rapporto di lavoro subordinato nella scuola è il Contratto Collettivo Nazionale di categoria mediante il quale le organizzazioni dei lavoratori e quelle dei datori di lavoro maggiormente rappresentative disciplinano, in modo uniforme, la prestazione lavorativa. Nel comparto della scuola, vista la presenza di più soggetti gestori pubblici e privati, i contratti collettivi applicabili sono cinque: i due contratti pubblici (Scuola statale ed Enti locali) e i tre contratti di categoria privati: il CCNL Agidae ( scuole religiose); il CCNL Fism ( scuole di ispirazione cristiana), e il CCNL Aninsei ( scuole laiche) sottoscritti dalle associazioni dei gestori con le Organizzazioni sindacali di categoria.
Nel dettare questo esplicito riferimento il legislatore aveva bene a mente quanto disposto dalle norme generali sui contratti, di cui agli artt. 1322 e seguenti del c.c., e dagli articoli 36 e 39 della Costituzione.
I contratti sopra richiamati hanno in comune il compito di disciplinare, sebbene con trattamenti economici e normativi diversi, gli inquadramenti, le qualifiche e le mansioni delle figure professionali indispensabili al sistema scuola, con particolare attenzione a quelle dell’area della docenza nell’esercizio della funzione didattica, pedagogica ed educativa comprese le attività tipiche del lavoro scolastico, quali la partecipazione agli organi collegiali, l’aggiornamento professionale obbligatorio, la collaborazione nel definire il piano dell’offerta formativa, l’applicazione dei programmi dell’ordinamento.
Sul piano lavoristico le differenze più evidenti sono rappresentate principalmente dalla retribuzione e dall’orario di lavoro contrattualmente definiti. Nel primo caso il personale docente della scuola dell’infanzia paritaria privata si attesta mediamente tra il 70% e l’80% in meno rispetto a quello dei settori pubblici. Nel secondo caso, invece, i differenti regimi orari dei docenti sono definiti contrattualmente per via dell’assenza di una definizione legislativa unica .
Nonostante che la legge di parità abbia individuato in maniera relativamente precisa i contratti di categoria, si registra in questo settore dell’istruzione la presenza di due fenomeni distorsivi: l lavoro precario e irregolare in tutte le sue sfaccettature e l’uso improprio e per certi versi illegittimo ad altri contratti di lavoro diversi da quelli della categoria scuola. A titolo esemplificativo segnaliamo l’utilizzo dei contratti delle cooperative sociali o della sanità privata che non si occupano affatto di scuola non contemplata nella loro sfera di applicazione né individuata nei loro inquadramenti.
Entrambi i fenomeni sono il prodotto diretto e indiretto della grande crisi che ha colpito in maniera devastante la nostra economia. In questo contesto le agenzie formative private hanno puntato sulla concorrenzialità al ribasso a danno del lavoro piuttosto che all’elevazione qualitativa dell’offerta formativa. Cosicché il ricorso, oltremisura, al tempo determinato, alla diffusione del part-time obbligatorio, al lavoro sottopagato e al lavoro atipico hanno fatto assumere al sistema connotati di forte instabilità rendendolo più esposto alla speculazione.
Processi di frammentazione del lavoro favoriti anche dal contestuale disimpegno dell’ente locale nella gestione diretta da parte del servizio per via delle politiche di restrizione della spesa pubblica imposte dai governi nell’ultimo decennio. In questo arco di tempo l’intervento diretto dei comuni nella gestione dei servizi è diminuito del 6%, sopperito solo parzialmente e inadeguatamente dall’intervento diretto dello Stato. Da qui il ricorso dei comuni a discutibili forme di “esternalizzazioni”, parziali o totali, dei servizi attraverso appalti e convenzioni spesso all’insegna del massimo ribasso che hanno fatto emergere l’utilizzo di contratti diversi da quelli di categoria in palese contraddizione con quanto richiamato dalla legge di parità.
Lo spaccato appena descritto ci consegna una realtà fortemente differenziata e frantumata che condiziona sia le prestazioni del personale sia la qualità del servizio evidenziando i limiti e i difetti del sistema stesso. Appare evidente che il contenimento dei costi del lavoro a danno dei diritti rafforza quella visione puramente quantitativa e mercatistica del servizio tipica del neoliberismo in quanto privilegia quasi esclusivamente l’aspetto economicistico a danno della qualità, dell’efficienza e dell’efficacia di una scuola dell’infanzia capace di garantire a tutti i bambini l’esigibilità di un diritto universale primario.
Da qui l’urgenza di un riordino, a tutto campo, dell’intero sistema infanzia che, ponendo al centro l’intervento pubblico, sia capace di ri-definire, con regole più certe e standard formativi più cogenti, l’orizzonte dei diritti e dei doveri di tutti coloro che a vario titolo e con diverse responsabilità vi operano.