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La ricerca dei percorsi di integrazione per i bambini con handicap

Carla Gaddi, psicologa

Il tema dell’integrazione è complesso ed appassionante: i livelli di inclusione di persone diverse per origini, storia e caratteristiche individuali costituiscono infatti un indicatore significativo dei livelli di civiltà raggiunti; è possibile apprezzare, leggere la fisionomia etica di un contesto sociale, di una nazione, di un popolo, di una città a seconda di come la questione dell’integrazione viene elaborata ed affrontata.

In ogni luogo, in ogni tempo, in ogni società è stato ed è necessario definire le nozioni di uguaglianza e di diversità ed esplorare i modi per connetterle. Si tratta di un elemento fondativo della convivenza umana fin dall’antichità, perché ogni epoca ha elaborato un modo peculiare di affrontare la questione che ha tradotto in scelte, in luoghi, in orientamenti valoriali in particolare modo centrando l’attenzione sui bambini diversi e riflettendo intorno al loro diritto a vivere, a sopravvivere nella lontana antichità, per interrogarsi poi in epoca medievale intorno all’opportunità che potessero vivere ed essere assistiti condividendo almeno i luoghi della cura e dell’educazione con la popolazione ritenuta normale.

Sono note le risposte:

Sopprimere

Con riferimento alla scelta tra abbandonare un bambino oppure allevarlo, dovrebbe esservi una legge che non consente di allevare un disabile scriveva Aristotele, e questa posizione la ritroviamo secoli dopo nell’ antica Roma dove c’era appunto la Rupe Tarpea. La soppressione ha rappresentato la soluzione radicale al problema, per altro ripresa in un’epoca più vicina a noi, quando il Nazismo ha di nuovo teorizzato e praticato l’eliminazione fisica di tante persone e bambini diversi.

Separare

I malati “incurabili” devono essere assistiti in luoghi separati da quelli della cura dei soggetti affetti da patologie trattabili; questa impostazione ha trovato anche in epoca moderna e contemporanea larga condivisione. Per quanto concerne gli interventi educativi in particolare, le classi differenziali e le scuole speciali sono state ritenute per molti decenni in Italia ed ancora oggi, ad esempio negli Stati Uniti, la soluzione più appropriata per tutti quei bambini per i quali viene esclusa la potenzialità di strutturare i processi cognitivi ed affettivi in modo regolare, per una pluralità di ragioni: dal danno organico all’appartenenza a gruppi sociali svantaggiati sul piano economico-culturale.

La rappresentazione sociale della diversità e cambiata nel corso della storia, sulla base di una pluralità di fattori/matrice di ordine strutturale e sovrastrutturale, generalizzando nuovi significati che man mano hanno sostituito quelli pre-esistenti, consolidandosi anche attraverso autorevoli conferme sul piano culturale.

Si strutturano così nuove mappe interpretative fortemente connotate sul piano cognitivo ed emotivo, stabili nel tempo, deconnesse dagli eventi che le hanno prodotte; i fattori sono identificabili nei valori etici, nei modelli di intervento, nei modelli di sviluppo economico e nell’andamento demografico.

Se consideriamo l’esperienza italiana, possiamo riconoscere nello scorso secolo quattro snodi, sintetizzabili intorno a quattro parole chiave: invalidità, handicap, disabilità, vulnerabilità, ciascuna delle quali perno di orientamenti culturali, dettati legislativi, sensibilità sociali e vissuti individuali.

Nel periodo 1918-1930 l’evento che determina una sostanziale rivisitazione del problema è il numero assai elevato di giovani uomini, la risorsa centrale, le braccia del mondo contadino, gravemente danneggiati durante la prima guerra mondiale.

La vittoria è mutilata, scriveva Gabriele D’Annunzio sintetizzando così che non era stato raggiunto in modo compiuto l’obiettivo dell’estensione del territorio italiano, indicando anche la caratteristica prevalente degli esiti delle ferite riportate in battaglia, danno tanto esteso da mettere a rischio la sopravvivenza di un mondo dove coesistevano due generazioni, in una fase dello sviluppo economico, detto agricolo a ciclo chiuso perché poteva essere consumato solo ciò che veniva prodotto.

L’equazione “invalidità, diritto al risarcimento economico” si è consolidata in quei decenni in termini destinati a diventare durevoli, anche perché le guerre coloniali e la seconda guerra mondiale hanno progressivamente e drammaticamente incrementato la numerosità degli invalidi oltre che dei giovani deceduti. Il riconoscimento da parte dello Stato del danno riportato in guerra, ed in epoca successiva dell’invalidità per cause di lavoro, ha costituito uno degli assi di negoziazione dei diritti di appartenenza e di cittadinanza.

In una fase successiva, negli anni 60-75 il tema della diversità viene ad essere ampiamente rielaborato tenendo insieme – considerando contestualmente – la condizione dei soggetti peri quali il danno è riscontrabile fin all’inizio della vita e dei soggetti che nel corso della vita subiscono danni di svariata natura (causa malattia, esiti di traumi, ecc) che compromettono l’autonomia e l’autosufficienza.

Sono in atto nel periodo grandi cambiamenti strutturali: l’industrializzazione diffusa determina un miglioramento significativo nelle condizioni di vita, coesistono tre generazioni, comincia in quegli anni a diventare visibile il fenomeno dell’invecchiamento della popolazione controbilanciato però da un tasso alto di natalità (al censimento del ’61 la distribuzione per classi di età configura la cosiddetta piramide perfetta).

Nel contempo lo sviluppo e la diffusione di conoscenze tecnico-scientifiche – pensiamo ad esempio alla neuropsichiatria infantile, alla psicologia dello sviluppo – si incrociano, trovano territorio di condivisione con un ampio processo socio-politico che mette al centro dell’attenzione l’affermazione e la tutela dei diritti soggettivi delle donne, dei giovani, dei soggetti tenuti ai margini. In particolare sono i diritti all’appartenenza, alla cittadinanza, alla partecipazione ad occupare con forza la scena, imponendo una radicale riforma del sistema di Welfare: così la legge di riforma sanitaria (n.833 del 1978) opera una sintesi tra contributi scientifici, orientamenti culturali e valorìali. Prevenzione, diagnosi precoce, territorializzazione degli interventi di cura e di riabilitazione diventano l’obiettivo dei servizi sanitari e sociali superando in progress I’approccio assistenziale-custodialistico.

La spinta ad abbattere le barriere riafferma i fondamentali diritti all’eguaglianza tra uomini e donne, tra soggetti sani e soggetti in varia misura compromessi, apre nuovi scenari di ricerca e di cambiamento anche in ambito educativo.

Dopo una stagione di intenso, appassionante e in qualche caso aspro dibattito, il diritto all’integrazione dei bambini, di tutti i bambini nelle scuole dell’infanzia e dell’obbligo trova conferma nella legge n.517/77 così come il diritto di accedere ad interventi di cura e di riabilitazione al di fuori di contenitori assistenziali segreganti nella legge n.180/78.

Per altro il grande movimento scientifico-culturale che metteva radicalmente in discussione le istituzioni totali, i manicomi, individuava nella segregazione, nella separatezza il fattore critico ostacolante il trattamento terapeutico perché proprio i luoghi in linea teorica preposti alla cura finivano con il trasformarsi in spazi assistenziali, violenti, senza speranza per i malati e per gli addetti. In analogia anche l`educazione speciale, da realizzare in scuole diverse da quelle dove frequentavano la generalità dei bambini, mostrava tutti i suoi limiti.

Molto spesso infatti l’intervento coincideva con un esasperante rallentamento/ripetizione di sequenze semplici deconnesse di senso; un esempio paradigmatico la produzione’ di aste, che riempivano i quaderni nell’ipotesi che la costante reiterazione del gesto allenasse la mano alla produzione di segni grafici più complessi, ignorando quanto il processo di apprendimento sia alimentato da dinamiche motivazionali e relazionali che si smorzano fino ad estinguersi in contesti passivizzanti.

I Servizi Educativi per l’infanzia di Milano sono i luoghi nei quali è avvenuta a partire dagli anni 70 una profonda e sistematica rivisitazione intorno al senso, agli obiettivi ed alle metodologie dell’intervento educativo: rappresentava già allora per il Paese un modello avanzato, con cinque Scuole Speciali, in rapporto a specifiche patologie, e cinque Centri specialistici preposti alla riabilitazione ed alla cura di bambini con insufficienza mentale, esiti di paralisi cerebrale infantile, epilettici, non vedenti, otologopatici. Modello avanzato proprio per la sinergia tra interventi educativi e terapeutici, pur tuttavia con limiti significativi connessi al progressivo isolamento, distanziamento, di questi bambini/ragazzi dal proprio ambiente di vita, dal caseggiato, dall’oratorio come se fossero chiamati in un luogo altro a costruire competenze che non riuscivano a trovare occasione di alimentazione nello scambio e nel confronto con i coetanei, con il contesto di vita, con il mondo.

Si intravedeva come poi in età adolescenziale fossero del tutto impossibili percorsi di rientro, allora dalla scuola speciale al laboratorio protetto, comunque verso altre soluzioni separate, diverse.

La scelta politica di rivedere complessivamente il sistema di servizi per i bambini viene a declinarsi con una metodologia profondamente innovativa aprendo un confronto serrato tra componenti tecniche e politiche, assessori, capi ripartizione, tecnici, rappresentanti delle associazioni delle famiglie: integrazione di saperi e di punti di vista per realizzare appunto un grande progetto a tutela del benessere di tutti i bambini.

Vengono declinati in modo innovativo sul territorio gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione attrezzando un modello di presa in carico globale dei bambini e delle famiglie, esteso agli altri ambienti di vita, in particolare alla scuola.

Si era consapevoli che per transitare dall’inserimento all’integrazione fosse indispensabile una messa in comune dei saperi organizzativi, pedagogici e clinici. Si è cosi sperimentato in modo ampio e capillare una modalità di sostegno all’esperienza nuova dell’ingresso nella scuola di tutti, a partire dalla scuola dell’infanzia di bambini con significative difficoltà di relazione e di apprendimento.

L’esperienza nelle scuole dell’infanzia milanesi si è declinata in termini più avanzati di quanto fosse possibile nella scuola dell’obbligo; la gestione diretta del servizio rendeva infatti praticabile per la Direzione Centrale dei Servizi Educativi d’intesa con gli Assessorati dell’Educazione e dell’Assistenza la messa in atto di soluzioni più convincenti, che sintetizzo rapidamente:

– pianificazione di interventi formativi specifici per tutte le puericultrici e le educatrici mirata all`implementazione delle conoscenze sull’evoluzione e sui bisogni dei bambini, valorizzando la dimensione relazionale adulto/bambino e tra bambini quale matrice e presupposto del processo di apprendimento. La formazione ha stabilmente accompagnato e sostenuto le educatrici, arricchendosi in progress di contributi qualificanti l’intervento pedagogico: seminari, laboratori, approfondimenti nei collettivi/collegi intorno al singolo caso;

– revisione del modello organizzativo (orari del servizio, numerosità dei bambini per classe, strategie per l’inserimento ecc);

– dotazione di risorse soprannumerarie (non di insegnanti di sostegno) per gli asili nido e le scuole dell’infanzia impegnate nell’integrazione di bambini con significative difficoltà di sviluppo secondo un modello proprio dell’esperienza milanese, che escludeva, anche attraverso una diversa denominazione, la prefigurazione di una coppia insegnante di sostegno/bambino, a rischio di separatezza ed esclusione. I collegi venivano quindi impegnati in una riprogettazione pedagogica complessiva che poteva riarticolare, appunto attraverso una risorsa aggiuntiva, i momenti di attività individuale, a piccoli gruppi, con grandi gruppi, con una ricaduta positiva per tutti i bambini;

– costituzione di un osservatorio stabile di studio e ricerca sulla dimensione quanti-qualitativa del fenomeno, che in stretto dialogo con la Direzione Centrale pianificava appunto le risorse necessarie, i programmi formativi e la messa a punto di ulteriori strategie di agevolazione dei processi e dei percorsi, ad esempio l’anno di saldatura, la possibilità cioè di prolungare l’esperienza in un contesto meno rigido e pre-formato della scuola dell’obbligo, per consolidare il processo di crescita e le competenze;

– sperimentazione, per pochi bambini gravemente compromessi, di una estensione dei trattamenti riabilitativi ed educativi in un contesto attrezzato allo scopo – i Centri Territoriali Riabilitativi – salvaguardando per tutti, attraverso una più delimitata frequenza alla scuola dell’infanzia e dell’obbligo, la potenzialità del confronto dello scambio e dell’appartenenza, ma contestualmente implementando ed intensificando gli interventi di cura.

Ho avuto il privilegio di dedicarmi per diversi anni a queste attività, come operatore di un Servizio Territoriale di Igiene Mentale per l’Età Evolutiva, come componente di gruppi di lavoro di progettazione, dell’osservatorio, come responsabile di un Centro Territoriale Riabilitativo per bambini. A distanza di tempo credo che la traccia più importante sul piano personale consista nell’avere potuto direttamente sperimentare la ricchezza e la creatività messe in onda dall’integrazione dei livelli e dei saperi, dalla ricerca di soluzioni condivise, dentro un orizzonte di profonda interconnessione etica tra dimensione di attenzione alla polis ed al percorso, al progetto di vita di singoli bambini, genitori, educatori.

Ovviamente il progetto Milano è stato realizzato in sintonia con l’elaborazione che in quegli anni portava l`Organizzazione Mondiale della Sanità a rivedere complessivamente la nozione di handicap, quale risultante della sequenza malattia – menomazione – disabilità di maggior o minore entità in funzione della precocità/qualità degli interventi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria messi in atto e delle risultanze dell`impatto sociale, della plasmabilità quindi dell’ambiente fisico e relazionale in direzione agevolante od ostacolante (pensiamo alle barriere architettoniche che di per sé possono rendere problematico od impossibile il semplice gesto dell’uscire da casa oppure al pregiudizio che esclude la partecipazione, ecc.).

Non sono le caratteristiche della persona, ma l’esito del percorso di cura e la fisionomia dell’ambiente, la cultura, a delineare il volto dell’handicap, lo spessore dell’ostacolo.

In tempi più recenti, la contestuale accelerazione di fenomeni diversi, primo fra tutti l’invecchiamento della popolazione, ha reso esperienza diffusa la disabilità interveniente nel corso della vita, la perdita dell’autonomia e dell’autosufficienza per un numero assai elevato di persone anziane, mentre decrementa in modo vistoso il tasso di natalità.

Oggi l’esperienza socialmente più diffusa nel nostro paese non è più crescere bambini, ma proteggere anche per molti anni la fragilità di persone nella terza, quarta età. Si tratta di un cambiamento epocale, forse ancora poco studiato, ma che nei fatti sta già imponendo una revisione dell`intero sistema di Welfare,determinando nuove centralità ed il ricorso massiccio a soluzioni non previste né agevolmente prevedibili solo dieci anni fa (indebolimento rapido delle risorse familiari perla care, instabilità dei nuclei familiari, reperimento di badanti da luoghi lontani).

Insomma una rivoluzione che sta cambiando gli stili, i modi e la rappresentazione sociale della disabilità, oggi molto più visibile che non in un passato recente: se il processo di integrazione ha fatto si che sui mezzi di trasporto pubblico cominciassero a diventare visibili per la prima volta le carrozzine con bambini e ragazzi con esiti di paralisi cerebrale infantile, oggi l’impatto con persone in età adulta, anziana dotate di ausili e protesi appartiene al quotidiano.

La disabilità da evento circoscritto e comunque delimitato sta diventando un orizzonte possibile nella vita di tutti, elemento quest’ultimo che dovrebbe sostenere una identificazione allargata meno difensiva e precludente di quella che abbiamo conosciuto e combattuto.

L’estendersi ed il diversificarsi delle cause di disabilità e la consapevolezza delle ambiguità sottese alla nozione di handicap aprono la strada alla recente rivisitazione, scaturita da un ampio confronto internazionale, da parte dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha suggerito l’adozione di una nuova classificazione (I.C.F.), che appunto prende in esame il funzionamento, le condizioni di salute delle persone, inquadrando la disabilità nei termini semplici ed esaustivi di limitazione delle attività e l’handicap come restrizione della partecipazione, in una dialettica dove fattori personali ed ambientali co-costruiscono la qualità di vita e il benessere delle persone.

Tra le raccomandazioni: che gli individui non siano ridotti o caratterizzati soltanto nei termini delle loro menomazioni, limitazioni delle attività o restrizioni della partecipazione … per ovviare ulteriormente al legittimo problema dell’etichettamento sistematico delle persone, le categorie vengono espresse in modo neutro..comunque la disabilità venga chiamata esisterà un etichettamento irrispettoso. Il problema non è solo nella terminologia, ma anche e soprattutto negli atteggiamenti degli altri e della società.

Certamente è contraddizione peculiare di questo momento storico il fatto che, mentre cultura, sensibilità e rappresentazione sociale continuano ad evolvere, proprio in questa città che ha partecipato da protagonista alla declinazione del diritto alla salute ed all’integrazione dei bambini, uno degli assi portanti, i servizi educativi per la prima infanzia sempre meno vengano supportati in termini di formazione e di modelli pedagogico-organizzativi, cosicchè anche il delicato e complesso intervento di inclusione viene ad appoggiarsi su risorse precarie per le quali non è agevole immaginare un processo compiuto di interazione e di programmazione condivisa.

La caduta di tensione rispetto all`obiettivo di continuare a realizzare le condizioni per il diritto di cittadinanza e di appartenenza è attestata dall’ipotesi che possa essere opportuno aggregare i bambini che vengono da lontano, volto inedito della diversità, solo tra di loro; non è una soluzione nuova, come abbiamo detto: separare, tenere distinto è una suggestione che arriva dai tempi lontani, anche se è sorprendente che possa essere proposta come sperimentazione agevolante l’integrazione, ignorando tutte le ragioni etiche, culturali e scientifiche che hanno promosso, sostenuto ed alimentato l’integrazione e la condivisione come diritto e come leva di processi profondamente trasformativi a livello individuale e collettivo.

Per concludere, mi pare che questa iniziativa ponga l’obiettivo di interrogare il presente, con i suoi nuovi bisogni e le sue contraddizioni, partendo dalla domanda di attenzione e qualificazione che il mondo educativo esprime, cercando di riportare al centro della progettualità della polis un pensiero

integrato, non nostalgico, né ideologico, che ha tra le sue ragioni di ieri e di oggi la consapevolezza che è possibile, o almeno è stato possibile – mettendo in rapporto sinergico livelli e competenze tradizionalmente scissi- pervenire a modelli di intervento ampiamente condivisi, con la tenacia e la creatività necessarie per realizzare un laboratorio artigianale, locale ma non localistico, attento ai cambiamenti ed alla necessità di prestare grande attenzione al bordi del sistema, dove appunto si possono aprire spazi per la sperimentazione e la ricerca, nell’accezione delimitata ma significativa di ricerca sul campo.

D’altronde proprio nel contesto metropolitano i fenomeni si addensano, si coagulano, diventano visibili, impongono riflessioni, scelte, responsabilità; la partecipazione alta, attenta a queste giornate di dibattito, segnala quanto sia articolata e profonda la domanda delle educatrici di tornare ad essere interlocutrici e protagoniste dentro gli scenari e gli orizzonti di oggi, che ancora sollecitano percorsi e processi innovativi di integrazione.

La scommessa dei bambini, Milano, 2008

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