
Loris Malaguzzi
Pubblicato in “Zerosei”, dicembre 1978, Fabbri Editori, Milano – pp. 6-7
La cronaca. Oggi la cronaca è impietosa, crudele.
A Agrigento Gioacchino, 13 anni, si è attorcigliato al collo un filo di ferro, ha attaccato l’altra estremità a un albero e si è lasciato cadere. La morte è arrivata subito. Aveva guadagnato 8 mila lire andando da mattina a sera a lumache. I genitori avevano reclamato i soldi. Gioacchino aveva sognato tutto il giorno di andare coi soldi guadagnati sulle giostre arrivate sulla piazza.
A Milano Daniela, 16 anni, si è sfracellata a terra mentre con due lenzuola annodate che non hanno retto, tentava di calarsi dal quarto piano per non mancare all’appuntamento presso la gelateria col ragazzino che aveva appena conosciuto. Sarebbero andati a fare un giro con la moto, un “chopper”, quelle dal manubrio lucente, ricurvo con due lunghe braccia amorose. La mamma glielo aveva proibito. Erano poco più delle 21, il sole era ancora testimone.
A Napoli due ragazzini Mario di 14 anni e Teresa di 12 sono i protagonisti di una drammatica vicenda. Mario invita l’amica “ai giochi proibiti”. C’è un proiettore e c’è il filmetto porno che si acquista anche dal giornalaio poco scrupoloso. C’è lui che cerca di far violenza e lei che gli resiste. Lui prende il revolver del padre e le spara addosso. Fugge mentre l’amica entra nel reparto neurochirurgico dell’ospedale.
A Orbetello in un camping. Di notte le sigarette si fumano impunemente. Paolo 16 anni si allontana nel bosco. Suo fratello Patrizio, che ha due anni in meno, non sopporta la curiosità, il desiderio di sapere cosa fa fratello più grande, forse sa che va – furtivamente – a fumare la sigaretta. Lo insegue, lo trova, gli chiede di fumare anche lui. La lite si accende. Paolo tramortisce il fratello di pugni, poi – forse spaventato, forse no – lo trascina sulla spiaggia e lo abbandona con il viso immerso nell’acqua. Lì Patrizio morirà.
A Milano la droga ha ucciso un altro ragazzo, Vincenzo, di 15 anni: nel gabinetto di una balera si era siringato, aveva accennato a un passo di danza che forse pensava trasformare in una felice camminata nel cielo, è caduto a terra col suo carico allucinato di desideri e di speranze.
I fatti sono terribili
Ma che rappresentano, che significato si portano dietro? Semplici segni di una giornata funesta, di fatti solo accidentalmente concomitanti? Di una imprevista e non prevedibile incursione di folle violenza e di morte? O segni più perentori di una condizione dell’esistere che se è difficile per tutti, è sempre meno vivibile per i bambini e i giovanissimi?
Questi interrogativi (che i curatori e i lettori di questa rivista probabilmente accuseranno con particolare intensità per via del mestiere e dei rapporti che ogni giorno hanno, oltre che con sé, con i bambini, i ragazzi, le famiglie, e i loro problemi) hanno raggiunto una rilevanza che mentre invoca le responsabilità dirette dell’opinione pubblica e di quanti detengono poteri e responsabilità politica e civile, inducono ad avvertire come certi modi passati, tradizionali del percepire, del leggere e del pensare la cronaca (“l’effimero”, “il casuale”, “il destino”, “il personale”, ecc.) siano travolti dalla forza stessa delle loro violenze significanti e sintomatiche e impongano atteggiamenti, decodificazioni e interpretazioni di cui anche la scuola e la stessa scuola dell’infanzia e le varie agenzie educative debbono appropriarsi se non si vuole che nei luoghi deputati all’educazione continui a non accadere mai niente mentre fuori accade di tutto.
Facciamo attenzione. Comunque si leggano le storie di morte e di annientamento fisico e morale che la cronaca ci riporta, dietro ognuna di esse si scopre subito la perdita e lo stravolgimento – in termini mai considerati – del ruolo e dei significati del tempo, bruciato nella sua naturale multivalente dimensione e irrigidito nel subito, nell’immediato, in quel “tutto e subito” su cui una letteratura recente e di facile successo ha proiettato da parte sua deliranti modelli di comportamento, anticonformismo e ribellione. Nessuno dei giovanissimi protagonisti delle storie ha accettato l’attesa, il differimento, gli stessi segni della propria naturale e storica maturità. Ognuno ha voluto subito tutto.
Un progetto pedagogico dalla parte della cronaca
Ai bambini, sempre più dentro al sovvertimento del tempo e dello spazio e sempre più vicini a orbite fin qui non contemplate, ai ragazzi, ai giovani (per i quali c’è il varo della riforma della secondaria) le risposte debbono venire dal rinnovamento della scuola e della società. Pensiamo per la scuola ad una scuola più capace – ad esempio – di porre più attenzione, più passione, più intelligenza alla cronaca, ai significati delle esperienze di ogni giorno (suoi e dei ragazzi) e soprattutto degli interrogativi, dei desideri, delle speranze, dei bisogni di conoscenza, dei progetti e degli approdi per dell’avvenire. È questa una scuola che occorre anche per i bambini e i piccolissimi, quelli della scuola dell’infanzia e dei nidi. L’educazione è un fatto grosso e sottilissimo che si sente e si respira.
In questa scuola che nasce e parte instancabilmente dalla cronaca, forse cominceremo a trovare quello che fin qui è stato difficile e talora impossibile trovare: punti cui riferire la propria azione sia da parte dei bambini che dei docenti, da cui far partire la ricostruzione di tempi, di spazi, di mutamenti attraverso obiettivi didattici e di valore, precisi, concreti, verificabili. Per apprendere a guadagnare comportamenti non tanto inscritti in una lista quanto legati alle situazioni storicamente vissute dai bambini sulla cui adesione poggia essenzialmente il disegno di una strategia di competenze il cui ruolo, a lungo termine, è ben chiaro nella mente e nella preparazione culturale dei docenti. Una pedagogia che sfugga al nientismo, quello vero e camuffato che spesso si vede in giro e che dichiara umilmente di star dalla parte della cronaca accettandone tutte le provocazioni che vanno dalle false celebrazioni dell’essenziale, dei ripiegamenti assistenziali, dei due tempi, del tutto o niente e del tutto e subito, dell’educazione-assuefazione a quello che c’è.
In questa pedagogia degli obiettivi (che è il tema su cui più aperto e caldo è il dibattito) di natura squisitamente politica, c’è il rifiuto di educare e di educarsi senza sapere dove andare, per chi e per cosa. Senza prospettive non si ha progetto, senza progetto non si ha il passato e nemmeno il presente e il futuro, senza dimensioni temporali e ideali si uccidono le cose essenziali nell’uomo e nel bambino: il giocare, il lavorare, pensare, l’immaginare. Non può, se mancano queste cose, educare. Ma non si può (prima ancora) neanche vivere come Gioacchino, Daniela, Mario e Teresa, Paolo e Patrizio e Vincenzo ci hanno dolorosamente testimoniato.