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Intanto evviva evviva la “primina” – novembre 1979

Loris Malaguzzi

Pedagogista


Pubblicato in Zerosei”, novembre 1979, F.lli Fabbri – Milano – pp. 2-3.

1.

I bambini non conoscono molto, e mai comunque in anticipo, i discorsi e le cose che gli adulti approntano per loro.

Ciò potrebbe voler dire che gli adulti conoscono i bambini e sanno, pertanto, cosa fare? La realtà è diversa. Gli adulti si chiedono o si chiederanno ancora cosa sono i bambini. L’errore è quando insistono a chiederlo ai segni zodiacali anziché ad una seria indagine sulle condizioni dei bambini secondo dati di quella realtà che essi stessi, adulti, costruiscono e impongono di vivere. È così che il più delle volte progettano male o fanno ancora peggio.

La questione vale richiamarla oggi che uno dei temi più ricorrenti è quello che investe il bambino di 5 anni.

Un privilegio, una memoria ritornata, una provvidenza. Mah! La questione comunque è: cosa ne facciamo del “cinqueanni”?

In famiglia no, non ci sta e pare ci sia un largo accordo. Meno accordo c’è quando lo si scruta: più intelligente, più robusto, più sveglio, più maturo? Tutto “più”?

Ancora meno accordo quando si passa al che fare.

Allora sta nella scuola materna o nella scuola dell’infanzia? (E gli ottocentomila che ancora ne sono fuori?). Ma come? In un anno generalizzato? facoltativo? obbligatorio? Allora si anticipa l’obbligo? E perché no nella scuola elementare? E dentro a quale progetto più generale di riforma, oltre che della stessa scuola infantile, della elementare, dell’obbligo, della secondaria?

E se no che senso ha fare scelte, comunque, così piene di interrogativi e conseguenze sulla pelle di un solo anno, il quinto, del bambino?

Acutizzata dalla recente proposta di legge di riforma della secondaria superiore che tende – per accordo unanime – a concludere l’intero ciclo formativo a 18 anziché a 19 anni (come in genere nei paesi industrializzati) ma senza avere deciso dove tagliare l’anno eccedente (di qui il problema semplificato di cominciare prima la scuola per finirla prima) la questione trascina con sé vecchi e nuovi nodi strutturali, interessi massicci di ogni genere, modi diversi di collocarsi culturalmente di fronte ai problemi dei bambini, delle famiglie, della scuola; dei bisogni e dei mutamenti sociali. La stessa Costituzione repubblicana è spesso al centro di dibattito e di posizioni controverse.

Ma il dilemma è ancora lì. Perché pensare ai “cinqueanni” se si vuole tagliare l’anno eccedente quando le soluzioni sono tante?

O sono i problemi irrisolti della scuola materna a spingere avanti la questione dei cinque anni o quelli della scuola elementare? E allora in che logica entriamo?

 

Il richiamo, volutamente impietoso, all’uso dello zodiaco (come imprevidenza, superficialità, posticcio) sta in piedi per la sua parte nella complessità dei temi di fondo sui quali ritorneremo.

Difetto, vizio, espediente o tratto morfologico, di lui ti accordi appena tenti di misurare le proposte e le motivazioni che nascono nei convegni, nei dibattiti, negli articoli dei quotidiani o delle riviste specializzate. Brillanti che appaiono esse si offuscano e ti aiutano poco appena alzi il rigore dell’analisi e confronti le ragioni e le scelte con le informazioni e i documenti che non esistono, i fenomeni che non controlli, i processi che apri e di cui ti sfuggono le qualità e le ampiezze, gli accordi e la programmazione che avverti indispensabili e nessuno ti garantisce: elementi costitutivi di una modalità zodiacale di far riflessione e politica i cui segni nefasti sono accertabili nelle vicende della scuola e che è uno degli ostacoli più decisivi e umilianti a condurre i discorsi del cambiamento entro le linee di una ricerca seria e credibile, perché fatta anche con la conoscenza oggettiva delle cose, l’elaborazione scientifica dei dati e delle ipotesi e la costruzione controllata di quanto vuoi cambiare con le rassicurazioni e le responsabilità che occorrono.

 

Dentro e fuori questo quadro ci stanno i segni della non volontà e della irrisolutezza (oltre che delle obiettive difficoltà) di cambiare con le metodologie di lavoro i contenuti e la sostanza di una realtà scolastica e sociale già gravemente offesa e minata.

Sui punti che vertono il destino dei bambini di 5 anni (una sorta di eufemismo, ci auguriamo, per dire cose molto più ampie e complesse) il ritardo delle forze politiche, di tutte, è innegabile. I progetti avanzati qualche tempo fa in parlamento o sono caduti o sono stati abbandonati. Non funzionano più.

Le discussioni tra le parti sono meno enfatiche, i confronti diretti più aperti ma le posizioni sono ancora distanti e defilate anche perché si avverte che non ci sono sforzi e impegni elaborativi adeguati. Se ci fossero veramente e scendessero in campo, le stesse distanze potrebbero ridursi.

L’unico progetto ufficiale, quello dei socialdemocratici, firmato a luglio da Giesi e in agosto da Sullo che legittima l’abbassamento a 5 anni del limite di età per l’ammissione alla prima elementare non esce dalle astrattezze e ambiguità del capitoletto separato: non si sa se, oltre le intenzioni, contro o a favore della “primina” che è uno dei sintomi più vergognosi delle doppiezze legislative e pratiche che nel nostro paese si fanno vivere ai bambini e alle loro famiglie.

Le stesse manovre prima pubblicizzate poi richiamate alla discrezione e alla clandestinità che sull’argomento, dal ministro Pedini poi, vedono protagonisti certi ambienti cattolici, sono il segno della pesantezza delle difficoltà e delle contraddizioni anche tra coloro che sono in maggiore dimestichezza coi poteri del governo.

 

Che l’intera questione dipenda oltre che dal disegno globale di riforma della scuola dell’obbligo e della secondaria che ancora non avanza, dallo scioglimento dei nodi della scuola pubblica e di quella privata e dei loro rapporti con lo stato e dei significati di uno stato a mezza via tra ordinamenti precostituzionali e ordinamenti di autonomie costituzionali, è fatto chiaro. Ma le frontiere sono ancora inadeguate e deviate se non recuperano insieme il discorso più intimo dei bambini, dei loro bisogni, delle loro attese e delle loro “crisi” innestate, con peculiarità da non disattendere ma nemmeno da distanziare, sulla crisi più generale dei giovani e degli uomini.

Da parte nostra non ci sentiamo ancora di prendere posizione se non a favore di una riflessione più ponderata e aiutata da riferimenti più documentati e precisi e che non consenta, secondo una logica perversa, di attaccare i problemi a uno a uno, uno per volta.

Il bambino di cinque anni ci interessa quanto quello di tre, di due, di otto, quanto il ragazzo di 12 e il giovane di 16 e 18 anni.

Sappiamo, per esperienza direttamente vissuta, quanto il bambino possa guadagnare da una scuola che gli sia vicino e sia vicino alla sua famiglia, sia controllabile e controllata con il massimo di democrazia dalla gente e sia integrabile e integrata con le altre istituzioni territoriali. Personalmente partiamo di qui, senza patriottismi ed esclusivismi, per aderire a progetti unificanti ma non massificanti nell’indistinto.

Dobbiamo dire ancora a tutte le forze politiche che i ritardi e i rinvii non servono a nessuno. Essi sono deleteri sia per la scuola pubblica il cui stato di mortificazione è a livello di guardia, sia per la scuola privata cui nemmeno giova l’isolamento e la riduzione dei termini di confronto né il concedersi – con le connivenze delle circolari ministeriali – alle grandi (e redditizie) operazioni della primina[2].

Che è l’unica vera, stravolta anticipazione dei problemi dei bambini di 5 anni e la testimonianza di una operazione ingiusta, violenta, discriminante che intanto guasta dal di dentro (con conseguenze non del tutto valutate) non solo il bambino e la famiglia, ma anche l’intera questione che qui richiamiamo.

 

[2] Leggere su «Tuttoscuola» 82-83 di Fernando Gioia dal titolo «Napoli: nelle elementari il ‘boom’ della primina». Si riportano i dati agghiaccianti di una inchiesta. Su 70 classi di 4 plessi ogni anno si formano non più di 6-7 prime classi: ma le seconde classi, l’anno dopo, sono 16-18 con una media tra i 2 e i 25 alunni. La gravità delle implicazioni teoriche e pratiche è di impressionante evidenza. (nota originale)

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