Appunti, agosto 2021,
la mia estate
Selezione e organizzazione di conoscenze e di abilità
Normalmente non occorre stimolare bambine e bambini. Sono attivi in un mondo in cui devono adattarsi, con strumenti insicuri. Ma anche se procedono confusamente, apprendono. All’inizio passano fulmineamente da una attività all’altra, toccano tutto per capire qualcosa degli oggetti che rapidamente trascurano, fanno disordine, osservano cosa produce il toccare, il buttare in terra, il tirare, lo spingere, l’arrampicarsi, lo scagliare, il saltare, il tuffarsi nel letto o nel divano.
È una fase da non interrompere con proibizioni. Ci sono differenze a seconda che la bambina o il bambino stia a casa al centro dell’attenzione o a scuola con coetanei e con adulti che devono distribuire la loro attenzione e i loro interventi.
In ogni caso l’evoluzione consiste nella selezione e nel prolungamento di particolari attività, e questo deve realizzarsi con un passaggio graduale, naturale. Sono fondamentali i rapporti con i coetanei in una situazione deliberatamente formativa, che dovrebbe essere caratterizzata da condizioni per dare più tempo alle attività, a cui si applicano così da svilupparle, fare scoperte di proprietà e di funzioni che un frettoloso disciplinamento ostacolerebbe.
In genere si ritiene che giocattoli, miniaturizzazione di macchine, di oggetti di arredamento domestico aiutino lo sviluppo cognitivo e l’adattamento. In linea di principio è vero, ma non bisogna esagerare con un consumismo che sostituisce attività necessarie già in giovanissima età. L’essere prodighi e indiscriminati in regali elimina attività con cui si possono costruire in collaborazione tanti oggetti. Non solo uso di ciò che offre il mercato ma produzione che fa capire molte cose sui materiali, su come lavorarli, di quali strumenti c’è bisogno. Si tratta di affrontare problemi che si presentano fin dall’inizio per muoversi in un mondo nuovo. La collaborazione è naturale in una situazione di rapporti. Gli educatori aiutano bambine e bambini a estendere e a approfondire esperienze così da raggiungere livelli a cui da soli non avrebbero potuto arrivare. Fare cose insieme, usare strumenti che facciano capire la funzione che hanno nell’attività. A proposito degli strumenti in rapporto all’attività ho fatto ricerche in una scuola dell’infanzia su quella che si può chiamare ergonomia pedagogica.
La libertà individuale si sviluppa nei rapporti, nella collaborazione, nel disaccordo che quasi sempre non dura, nelle difficoltà. È la vita reale che educa mentre le facilitazioni sono artificiose e tolgono forza alle esperienze.
Come in tutti, anche in bambine e in bambini le strade di espansione di conoscenze e di attività sono ramificate, hanno svolte improvvise, interruzioni, impennate, stasi. Cominciano a selezionare cose, fatti, rapporti, a soffermarsi sulle loro caratteristiche. Vogliono capire e acquisire i comportamenti più adatti. Gli adulti – genitori, nonni, educatori… – sono di aiuto o cominciano a imporre regole che inquinano la situazione con l’obbedienza o con capricci nei quali l’infanzia cerca una forza contrattuale.
Gli interventi devono aiutare l’espansione della personalità. In buon numero i nidi e le scuole dell’infanzia lavorano in questa direzione. E le elementari? Ce ne sono che vanno avanti sulla linea segnata dalle scuole dell’infanzia. Più frequenti i casi di mutamenti sfavorevoli ai rapporti, alle attività e ai fini. Un essere complesso ma unitario viene sdoppiato. È come se bambine e bambini fossero assunti da una azienda per lavori in cui non si ritrovano ma li accettano per necessità pratiche sancite dalla tradizione. La scuola per definizione non ha necessità estranee alla formazione che dà forza a particolari identità personali. I programmi, per natura non sono strettamente vincolanti, ma la programmazione delle singole scuole di solito non profitta dei margini di libertà e non cura, anche a livelli bassi, il rapporto tra bisogni e apprendimento, l’importanza della situazione e dell’atmosfera, la continuità delle esperienze con le esigenze di vita. C’è una discontinuità che apre a conoscenze nuove, impegna in attività in cui non si erano cimentati, eleva i livelli dei punti di vista. Proseguendo nel cammino scolastico, l’arbitrio dei programmi ignora sempre più le persone. Viene separato ciò che dovrebbe procedere unito. Non formazione che con attività porti a scoperte e a spiegazioni che fanno crescere ma sottomissione anche se in forme dissimulate. Per fortuna la scuola non riesce a occupare tutto lo spazio di vita e gli allievi trovano il modo di essere individui in sviluppo nelle esperienze che corrispondono a interessi e a bisogni.
La scuola deve essere un luogo dove si va con piacere, s’incontrano coetanei, si fanno cose interessanti, si entra in rapporto con gli adulti: si avverte il valore dell’apprendere, del capire cose nuove. Le attività scolastiche devono essere un modo di stare insieme, di collaborare, scoprire idee e emozioni, avere più occasioni di esperienze che fanno avanzare nella comprensione e nei comportamenti.
Man mano che si va avanti nei gradi scolastici sbiadisce l’identità dei singoli allievi, sacrificati alla centralità dei programmi svolti con lezioni e studio a casa. Sarebbe possibile conciliare sviluppo dell’identità e programmi, ma questo richiede ricerca, lavoro di gruppo, attività sul campo come modi di vivere.
L’anonimato degli studenti raggiunge il culmine nelle Università umanistiche e di scienze sociali. Prevale la lezione frontale, come la recitazione in uno spettacolo. Recita solo il professore davanti a un pubblico sconosciuto. L’incontro è agli esami, dove il professore non deve dare conto dell’efficacia delle sue lezioni. La responsabilità è attribuita agli studenti a cui è stata negata ogni iniziativa per apprendere con il metodo della ricerca.
In rapporto all’Università si è studenti e basta; devono ascoltare lezioni, leggere libri non inseriti in un progetto come strumenti di ricerca. Una situazione innaturale che ignora che cosa è importante apprendere e quali sono le metodologie didattiche più efficaci.
I laboratori, non solo come struttura
La denominazione “laboratori” non si addice soltanto a una struttura con spazi differenziati e attrezzati con strumenti specifici. L’obbligo di queste caratteristiche sarebbe discriminatorio. Quello che conta è che a favore dell’apprendimento ci siano condizione e procedimenti che affrontino con efficacia problemi di ricerca. Un apparato didattico esteriormente nuovo può lasciare fuori la ricerca anche se non del tutto. I poteri intellettuali possono essere usati male ma mai annullati. Sono nella natura dell’uomo.
È da distinguere la struttura a laboratori nella sperimentazione avanzata da metodologia di laboratorio che dovrebbe coincidere con l’insieme delle attività che producono apprendimento.
Non devono essere caratteristiche in esclusiva della struttura un’atmosfera stimolante, i rapporti amichevoli, il piacere di stare insieme, di fare scoperte; l’educatore dovrebbe essere percepito come un collaboratore desideroso di imparare: sono tratti ordinari dei laboratori, anche quelli non organizzati in una struttura. L’Open Plan School, che nel 1950 e nel 1970 ho conosciuto nelle ricerche in Inghilterra e in Scozia, è lontano dalla struttura ma non dalla metodologia dei laboratori. Mi colpì la rigorosa e naturale osservanza del principio che ogni spazio doveva essere teaching area.
Non ho mai ritenuto una grande idea la struttura a laboratori e un merito averla realizzata. Mi ha sempre interessato la metodologia dei laboratori introdotta, in forma rudimentale, fin da quando, nell’immediato dopo guerra, entrai con l’aiuto del mio professore, Ernesto Codignola, come assistente volontario nell’Università di Firenze. Semplice e chiaro il ragionamento: se io apprendo mediante ricerche, non posso aspettarmi che gli studenti ne possano fare a meno, riconoscendo loro una sorta di inspiegabile superiorità rispetto a me ricercatore senza scampo.
Conoscere l’identità di ciascun partecipante mi sembrava naturale. I rapporti sono una necessità e perciò si lavorava in gruppo a cui il professore ha il compito di partecipare per valutare risultati, difficoltà per discutere particolari punti in vista di aiutare lo sviluppo della ricerca. Il professore, un allievo più avanti negli anni, e perciò nei rapporti con il gruppo, apprende cose nuove.
Un punto fondamentale è la non autosufficienza di qualsiasi metodologia adottata dalla istituzione formativa. È necessario conoscere l’esterno perché è nella vita ordinaria; servizi, istituzioni amministrative e culturali, aziende produttive. Anche dai musei alla natura: di queste realtà la scuola deve scoprire problemi, funzioni, rapporti con il lavoro e con il funzionamento sociale. Le dimensioni reali, anche se molti aspetti non si possono conoscere, mettono le conoscenze in una situazione aperta, non scolastica. È naturale fare sentire il livello specialistico delle conoscenze che non è nei compiti ordinari degli insegnanti. È necessaria la collaborazione di personalità eminenti nei vari campi culturali; spetta alle scuole utilizzare i loro interventi non come belle lezioni ma come stimoli per ricerche.
Se i laboratori sono legati non a una struttura ma a una metodologia, non è azzardato parlare di laboratori anche per nidi e scuole dell’infanzia per la naturalezza dei rapporti e della collaborazione, le continue scoperte di conoscenze e di acquisizione di abilità.
Il sistema formativo e gli esperti esterni
L’accesso a canali esterni di conoscenza non è una novità. Sono tanti i materiali e gli strumenti, ma in generale le metodologie di utilizzazione da parte delle scuole sono insufficienti. Non potrebbe essere diversamente: in assenza di ricerche le tante opportunità offerte da iniziative esterne sarebbero ridotte quasi sempre a labili informazioni.
In questa fase sfavorevole non bisogna rinunciare a porre problemi di rinnovamento. Non dobbiamo aspettare la normalizzazione (termine ambiguo) per ridefinire contenti, scopi e strumenti in vista della necessità di dare più importanza alla cultura esterna, non limitandosi ad ampliare l’informazione ma modificando radicalmente i modi di apprendimento. Se la politica scolastica curasse la formazione anche come una necessità dello sviluppo economico potrebbero concorrere al rinnovamento due operazioni diverse.
1 L’utilizzazione mediante video della cultura di personalità di alto livello. Le scuole non dovrebbero limitarsi a una semplice informazione su una nuova e più alta cultura, ma accogliere stimoli per ricerche volte a capire qualcosa dei problemi trattati. Solo con una risposta attiva e produttiva gli apporti esterni rafforzano e rinnovano l’offerta educativa.
2 Un’altra linea di sviluppo è la collaborazione continuativa di esperti in vista di incidere con più forza sulla innovazione educativa di scuole di una particolare area; l’espansione e l’approfondimento culturali con il solo impegno degli insegnanti mancherebbe degli strumenti necessari. Appartiene al passato e ne ho fatto personale esperienza l’utilizzazione di esperti esterni da parte di un Comune che voglia qualificare il suo intervento con un progetto con la forza di contribuire al rinnovamento formativo. Gli esperti, in collaborazione con gl’insegnanti, seguono il lavoro dall’inizio alla fine di ogni anno scolastico: impostazione di particolari ricerche sul campo, laboratori per attività sperimentali e produttive, periodiche revisioni, cura della adeguatezza della documentazione. Delle due innovazioni si gioverebbero anche gli insegnanti, come un efficace aggiornamento che, in collaborazione con gli esperti, li mette in grado di promuovere ricerche su temi di solito trascurati. È necessaria la coordinazione di un pedagogista di livello universitario che si distingua per il suo lavoro nelle scuole.
C’è abbondanza di materiali visivi e verbali creati per la scuola (ad esempio Rai scuola) ma non sono molti i casi di rapporti con iniziative culturali, cosi che l’ascoltare e guardare abbiano funzione di stimoli.
La collaborazione degli esperti lontani o in un progetto all’interno della politica degli Enti locali alimenta una didattica produttiva che amplia e rinnova le fonti di informazioni per attività che cambiano la scelta dei temi, i modi di insegnare e di appendere. Una vita libera da forzature e da artifici didattici.
È quanto abbiamo cercato di realizzare in Lavorare per progetti, iniziativa promossa dal Comune di Riccione nel 1983 ed estesa a Rimini, a Misano Adriatico e a piccoli centri della Bassa Romagna. Nella innovazione mi fu affidato il compito di metodologo coordinatore, ma io scesi in campo insieme agli insegnanti e agli esperti esterni: una esperienza continuativa dal 1983 al 2005 che mi permise di proporre e di attuare collaborativamente nuovi sviluppi. Dagli inizi fino al 2000 l’esperienza faceva capo a Lorenzo Campioni, dirigente delle Pubblica Istruzione. Quando passò alla Regione, gli successe la dirigente Ester Sabetta che tenne il ruolo fino al 2009. Entrambi i dirigenti, in quanto pedagogisti mi hanno dato contributi essenziali a Lavorare per progetti. Frequenti le riunioni convocate dal dirigente che insieme a me curava la situazione nel suo complesso; vi partecipavano gli esperti, i direttori scolastici, i presidi, personale qualificato dell’Assessorato all’Istruzione. Nelle discussioni venivano sempre collegati i problemi educativi alle misure organizzative e alle tante esigenze di ordine pratico.
Gli esperti esterni avevano la funzione di un elevamento di piano. Ricordo che in una scuola dell’infanzia si manifestò interesse per animali di affezione. Feci notare che i veterinari avrebbero potuto dire cose nuove e interessanti. Furono contattati due giovani veterinari che ebbero grande successo. La cultura che circolava non faceva concessioni a semplificazioni ludiche che falsificano i contenuti culturali. Una siepe invece di essere oggetto di disegni e di fantasiosi racconti già a livello di scuola dell’infanzia rivela una vita complessa che desta meraviglia se esplorata insieme a un naturalista. Qualsiasi tema aveva il supporto della competenza: l’erosione delle coste, l’eutrofizzazione nel mare Adriatico, le tradizioni, i comportamenti. Le necessarie invenzioni didattiche rispettavano sempre la realtà. L’attività per svilupparsi aveva bisogno di tempo. Anche l’educazione artistica era fondata sulla lunga durata dell’attività produttiva su un singolo tema. Molte sezioni della scuola dell’infanzia lavorarono per un anno sui Volti di Jawlensky, ma, ripeto, era decisiva l’invenzione didattica. Fu necessario un incontro attivo degli insegnanti con l’arte contemporanea. A questo provvide la loro partecipazione al laboratorio di Valutazione produttiva da me ideato e condotto già da molti anni con iniziative principalmente a Modena e a Torino.
La competenza, quando è sorretta da interesse per i destinatari e da invenzione didattica, affascina, libera dallo “scolastico” con problemi e strumenti che spingono ad attivarsi con un senso di piacere per nuove realizzazioni. L’ampliarsi di esperienza fuori della scuola è naturale. Cambia il piano delle conoscenze e non solo nelle scuole dell’infanzia si tiene lontana l’invasione ludica. Giocare con l’arte, giocare con la scienza… vere offese alla cultura e a chi vuole apprenderla.
I programmi perdono rigidezza e autoritarismo. Gli esperti non sono invadenti: la loro preoccupazione principale è mettere allievi e insegnanti su strade nuove. Ci sono due miei libri su Lavorare per progetti. Il primo, dal titolo omonimo, è del 1989 (La Nuova Italia, Firenze), il secondo del 1998 dal titolo La scuola nel nuovo sistema formativo (Edizioni Junior, Bergamo).
Fin dall’inizio della mia collaborazione misi in primo piano la documentazione organicamente legata alla ricerca, anzi è la ricerca, ne segue tutto il corso fino al prodotto finale. E così nacque una Scheda che consentiva di seguire lo svolgersi della ricerca, di conoscere gli strumenti adoperati, i risultati ottenuti. Fondamentali gli allegati che chiedevano tutti i dati per dare dall’esterno una valutazione. Lavorai molto a mettere a punto la Scheda che poi assunse una struttura digitale. La Scheda richiede che i ricercatori forniscano dati documentati; una operazione che influiva sulla sostanza stessa della ricerca, in quanto vigile guida del lavoro su un determinato argomento. Non era facile corrispondere al rigore per un efficace rapporto con la Banca Dati. Ma nelle difficoltà si affinano idee e comportamenti.
E qui chiudo, avvalendomi della libertà riconosciuta alla struttura e alla finalità degli appunti.
Francesco De Bartolomeis ha 103 anni, li ha compiuti il 20 gennaio 2021. È nato nel 1918, mentre finiva la prima guerra mondiale, e aveva 21 anni quando scoppiava la seconda. A 26 ha pubblicato – per intercessione di Benedetto Croce – il suo primo saggio, Idealismo e esistenzialismo, attraverso cui faceva già i conti con l’eredità ideologica del fascismo.
De Bartolomeis da molti anni vive a Torino, in una casa non troppo grande vicino alla stazione, il suo studiolo ha una piccola scrivania ricoperta di libri di storia dell’arte, un settore al quale si è dedicato fin dal dopoguerra
La sua è la storia della migliore classe intellettuale che questo paese abbia avuto. Quella che negli anni dell’immediato dopoguerra s’inventa una cultura democratica per una società che ancora non esiste. In contatto con il neonato Cemea, con Margherita Zoebeli e il suo asilo svizzero a Rimini, con il gruppo di Ernesto e Tristano Codignola a Firenze e il progetto di Scuola-città Pestalozzi, con Piero Calamandrei e la rivista Il Ponte, con quello che sarebbe stato il Movimento di cooperazione educativa che si muoveva tra Rimini e Fano, traduce i capisaldi del pensiero pedagogico anglofono e francofono: John Dewey, Roger Cousinet, Jean-Ovide Decroly, Celestin Freinet…
“Non c’era una sperimentazione come la possiamo intendere noi, c’era innovazione”, dice. “Noi ci trovavamo per ragioni pedagogiche, ma quello che era importante era un modo di vivere, di stare insieme”. In quel noi ci sono persone che hanno fatto la storia della pedagogia in Italia: Lamberto Borghi, Bruno Tamagnini, Nora Giacobini, Margherita Zoebeli, Adriano Milani Comparetti, fratello di don Milani.
La domanda che viene da fargli è su quali libri si siano formati. “Io non mi formavo su niente tranne che sull’esperienza”, risponde. “Non sono stato discepolo di nessuno. Mentre tutti cercavano di avere un padre, io non volevo il padre per niente. Certo leggevo tanto, non i pedagogisti perlopiù, ma Freud, Marx, Lévi-Strauss, gli Annales…”.
De Bartolomeis continua ad essere interpellato per consigli, orientamenti, tesi, problemi di rinnovamento anche tecnologico.