14 dicembre 2017
Rinaldo Orsolani – responsabile pedagogico del comune di torino
In un’intervista di qualche tempo fa, Nicholas Negroponte, guru dell’informatica, dell’intelligenza artificiale e del machine learning, profetizzava per un futuro non lontano un mondo in cui “Non ci saranno differenze tra artificiale e naturale”, dove i due aspetti un tempo opposti “saranno indistinguibili” e dove “anche il latte potrà essere prodotto da una stampa 3D e non da una mucca”.
Nel decennale della scomparsa di Walter Ferrarotti, scenari come quelli disegnati da Negroponte ci ricordano quanto attuale sia ancor oggi il suo pensiero pedagogico.
C’è un aspetto, in particolare, su cui il padre dei servizi educativi torinesi tornava spesso e che merita una riflessione non superficiale: si tratta del rapporto fra l’esperienza del mondo e i sistemi simbolico-culturali che in varia misura lo descrivono e rappresentano.
Per parlarne si potrebbe partire da una delle tante possibili citazioni ferrarottiane in materia. Ma si può anche prenderla più alla lontana e citare un pensatore con cui Ferrarotti potrebbe forse avere una qualche sintonia, Henry Bergson.
In un passaggio abbastanza noto della sua ultima opera, Le due fonti della morale e della religione, del 1932, Bergson parla dello sviluppo tecnologico come di un accrescimento – attraverso organi artificiali – del corpo dell’uomo, dei poteri cioè che sono propri degli organi naturali.
“in questo corpo smisuratamente ingrandito nei suoi poteri – dice Bergson – l’anima resta ciò che era: troppo piccola per riempirlo, troppo debole per guidarlo (…) il corpo cresciuto attende un supplemento di anima”[1]
Queste parole – scritte al termine della poderosa ondata di sviluppo tecnologico e industriale che caratterizzò il XIX secolo – mi pare trovino una singolare risonanza in quelle che leggiamo nelle pagine del Manifesto Ambiente Educazione Sviluppo del 1988, all’alba della rivoluzione della rete e del virtuale. Scrive Ferrarotti:
“I bambini ricevono messaggi, o più genericamente stimoli di natura simbolica, in misura enormemente più grande della loro esperienza nel mondo fisico e sociale.
[…] I bambini interpretano questa enorme massa di messaggi sulla base della loro limitatissima esperienza del mondo, riducendone ed alterandone profondamente i significati.[2]
In altre parole il carico crescente di sollecitazioni, impulsi, stimoli di natura simbolica richiede, perché i bambini lo possano padroneggiare, un supplemento di esperienza concreta di vita.
Sia chiaro, Ferrarotti non sottovaluta affatto l’importanza fondamentale dei sistemi simbolici, che anzi definisce “uno strumento meraviglioso, la più grande invenzione dell’uomo” solo che il simbolo – egli dice – “non è in alcun modo sostitutivo delle esperienze stesse”.[3]
La realtà rappresentata, ordinata, interpretata nei costrutti simbolico-culturali non acquista significato se non nella sua relazione con la realtà fisica, concreta, vissuta nel mondo.
Se ora ci chiediamo qual è questa esperienza su cui Ferrarotti tanto insiste, ci accorgiamo che non si tratta, semplicemente, dell’uscire con i bambini in giardino a raccogliere foglie in primavera e in autunno, per vedere la differenza fra il verde e il giallo. L’esperienza di cui qui si parla è qualcosa di non banale e ben più profondo.
Se la scuola offre ai bambini un’esperienza del mondo come semplice “campo di indagine in cui raccogliere dati per gli apprendimenti” opera una riduzione pericolosa, che ha una grave conseguenza: “con ciò – scrive Ferrarotti –si perde il senso del mistero”.[4]
Ecco, queste ultime parole chiariscono bene qual è l’esperienza a cui pensa Ferrarotti: è l’esperienza – non mediata – della vita nella sua infinita e irriducibile ricchezza e varietà, l’esperienza di ciò che nella vita si sottrae ai costrutti culturali, non si esaurisce nei sistemi simbolici, eccede le possibilità del linguaggio. Esattamente quello che intendeva Wittgensein quando diceva che “di ciò di cui non si può parlare occorre tacere”.
Ciò che non può essere detto è appunto il mistero di cui parla Ferrarotti, che sfugge ai sistemi simbolico culturali ma non all’esperienza piena della vita: la forza che fa crescere l’erba nei campi, il moto che abita l’avventura e che ci fa ridere e piangere, sperare e tremare.
P.S. Forse è all’eclisse di questa dimensione che si riferisce il papa Francesco quando dice che “il mondo ha perso la capacità di piangere” e invita a chiedere a Dio “la grazia delle lacrime”.
E forse solo se, come educatori, saremo capaci di preservare e offrire ai bambini la pienezza di questa esperienza, potremo sperare in un domani in cui il mondo sappia ancora piangere (e anche – beninteso – distinguere una mucca da una stampa 3D).
E’ fragile
la catena della memoria
fatta di sole parole.
La vita si ricorda
fatta di azioni
e passioni
profonde.
La vita
disperde i semi
che coprono i deserti
di boschi e prati
e di corolle
che sorridono al cielo.
(Walter Ferrarotti)
[1] Henri Bergson, Le due fonti della morale e della religione. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, (La Scuola Editrice, Brescia 1996)
[2] Manifesto Ambiente Educazione Sviluppo per l’Educazione Ambientale, (Città di Torino, luglio 1988), p. 4
[3] Ibid. p. 5
[4] Ibid.
02 aprile 2018
Il rapporto tra l’esperienza diretta della realtà e i sistemi simbolico-culturali per “rappresentarla” è stato un tema che Walter Ferrarotti ha analizzato nel corso di tutta la sua attività come dirigente dei servizi educativi della Città di Torino. Ha cercato non tanto di contrapporli quanto di tenerli in dialogo in quanto entrambi importanti sia nel percorso di formazione dei bambini che nella vita dell’adulto. La prevaricazione dell’uno sull’altro, sosteneva, potrebbe impoverire sia l’esperienza del bambino che quella dell’adulto, al bambino non possono mancare anche le dimensione del magico e della sorpresa, oltre che del limite e della fatica, come all’adulto non possono mancare le dimensioni del fantastico e del prodigioso, oltre che del gratuito e della generosità, In ambito pedagogico credo sia vitale mantenere tale dialogo in un contesto socio-culturale esposto a continui cambiamenti e che esige di distinguere quanto merita di avere continuità da ciò che è legato al tempo.
Milva Capoia