
Raffaele Mantegazza
Sottrarsi alla categoria dell’utile, attribuire valore ad oggetti apparentemente inutili e trasformarli, difendere spazi e temi diversi dalla quotidianità, sono forme attraverso le quali si esprimono il gioco e il rito e possono quasi sovrapporsi. Che la difesa del gioco e del sacro siano due volti del tentativo di difendere l’uomo?
Compito attuale dell’arte è mettere caos nell’ordine
Theodor Adorno
Da decenni ormai ci si domanda se i bambini siano artisti, se gli artisti siano bambini, quale sia il rapporto corretto (posto che ce ne debba per forza essere uno) tra arte e infanzia. Probabilmente è vero che i bambini non sono artisti perché non possiedono e non padroneggiano la tecnica necessaria per generare o produrre opere d’arte e che gli artisti attingono alle riserve di senso e di sogno della loro infanzia per poter dare vita all’opera d’arte. Ma con questo si è detto troppo poco della triangolazione arte-infanzia-sacro della quale vogliamo ora parlare.
Abbiamo usato due termini: “generare” e “produrre”: crediamo infatti che l’opera d’arte possa nascere come nasce una persona dal grembo di una madre o come viene prodotto un oggetto sul banco di un artigiano. I due codici in azione sono certamente il femminile/materno e il maschile/paterno ma non è affatto scontato che un artista maschio non possa generare un’opera (Vasco Rossi: “le mie canzoni nascono da sole/vengono fuori già con le parole”[1]) e che un’artista donna non sia in grado di produrre un capolavoro; diversa è la posizione nei confronti dell’opera, “tenuta dentro” nel primo caso, affrontata come qualcosa di esterno (ma non per questo di estraneo) nel secondo.
Anche nelle attività con i bambini è possibile alternare queste due posizioni di fronte all’oggetto: un conto è una attività nella quale si chiede ai bambini di attendere, ascoltarsi, ascoltare le proprie emozioni e poi compiere un gesto, altro è un’attività nella quale si parte dal gesto immediato, spontaneo, anche irriflesso per poi vedere cosa è uscito, cosa è accaduto, come lavorare su ciò che si è prodotto. Tra l’altro in questo modo ci si accorge di quanto pensiero generativo vi sia nell’impressionismo e nell’action painting e quanto anche l’opera più covata nel proprio intimo debba poi fare i conti con la durezza del materiale, con la resistenza della realtà.
Perché l’arte media tra il sogno e a realtà, producendo un sogno di secondo livello; e questo aspetto dell’esperienza artistica ci sembra straordinariamente educativo e pedagogico proprio perché mantiene aperta la tensione tra emotivo e cognitivo, tra mondi interiori e realtà esterna che spesso il nostro pensiero dualistico ci porta a separare, scegliendo uno soli tra i due poli (il sognatore che non sa far nulla o il cinico calcolatore produttivo ma incapace di sognare: “Ragioniere cresceva molto algebrico/Poeta aveva lo sguardo assente/parlava tanto ma non rendeva niente”[2]).
Per quanto riguarda il rapporto tra arte e sacro ci serviamo delle riflessioni benjaminiane sulla perdita dell’aura e sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica[3]: Benjamin parla di “aura” riferendosi all’unicità dell’opera, e all’irripetibilità dell’incontro tra opera e fruitore; una unicità che la possibilità di riproduzione introdotta dalla fotografia ha contribuito a distruggere (pensiamo all’attualità di questo tema nell’epoca del web).
È recuperabile oggi questo aspetto di unicità? Lo è proprio a partire dai bambini, per i quali spesso il primo incontro con l’arte avviene proprio nella scuola dell’infanzia; la domanda “ma cosa capisce un bambino di un’opera di Monet?” è altrettanto sciocca della affermazione “Lo sa fare anche il mio nipotino di sei anni” davanti a un quadro di Lucio Fontana. Nell’esporre i bambini e le bambine all’arte non c’è in questione né un “capire” né un “saper fare” ma un lasciarsi incantare. L’arte è sacra perché ha bisogno di spazi e tempi di incantamento, anzi non ci vergogniamo di usare la parola “fede”. L’arte comunica a chi crede in essa, a chi si lascia trascinare nei suoi vortici, a chi non pone all’opera domande di verità, almeno non di quella scientifica. È vero che Guernica è anche una tela con un po’ di vernice sopra: ma chi vede solo questo aspetto si risparmi i soldi per il biglietti. I bambini davanti all’opera d’arte entrano in un mondo nel quale la realtà ha altre regole: e se la donna nel quadro di Braque ha tre occhi (“è sbagliata, gli occhi sono due”) o se il trompe-l’oeil inganna la vista, siamo proprio nell’ambito di quei “miei non falsi errori” che Dante scopre nel Purgatorio come essenza del rapporto con l’opera. Errori, perché l’Arca rappresentata non è “reale” ma “non falsi” perché quell’errare è ‘unico modo di approcciarsi all’arte.
Lasciamo dunque i bambini errare tra le opere, nel duplice senso di sottoporsi all’effetto di incantamento dell’arte ma anche di smarrirsi, di perdersi tra le tele di un museo o di una installazione.
E lasciamo che l’arte aiuti i bambini e le bambine a “mettere caos nell’ordine”; non nel senso di non riordinare i giochi o la cameretta, per carità, ma nel senso che l’attuale enfasi sull’ordine, la catalogazione di ogni gesto, la classificazione di ogni prodotto che rischia di trasformare la scuola in una specie di cartella clinica vivente deve essere sfidata proprio a partire da esperienze che sfuggono, almeno in parte, alla classificazione. Poi verranno i generi, le tecniche, i manuali di storia dell’arte, essenziali per la comprensione dell’opera, ma per l’incontro con l’opera è necessaria la dialettica tra lo sguardo ingenuo del bambino e quello dell’adulto che lentamente inizia a distinguere tra pittura e scultura, tra acquarello e tempera, tra figura e sfondo.
L’unicità e la sacralità dell’arte consiste nel provvedere momenti unici per la sua fruizione: proponiamo pochi percorsi, poche visite al museo, pochi quadri, sculture, installazioni, e un lavoro che parta dallo stupore e inizi a sedimentarlo facendo provare le tecniche prima ancora di denominarle come tali.
E soprattutto proponiamo un lavoro fisico, un approccio corporeo con l’opera; che non significa toccare la Gioconda con le mani sporche ma liberarsi dalla iper-mediazione degli schermi per cui non solo chi si colloca di fronte alle Piramidi le ha già viste mille volte su uno schermo da tutte le angolazioni possibili ma addirittura passa un’ora a vederle filtrate da uno schermo per realizzare un filmato che nessuno mai vedrà.
L’arte è già mediazione, non ha bisogno di ulteriori mediazioni ma di un approccio fisico e corporeo, un approccio immediato e diretto. Ovviamente la penetrazione dell’esperienza artistica nelle coscienze delle persone, soprattutto dei bambini, necessita di una quantità enorme di tempo; un tempo di otium, sottratto ad ogni tentazione produttiva e osiamo dire almeno in parte e almeno all’inizio sottratto anche ad ogni tentazione didattica. Proviamo ad esporre i bambini all’opera d’arte e osserviamoli senza griglie di osservazione e senza strumenti da mastery-learning. Abbiamo fede nell’opera d’arte e nella sua sacralità, e proviamo a metterci alle spalle di un bambino che osserva un po’ stupito Mondrian o Michelangelo, “per vedere di nascosto l’effetto che fa”[4].
[1] Vasco Rossi, Una canzone per te.
[2] Roberto Vecchioni, Parabola.
[3] Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Torino, Einaudi, 1979.
[4] Enzo Jannacci, Vengo anch’io? No, tu no.