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Il sacro e la preghiera

Raffaele Mantegazza

Professore associato Pedagogia generale e sociale


Portatemi Dio
Lo voglio vedere
Portatemi Dio
Gli devo parlare
Gli voglio raccontare di una vita che ho vissuto e che non ho capito
A cosa è servito?
Che cosa è cambiato?
In fondo cosa ho guadagnato?
Adesso voglio esser pagato (altro che giudicato)

Vasco Rossi, “Portatemi Dio”

 

 

Con questo articolo entriamo in un terreno decisamente minato, o comunque non facile da trattare. Anzitutto perché, a differenza dei precedenti, si tratta di un argomento specificatamente religioso. Qui non stiamo più parlando di intendere gesti e atti della vita quotidiana sotto la rubrica del sacro, ma di considerare un’azione che al di fuori della sfera del religioso sembra non avere senso.

Inoltre siamo abituati a vedere la preghiera come un fatto personale, intimo, un momento di ascolto e di dialogo con Dio che non richiede testimoni o altri interlocutori, al punto che in una divertente striscia disegnata da Charles Schulz, Charlie Brown sta pregando nella sua stanza e dice alla sorella Sally di fare lo stesso nella propria camera: Sally obietta “Ma se chiamo adesso trovo occupato!”; dimentichiamo però che la preghiera è anche un fatto sociale, crea la comunità, definisce l’identità gruppale dei fedeli di una determinata religione. Come allora trattare questo tema da un punto di vista laico?

Anzitutto, considerando la sua presenza. È davvero sconcertante come il laicismo possa fingere di ignorare, in ambito educativo, elementi esistenziali che non solo sono presenti ma permeano di sé secoli di cultura; ignorare la preghiera come fatto individuale e sociale nella scuola potrebbe anche portarci a saltare il canto XXXIII del Paradiso, che in fin dei conti è per gran parte una straordinaria preghiera. Crediamo invece che tutte le manifestazioni dello spirito debbano essere prese in considerazione all’interno degli ambiti educativi, considerandone la portata pedagogica e antropologica. Dunque ovviamente non si tratta di “insegnare a pregare” ma di capire cosa la preghiera smuove nelle persone, quale esperienza essa mantiene viva e come possiamo utilizzare e trattare educativamente le dimensioni esistenziali che essa fa proprie e trasforma.

Anzitutto la preghiera può costituire un atto di lode; può rimandare dunque allo stupore e alla meraviglia di fronte alla natura e all’immensità dell’universo, come nel seguente inno vedico “Serena e fragrante, gentile al tatto/possa la Terra, gonfia di latte, con il seno traboccante/concedermi la sua benedizione insieme al suo latte”; un universo che deve essere preservato dall’uomo, custodito, amato e che non dovrà subire alcun male. Usando un termine attuale potremmo dire che la preghiera di lode è una preghiera di tipo “ecologico”, come dimostra un altro inno sempre tratto dai veda:

“Ie vacche sono giunte e ci hanno portato buona fortuna/Nelle nostre stalle, soddisfatte esse possano rimanere/Possano esse generare per noi vitelli dai molti colori/Donando latte per Indra ogni giorno!/(…)/Queste vacche non saranno perdute, nessun predone farà loro del male/Nessun nemico oserà traviarle”.

La preghiera è poi anche dialogo; può essere un colloquio tra un uomo e molte divinità, in un universo politeista o animistico, fino al punto di elevare una preghiera al Dio sconosciuto, che potrebbe essere stato inavvertitamente offeso da un comportamento umano: “L’ira del mio dio verso di me si posi/Il dio, che non conosco, si calmi verso di me/La dea, che non conosco, si calmi verso di me/Il dio, che conosco o che non conosco, si calmi verso di me/La dea, che conosco o che non conosco, si calmi verso di me/(…)/Ciò che per il mio dio è abominevole io l’ho mangiato inavvertitamente/Ciò che per la mia dea è abominevole io l’ho mangiato inavvertitamente” In questo caso è molto interessante l’atteggiamento di attenzione nei confronti del proprio comportamento quotidiano, la responsabilizzazione rispetto ai propri atti che potrebbero offendere un dio, o anche un altro uomo o la natura.

Il dialogo può avvenire anche tra un uomo e il suo unico Dio, come nelle religioni monoteistiche: in questo caso la preghiera è prima di tutto creazione di uno spazio di silenzio per l’ascolto di una parola “altra”. Questo tratto è molto interessante nell’educazione laica al dialogo. Oggi dialogare significa prima di tutto parlare, “dire la propria opinione”, ma è molto più difficile porsi in un atteggiamento di ascolto e accoglienza della parola dell’altro. La preghiera accoglie prima di tutto la parola di un Altro lontano, ma che proprio grazie al silenzio che riusciamo a creare diventa molto vicino.

La preghiera è anche equilibrio tra tradizione e innovazione: occorre conoscere e imparare le preghiere (e soprattutto capirle nella loro dimensione emotiva e cognitiva) ma è anche possibile inventarne di proprie, provare a creare una fora innovativa di dialogo con il divino.

Per questo la preghiera non è solo parola, e questo la rende uno straordinario elemento pedagogico. Si prega con il corpo e con la sua posizione nello spazio: inginocchiato, sdraiato, prostrato, fermo o in movimento, il corpo accompagna la preghiera e le detta il suo ritmo, o se ne lascia trasportare. La pratica mistica del dikhr nel mondo islamico sciita come certe pratiche di recitazione dei mantra prevedono che le parole ripetute continuamente prendano possesso del corpo dell’orante, trascinandolo con sé in una specie di trance ipnotica; e se pregare significa provar a tuffarsi nell’infinito della divinità è ovvio che la trance stessa sia una forma di preghiera: l’annullamento di sé, il dimenticarsi di dove si è e di chi si è, lo sciogliersi nella divinità (è il senso del verbo – slm da cui deriva sia Islam sia Musulmano). Esistono infine preghiere mute: anche il silenzio può essere una modalità di comunicazione con Dio, così come la musica, la danza, la pittura, la poesia, il gioco. Se Dio sceglie di parlare con l’uomo e la donna parla con loro nella globalità dei loro linguaggi.

La preghiera infine non è richiesta di favori o di beni, non si piega alla logica commerciale non si prega per avere, ma per essere, come dimostra il deportato compagno di Primo Levi che ringrazia Dio di non essere stato colpito dai bombardamenti, suscitando il commento di Levi: “Se fossi Dio sputerei a terra la preghiera di Kuhn”.[1]

Ma i bambini sanno pregare? La preghiera costituisce ancora uno sfondo quotidiano per le nostre azioni come accade per esempio per il popolo ebraico? Forse è vero che “la lettura del giornale ha sostituito la preghiera del mattino” come recita una frase erroneamente attribuita a Hegel; forse è vero che la desacralizzazione e il disincantamento del mondo relega la preghiera tra le comunicazioni “inefficaci” o “poco economiche”. Ma non sono tali anche le frasi “Ti amo”, “Che bello!”, “Aiuto!”? La parola della preghiera, parola ascoltata prima ancora che pronunciata, si colloca per fortuna in un terreno che è ben altro da quello della contabilità delle parole e dei loro risultati. Per questo motivo un confronto interculturale che insegni a conoscere e a rispettare le preghiere potrebbe essere il primo passo per un’educazione alla pace e al dialogo.

[1] Primo Levi, Se questo è un uomo, in Opere, Torino, Einaudi, 1997, vol. I pag. 126.

 

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