Login
Registrati
[aps-social id="1"]

Il sacro e il gioco

Raffaele Mantegazza

Professore associato Pedagogia generale e sociale


Sottrarsi alla categoria dell’utile, attribuire valore ad oggetti apparentemente inutili e trasformarli, difendere spazi e temi diversi dalla quotidianità, sono forme attraverso le quali si esprimono il gioco e il rito e possono quasi sovrapporsi. Che la difesa del gioco e del sacro siano due volti del tentativo di difendere l’uomo?

 

 

L’uomo gioca solo quando è uomo
nel pieno significato della parola
ed è completamente uomo
solo quando gioca

Friedrich Schiller

 

 

La Convenzione Internazionale dei diritti dell’infanzia prevede il diritto al gioco (art. 31) tra i diritti inalienabili del bambino e della bambina. Si tratta di un fatto di straordinaria importanza perché il documento delle Nazioni Unite riconosce nel gioco un bisogno primario del bambino esattamente come il cibo, la casa, il nome, la famiglia. Il gioco non è un optional per la crescita dei bambini ma una attività strettamente legata al loro benessere e al loro status di infanti.

Uno degli elementi di maggiore tristezza nell’osservazione dei bambini e delle bambine di oggi è la loro difficoltà a giocare in modo spontaneo, non organizzato o addirittura non mediato da uno schermo. Il diritto al gioco libero e spontaneo viene aggredito continuamente da una organizzazione sociale (e urbanistica) che toglie ed elimina gli spazi di gioco, da una organizzazione dei tempi che ne comprime la temporalità e soprattutto dal fatto che il gioco è sempre più utilizzato come strumento piuttosto che essere considerato come fine dell’attività infantile.

Tra il sacro e il gioco vi sono innumerevoli punti di contatto, al punto che le forme del gioco e le forme del rito possono quasi essere sovrapposte. È certo che alcune attività di gioco fossero in origine gesti sacri, riti o azioni dotati di senso in un orizzonte religioso. Forse è anche vero il contrario, ovvero che alcuni gesti rituali in origine fossero fini a se stessi, puro gioco, libera espressione della creatività.

Il gioco è una perdita di tempo: giocare significa fare qualcosa di inutile, il gioco è fine a se stesso, come il bello per Kant; se giochiamo per un motivo altro dal giocare, allora non stiamo davvero giocando. In questo il gioco è simile per esempio alla preghiera; non si prega per qualcosa, ma si prega per restare in contatto con Dio, e in questo senso la preghiera più pura è la lode. Il rapporto con Dio trova in se stesso il proprio fine, non è strumento per qualcosa di differente; i mistici l’hanno capito e sperimentato esistenzialmente. Il gioco dunque, come il sacro, si sottrae alla gerarchia dell’utile e dell’inutile, ribalta i valori, si disinteressa di ciò che il mondo adulto ritiene prezioso. Giocare significa liberare gli oggetti sia dal valore di scambio che dal valore d’uso.

Come il sacro, il gioco riscatta gli oggetti apparentemente inutili e conferisce loro un nuovo valore: “I bambini (…) si sentono terribilmente attratti dal residuo, che si tratti di quello che si forma nel lavoro del muratore, del giardiniere, del falegname, del sarto o di chiunque altro. In questi prodotti di scarto essi riconoscono il volto che il mondo delle cose rivolge a loro e soltanto a loro. Con essi non imitano tanto le opere degli adulti, quanto piuttosto mettono in rapporto tra loro questi materiali di scarto in modi imprevedibili. In questo modo i bambini si formano il loro mondo di cose, un piccolo mondo nel grande.”[1]. Allo stesso modo, gli oggetti del rito sono sempre cose semplici e quotidiane: acqua, riso, pane, rami foglie. Il rito sacro non ha bisogno di oggetti prodotti in modo specifico per esso, ma riscatta gli oggetti dalla consuetudine, li debanalizza; come il gioco, il rito sacro ci offre un nuovo sguardo sugli oggetti, uno sguardo che non ci abbandonerà più.

Possiamo definire la creatività infantile (in questo simile a quella artistica non perché i bambini siano artisti ma perché gli artisti riscoprono una sensibilità infantile e la rendono arte) come l’utilizzo dell’oggetto al di là del perimetro di possibilità che l’oggetto stesso disegna. La scopa è fatta per pulire ma il gioco se ne disinteressa e la rende cavallo; per questo motivo i giochi per computer o per piattaforme, con la loro quasi spasmodica ricerca di una assoluta somiglianza con la realtà, sono difficilmente definibili “giochi” nel vero senso del termine. Quale scarto tra il reale e il fantastico permette Fifa 2017? Tra l’altro in questa operazione di trascendenza dell’oggetto il gioco è preciso e severo nell’analisi dell’oggetto stesso e delle sue forme: per diventare astronave una bottiglia dovrà avere alcune caratteristiche, e viceversa la forma della bottiglia suggerirà con precisione il tipo di astronave nel quale essa si trasformerà. La stessa cosa vale per gli oggetti del sacro: non un bastone qualunque ma quel determinato bastone servirà per interrogare il mana dell’albero; la forma della ciotola è essenziale perché possa contenere le offerte da bruciare sull’altare.

La forza del gioco consiste nella trasformazione degli oggetti: il suo campo di forza li modifica e li sottopone a leggi differenti da quelle usuali. Non sono solamente gli oggetti dunque a cambiare identità ma anche e soprattutto le loro relazioni; tipico è l’esempio rodariano del “binomio fantastico”, che nel campo artistico porta poi all’ombrello e la macchina da cucire che condividono lo spazio sulla tela. Anche lo spazio del sacro cambia le relazioni tra gli oggetti, e tra oggetti e soggetti; passare attraverso una porta, versare vino in un calice, amalgamare sostanze naturali in un mortaio: se questi gesti sono sacri e rituali le relazioni tra gli oggetti coinvolti sono differenti da quelle che sono presenti quando invece ci si riferisce ad azioni della quotidianità

Ma tutto ciò non può accadere ovunque e in qualunque momento: ovvero, si può giocare ovunque e i qualunque momento solo se quello spazio e quel tempo diventano altri da se stessi – Come il sacro, il gioco ha bisogno di extraterritorialità, di uno spazio e un tempo altri da quelli della quotidianità. L’immersione in questo mondo di soglia e di confine deve essere compiuta con cautela e al tempo stesso questo mondo fragile deve essere protetto dall’invasione del mondo reale: per questo il bambino dice “io ero il re” e non “io sono il re”: “l’imperfetto è il segnale che l’attesa è finita (…) il verbo stabilisce la distanza tra il mondo perso per sè, com’è, e il mondo trasformato in simboli per il gioco”[2].

Come gestire il gioco in una scuola che sembra sempre più oberata da richieste di accelerare, di accumulare esperienze su esperienze, di macinare progetti su progetti?

Anzitutto occorre recuperare e difendere il senso della lentezza senza il quale il gioco letteralmente muore. Occorre tempo per giocare, tempo per prepararsi al gioco, tempo per uscire dal perimetro del gioco. Spesso si ritiene opportuno, immediatamente dopo il gioco, mettere in cerchio i bambini per capire “cosa abbiamo imparato giocando”. Crediamo che si tratti di una attività che può essere utile solamente se è trascorso un tempo considerevole dal momento del gioco; al limite può essere svolto anche il giorno dopo, perché il rischio è di far passare l’idea che il gioco non è stato fine a se stesso ma un pretesto per “altro”. È del tutto ovvio che il gioco è anche una attività didattica, ma lo è solamente se resta gioco ovvero se nel suo perimetro (il quale insistiamo, prevede il pre-gioco e il post-gioco) esso è messo al riparo da qualunque invasione da parte di intenzionalità adulte ed extra-ludiche.

È un caso che una società sempre più desacralizzata anche il gioco sembri agonizzare? Che rapporto c’è tra la riduzione delle religioni a raccolte di precetti etici e la riduzione del gioco a strumento foss’anche didattico? Difendere il gioco e difendere il sacro non potrebbero essere due volti del tentativo necessario di difendere l’umano?

[1] W. Beniamin, Orbis Pictus, Milano, Emme, 1981, pag. 43

[2] G. Rodari, Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Torino, Einaudi, 1973, pag. 160

Lascia un commento