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Il magico gioco con la corda

Nell’ultimo articolo su Magazine ho parlato dei diversi modi di usare la corda nei giochi rivolti a bambini del ciclo “zero-sei” e di età superiore, senza accennare a quanto può essere registrato già come un “agire giocoso”, verso il quarto mese e mezzo del primo anno di vita, attraverso l’uso dello stesso identico attrezzo, come Jean Piaget (1996-1980) e Bärbel Elissabeth Inhelder (1913-1997) hanno individuato, riportando tale dato sul testo “La psycologie de l’enfant” (Presses Universitaires de Fance, Paris 1966).

Infatti, questi due grandi esponenti della psicologia contemporanea hanno scritto dell’attrazione che un bambino di tale età prova di fronte ad un cordone appeso al tetto della sua culla, e come lo muova provocando lo scuotimento di tutti i giocattoli sospesi su di lui. Non solo: “Subito ripete una serie di volte il gesto dai risultati inaspettati, ciò che costituisce una ‘reazione circolare’, senza scopo preliminare differenziato dai mezzi utilizzati”. Poi è sufficiente appendere un nuovo giocattolo perché il bambino cerchi quel cordone e questo viene a rappresentare “un inizio di differenziazione fra il fine e il mezzo. Nei giorni successivi, quando si farà dondolare un oggetto sospeso ad un palo, a 2 metri dalla culla, ecc., e perfino allorché si farà udir qualche suono inatteso e meccanico dietro un paravento, e quando questi spettacoli o questa musica termineranno, il bambino cercherà e tirerà nuovamente il cordone magico: ci troviamo dunque stavolta alla soglia dell’intelligenza, per quanto strana sia questa causalità senza contatto spaziale”.

La corda o il cordone diventano dunque ben presto strumenti di gioco e di relativa crescita, attraverso i quali il bambino viene a bussare alla porta dell’intelligenza, dapprima rimanendo sulla soglia di essa, per poi entrare, con tutti gli altri giochi propri dell’asse della prima infanzia, nella progressiva costruzione ed elaborazione del proprio sé.

 

I giochi con le mani alla scoperta del corpo

Tali giochi infantili, nel loro divenire storico, costituiscono un insieme pedagogico da esplorare con attenzione e meraviglia. Fra l’altro, brani di quell’universo ludico li possiamo rintracciare in ogni folklore territoriale, come personalmente sono venuto a verificare lungo gli anni sia nel Cremonese e sia nel Bolognese, luoghi nei quali ho raccolto una gamma variegata di proposte di pedagogia familiare depositatesi nella memoria collettiva a guisa di sorprendente eredità.

Questo ricco palinsesto comprende le formule per rendere agili le dita, così come quelle per sciogliere la pronuncia delle parole difficili, senza dimenticare gli indovinelli per aguzzare l’ingegno, e le fiabe che risvegliano la fantasia, e tutta una serie di giochi che agevolano lo sviluppo fisico e mentale dei bambini.

Nell’interdipendenza fra crescita mentale e sviluppo fisico, gli adulti illetterati ma perspicaci ed intelligenti della tradizione popolare, hanno sempre tenuto in debita considerazione pure le modalità ludiche per far scoprire al bambino la funzionalità degli arti del corpo, a partire dalle mani, in attesa che l’infante stesso fosse in grado di distinguere la mano “destra” da quella “sinistra”, e fare propri i processi cognitivi relativi alla lateralizzazione.

Come scrivono lo stesso Piaget e la Inhelder, sempre su “La psycologie de l’enfant”, ciò avviene verso i 4-5 anni, per quanto il bambino distingua le mani “forse dal livello dell’azione; ma sapendo utilizzare queste nozioni sul suo corpo, impiegherà ancora due o tre anni a capire che un albero visto sulla destra del cammino all’andata si trova sulla sinistra al ritorno”.

A tale proposito, mi sovviene che sul mio primo volumetto de “I gióoch de na vòolta”, ho riportato una filastrocca in bolognese rustico che mi canticchiava mia nonna Giuseppina, quando da bambino mi prendeva la mano “destra” per giocare, definendola “la manéine màate (la manina matta)”. Nella storiella cantilenata la nonna diceva che la piccola mano “destra” ha la forza di ribellarsi al suo padrone. Infatti:

La manéine màate
la péce chi la càate…
la càate a ‘l so padràun…
dàagh un scupasàun

(la manina matta/ picchia chi trova…/trova il suo padrone…/ dagli uno scapaccione)

Analoga natura ha pure la cosiddetta cantilena della ‘mano morta’, che ho trovato tradotta nel dialetto di Trigolo (CR), su un libro scritto da Elisa Santini, la quale scrive: “Si prende la mano del bambino, che deve tenerla ‘morta’, e si canticchia la filastrocca”. Alla fine, quando il bimbo stesso meno se l’aspetta, la ‘mano morta’ etero-diretta si ribella e ‘picchia’ leggermente il suo nasino.

Màan, màn mòorta,
pìca ‘n sö la pòorta,
pìca ‘n sö ‘l purtén,
màan, màan, mén!

(… e pàchete sul nasino)

Mano, mano morta,/ picchia sulla porta,/ picchia sul portino,/ mano, mano, mén! (… e una piccola pacca sul nasino).

 

Pure Sergio Torresani, critico teatrale di Casalbuttano (CR), in Filastrocche. Preghiere. Proverbi Cremonesi, fa riferimento a questo gioco e dice che bastano due versi a captare la buona fede del bambino. Gli si fa tenere “la mano morta” e la si guida – così inerte – a battere la sua stessa guancia, dicendo:

Màan màan mòorta
pìca ‘n sö la gòolta.

(Mano mano morta/ picchia sulla guancia)

 

Il bambino viene indotto a ridere, ma può anche reagire prontamente e restituire lo schiaffo ricevuto.

La Salvini ci ricorda pure un altro gioco con le mani, che ha una dimensione suggestiva, perché inserisce nel quadro d’incanto la presenza di una vespa dispettosa. Già la definizione del gioco è chiarificatrice: “zzzt… pàchete”. C’è il sentire di una vespa che s’avvicina ed una subitanea repentina risposta.

E così il gioco s’intavola con il bambino che tende le mani verso l’adulto, con le palme disposte verso il basso. L’adulto, da parte sua, fa il verso del ronzio della vespa nel mentre pone le sue mani aperte sotto quelle del bimbo, ‘sfregolando’ – scrive la Salvini – le punte delle dita sotto le piccole palme.

Il bambino è in allerta perché sa, dopo le prime esperienze in cui è caduto facilmente nel tranello, che lo scopo dell’adulto è quello di volerlo colpire togliendo le proprie mani all’improvviso da sotto. Infatti l’adulto, dopo alcuni attimi d’attesa, rovescia le palme dando un colpetto alle dita poste sopra. Non sempre però l’operazione riesce. A volte è il bambino che riesce ad essere più svelto dell’adulto e ride di gusto appena constata che la persona adulta non è riuscita nel suo intento.

Questa situazione l’ho verificata moltissime volte con i miei cinque nipoti. Per i bambini è stata una grande vittoria quella di non farsi colpire le manine che svelte si sono ritratte. Ed una grande soddisfazione per ‘avermela fatta’.

Con la nipote Irene ho pure sperimentato una variante di zzzt… pàchete.

Eravamo seduti ad un tavolino presso il bar della piscina comunale di Cremona, in attesa della conclusione dell’allenamento a palla nuoto del fratello Jacopo. Decidemmo subito, con un pari e dispari, chi avrebbe dovuto, nel gioco delle mani, far la parte dell’attaccante e chi quella del difensore. Così tanto per iniziare. Dopo i ruoli si sarebbero alternati. Ci accordammo per una partita da concludersi ai dieci punti. Avevamo le mani con le palme all’ingiù, appoggiate da una parte e l’altra del tavolino. L’attaccante, il sottoscritto, aveva il compito di tentare di colpire il dorso delle mani di Irene, puntando sulla sua distrazione. L’unica tattica plausibile da parte mia era quella di parlare delle cose più astruse, affinché lei perdesse per un attimo la concentrazione difensiva. Devo dire la verità: qualche volta ci sono riuscito, qualche altra volta no. Ed è stato questo il momento in cui il ruolo di attaccante passò alla nipotina, che ci prese gusto. Non so come e perché, ma la partita finì dieci a quattro a favore suo. Irene si divertì molto. E non manca occasione di ricordarmi sempre questa sua vittoria. Ma, prima o poi, le chiederò la rivincita…

 

Ero in bottega

Se c’è una cosa che mi ha sempre meravigliato, è stato quando ho osservato mia moglie Rosella giocare con le mani dei nipoti.

È la velocità che mi ha impressionato, con la quale lei e i bambini muovevano le palme. Le incrociavano a vicenda, con un ritmo incalzante e cantando nel contempo una filastrocca musicale, lasciata in eredità forse da qualche bisavola del tempo che fu. Le ho sempre viste partire rapide, battendo subito le mani sulla vocale – e – del verbo “ero”, all’inizio della canzoncina che qui di seguito presento.

Quando pronunciavano la sillaba finale del verbo, ossia “ro”, le loro mani aperte si erano già congiunte, si erano già baciate in un reciproco “quadruplo cinque”, come nel saluto classico dei bambini. E subito dopo riportavano le mani verso di sé, unendole come se fossero in procinto di dire una preghiera. E poi le riaprivano di nuovo, allargando le braccia velocemente, per unire le mani dell’una in un altro incontro con le mani aperte dell’altra, con l’avvertenza che la mano “destra” dell’una andasse ad impattare la mano “sinistra” dell’altra. E poi le due mani dell’una impattavano insieme le due mani dell’altro. E così via per tutto il tempo dell’accompagnamento musicale del loro duetto frenetico. Cantavano insieme e creavano un ritmo di comune consenso, atto a facilitare la realizzazione compiuta del passatempo.

All’inizio, quando i nipoti erano in tenera età, il gioco era diverso, perché si interrompeva spesso nella ricerca non semplice dell’opportuno coordinamento delle braccia e delle mani. La filastrocca che accompagnava il gioco era la seguente:

Ero in bottega, tìch e tàch,
che lavoravo, tìch e tàch,
e non pensavo, tìch e tàch,
alle prigioni, tìch e tàch.

Venne una guardia, tìch e tàch
di polizia, tìch e tàch;
mi portò via, tìch e tàch,
alle prigioni, tìch e tàch.

Ma io, furbone, tìch e tàch,
presi un bastone, tìch e tàch
e glielo ruppi, tìch e tàch
sul suo ‘crappone’, tìch e tàch.

Per chi avesse dei dubbi, crappone sta per testone, capoccione, dal termine cremonese cràpa, testa.

 

 

 

Zìin Zèta

Un’altra filastrocca in uso nei cortili d’un tempo, passata poi negli asili d’infanzia d’una volta, era quella che iniziava con le parole zìin zèta, le quali davano il senso del rumore di una sega mossa avanti e indietro. La filastrocca veniva recitata da due bambini che incrociavano le braccia. Poi, prendendosi le mani, tiravano le braccia vicendevolmente verso di sé secondo il ritmo della cantilena che a Casalbuttano ed Olmeneta, borghi del Cremonese, suonava così:

Zìin zèta, furnazèta,
mèt na màan ‘nde la casèta,
mèt na màan ‘n de ‘l casetìin,
tìira fóora ‘l sureghìin.

(Zìin Zèta,/ fornacetta,/ metti la mano nella cassetta,/ metti una mano nella cassetta,/ metti la mano nel cassettino,/ tira fuori il topolino.)

 

A questo punto confesso di non ricordarmi più se ho giocato con le dita con i miei due figli, Marco e Mirko, quando erano bambini. Quello che ricordo bene invece è di averle usate spesso con i nipoti. E per essere preciso devo aggiungere di non aver usato le dita per l’insegnamento della numerazione fino a dieci, ma di averlo fatto in una cornice altrettanto importante e delicata, vale a dire nel momento del pasto e della improvvisa volontà del cucciolo d’uomo di rifiutarsi di aprire la bocca. Che fare, allora?

Nella fase preliminare di questo scoramento, in casa mia sono sempre state impiegate con scarsi risultati esortazioni melliflue, quali: “Su, da bravo/a, apri la bocchina bella”, oppure “La pappa è tanto buona. Su, àam, mangia!”.

Constata, però, la conferma della chiusura totale del bimbo/a alla sollecitazione masticatoria, si passava immediatamente ad un rapido confronto fra noi adulti, ripetendo una domanda divenuta rituale: “Adesso cosa facciamo?”

Ed è a questo punto che la voce registica di mia moglie Rosella non ha mai mancato di spronarmi ad agire in modo spiccio: “Bisogna distrarlo/a, non hai ancora capito? Dài, muoviti fai qualcosa! Non star lì impalato con quegli occhi da tonno”.

Ed è stato da lì, proprio da lì, che è iniziata la mia carriera di ‘nonno-animatore’, ed in tale nuova veste mi sono venute comode le mani e le dita giocoliere. Giocoliere perché le mani e le dita avevano la proprietà incredibile di trasformarsi persino in aeroplani. Aeroplani che si alzavano rapidamente a perpendicolo di fronte agli occhi sorpresi del bimbo meravigliato. Aeroplani che sfrecciavano sulla testa dell’infante, per poi scendere in picchiata con tanto di rombo annesso. Meglio ancora se nel finale di partita si prevedeva uno scoppio fragoroso e dirimente con l’assegnazione inesorabile della vittoria al nipote.

Mi ricordo, infatti, il divertimento di Jacopo nell’abbattere i miei aerei appena si avvicinavano al suo viso. Forse gli era rimasta una traccia cromosomica del bisnonno paracadutista William, già addetto alla contraerea di Torino. Nel caso di Jacopo, però, gli strumenti offensivi a disposizione non erano quelli antiquati della seconda guerra mondiale, ma piuttosto quelli delle guerre stellari, con tanto di super-raggi fotonici, di fronte ai quali gli aerei individuabili nelle mie mani non potevano proprio far nulla, se non cadere giù a spirale in un tonfo definitivo.

Ma tutto faceva brodo alla strategia del ‘nonno animatore’, abbinata ad una tattica finalizzata alla creazione del sorriso sulla bocca del nipote, per far sì che si potessero aprire le porte stagne di quelle labbra verso il cibo rimasto in attesa d’essere accolto. Bisognava far venir meno le occlusioni poste di fronte al cucchiaio carico di minestra a mezz’aria, tenuto in gioco dalla mano non usata durante il volo bellico. Infatti, il cucchiaio o la forchetta per tutta la battaglia stavano sospesi quasi fossero elicotteri, in attesa di scendere ed entrare nell’hangar della bocca finalmente dischiusa. Al termine di queste sequenze, la regista del film domestico, mia moglie Rosella, era molto contenta. Ed io pure con lei. Ma il teatro con le dita non si è limitato alle battaglie sui cieli metaforici, posti al di sopra del seggiolone dei bimbi. Infatti, ai fini della strategia della “distrazione mirata” è sempre stata molto utile pure la proposta scenica degli omini piccini piccini, con l’uso dell’indice e del medio messi in movimento veloce sul tavolo per giungere poi svelti nella risalita fin sopra il bavaglio dei nipotini. Si doveva dare l’impressione di aver di fronte due piccole gambe in cammino. Qui è stato anche possibile inserire una drammatizzazione alla buona, con l’uso di toni di voce differenziati per donare la virtù della parola agli stessi omini, attraverso monologhi o dialoghi creati all’istante, in una dimensione che rimandava ad una sorta di gioco dei burattini.

In questo caso i burattini erano in carne ed ossa, prolungamenti sul tavolo del corpo del nonno ludens.

Di fronte agli occhi incuriositi del bambino, nel mentre l’omino o gli omini si affrettavano in rapidi percorsi in lungo e in largo sul tavolo della cucina, le dita prendevano coscienza di sé e si mettevano ad esprimere dei commenti in attesa che il piccolo cedesse nella lotta vera, quella lasciata per il momento da parte, in riferimento all’accoglimento del cibo. Le dita avevano buon gioco, perché per i bambini piccoli è naturale che tutto si animi nella cornice di una grande magia.

Infatti, nel loro modo d’interpretare il mondo, ogni cosa è provvista di un’anima, tutto è vita, tutto è agitato dall’alito di una forza misteriosa. E quindi è naturale che ogni cosa possa avere una voce. Era ovvio di conseguenza che anche le mie dita potessero parlare ed essere ascoltate. E sebbene il modo del nonno di fare il ventriloquo fosse grezzo, si veniva a creare ugualmente una dimensione d’incanto, sufficiente a determinare la voluta distrazione, il distoglimento dalla difesa dell’assedio, e la fine del respingimento di quell’ariete a mezz’aria costituito dal cucchiaio o dalla forchetta.

La distrazione ottenuta dava finalmente l’opportunità di espugnare la porticina a doppia chiusura della bocca. E si riusciva, infine, ad entrare nel “castello”, inserendo il cucchiaio o la forchetta carichi di cibo al di là del ponte levatoio delle labbra.

Che gioia, poi, osservare la prima masticata e vedere la materia prima, trasportata con tanta solerzia in volo, andare giù e nutrire il bimbo non più ostile. La battaglia era finalmente vinta. L’assedio era tolto.

 

 

Circulìin Fràa Fràa

I nostri vecchi forse non trasformavano le mani in aeroplani o in razzi per creare la distrazione strategica nei confronti dei bambini, ma hanno escogitato comunque il modo affinché il bambino intestardito nel rifiutare il cibo fosse in qualche modo distolto da quella caparbia presa di posizione. E per portare a compimento l’operazione del cucchiaio o della forchetta parcheggiati a mezz’aria, in attesa che la “boccuccia d’ora”, sì “d’ora” e non d’oro, si aprisse, hanno creato una filastrocca molto conosciuta e diffusa nel contado cremonese, ritenuta per l’appunto, dopo ampie e ripetute verifiche, veramente idonea allo scopo. È la filastrocca del circulìin fràa-fràa, ossia del “girotondo dei frati”.

Circulìin fràa-fràa,
léeva sö che vóol fiucàa,
fiucarà dumàan matìna,
léeva sö che gh’è la brìna.

Brìna brinèra,
Catarìna l’è in de l’èera,
l’è in de l’èera in de l’urtàja,
màarcia vìa bröta canàja!

Bröta canàja véa fóora,
cun la canéla nóoa,
nóoa nuèanta,
pièena de pulèenta,
pièna de cicìin,
fa balàa i magretìin.

I magretìin j è a la finéestra,
pàsa la bàanda
cun la cavàla biàanca,
biàanca i pée,
rùsa la cùa,
pàpa in bùca tùa.

(Girotondo dei frati,/alzati su che qui sta per nevicare,/nevicherà domani mattina,/ alzati che c’è la brina./Brina Brinera,/ Caterina è nell’aia,/è nell’aia nell’ortaglia,/marcia via brutta canaglia./Brutta canaglia vieni fuori,/col bastone nuovo,/nuovo nuovissimo,/pieno di polenta,/piena di pietanza,/fai ballare i piccoli magri./I piccoli magri sono alla finestra,/ passa la banda/ con la cavalla bianca/, bianca ai piedi,/ rossa la coda,/ pappa in bocca tua.)

 

Gli ultimi quattro versi sono presenti pure nella lunga e famosa filastrocca in tutto il Cremonese, che inizia con la strofa:

Pupà pupà pupìin,
cumprèeme en s’ciupetìin,
per andàa in Fràancia
a masàa chèl ušelìin che càanta…

(Papà papà paparino,/ comprami un fucilino,/ per andare in Francia,/ a uccidere quell’uccellino che canta…).

Anche tale cantilena era finalizzata allo scopo agognato di riuscire a mettere la pappa nella bocca del riottoso bambino.

 

Le immagini sono di Franco Mora, due riproduzioni artistiche del gioco della corda e della fune dal testo “C’era un gioco… I bambini raccontano” (cfr. Lions Club-Viadana, Oglio Po, Stilgraf, Cogozzo di Viadana (MN) 2008).

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