Infanzie plurali
SØS BAYER ekstern lektor, dpu/ruc
Traduzione di Monica Corbani
«Il pensiero è il coraggio della disperazione»
Giorgio Agamben, filosofo
Philippe Aries (1973-1982) è stato il primo storico a esprimere con chiarezza che l’infanzia era un’invenzione; un’intuizione già presente fin dal XIX° secolo, ma saldamente acquisita solo nel XVI°. Nella società tradizionale, come la chiama Ariès, l’infanzia aveva una durata ridotta. “In quel mondo non c’era posto per l’infanzia” (Ariès 1982, p. 48). L’infanzia era semplicemente vista come il periodo più sensibile, più fragile, caratterizzato dal “vezzeggiamento”. Se il bambino sopravviveva a quel periodo, e nel momento in cui era fisicamente sviluppato, entrava a far parte della società e condivideva la vita di altri bambini, certo, ma anche degli adulti, nel gioco come nel lavoro. Analogamente, anche i giovani in quanto tali non avevano un posto dedicato in quel mondo – il bambino passava brutalmente dal vezzeggiamento e da uno status anonimo a quello di giovane essere umano. La famiglia, in quanto istituzione all’interno della società, era a quei tempi molto diversa da quella dei nostri giorni, distinguendosi per mille aspetti dalla “famiglia nucleare” o famiglia borghese. Era una famiglia allargata che comprendeva padre, madre, fratelli e sorelle, zii, zie, nonno e nonna e una gran varietà di parenti lontani o di persone di servizio… Era questa famiglia allargata ad iniziare il bambino alla cultura, ai valori e alla conoscenza. L’infanzia era un periodo di apprendistato, gestito da questa famiglia allargata o da un’altra famiglia. Un bambino poteva facilmente cambiare famiglia in età precoce per andare a servizio in un’altra, di cui diventava membro.
Secondo Ariès due prospettive o approcci concorrono a spiegare la nuova posizione che il bambino si trova ad occupare. In primo luogo, l’istituzione scolastica subentra alla famiglia allargata nel dispensare l’apprendimento, con la conseguenza che il bambino smette di vivere in mezzo agli adulti gli ambiti del lavoro e del gioco per diventare a sua volta oggetto del lavoro di altri adulti…
Di fatto, il bambino veniva preso in carico, intrappolato, rinchiuso in istituzioni specializzate (analogamente a quanto accadeva ai poveri, ai malati di mente, ai delinquenti, ecc.), dapprima a scuola e successivamente in altri luoghi dedicati. Naturalmente si tratta di un cambiamento dovuto alle trasformazioni di una società sempre più caratterizzata dal capitalismo e dall’industrializzazione. Per il bambino era un periodo di quarantena. L’infanzia può quindi essere considerata come una messa in quarantena, una separazione rispetto alla vita quotidiana, basata sul gioco e su (poco) lavoro.
Il secondo aspetto è che l’impostazione di questa “educazione” era strettamente dipendente dalle mutazioni subite dalla famiglia che, a seguito di quelle trasformazioni sociali, diventa un’istituzione più ristretta, basata soltanto sui suoi membri più stretti. Questa famiglia ristretta diventa il luogo in cui si sviluppa una particolare attenzione e dedizione tra i suoi membri, ma soprattutto tra la madre e il bambino. Questa situazione genera dei legami emotivi ben più forti di prima. In un certo senso il bambino ha tratto vantaggio da queste nuove relazioni basate su emozione, cura e dedizione, diventando la ragion d’essere della famiglia.
In questa evoluzione del concetto di infanzia ci sono tre aspetti particolarmente importanti: la frattura (la scissione) e, fortemente segnati dalla frattura stessa, il tempo e il potere. Queste fratture sono la conseguenza della nascita della società capitalistica. La frattura tra la famiglia e il bambino è la prima, ma non è l’unica, perché si crea anche una frattura tra lavoro e gioco e tra tempo di lavoro e tempo libero (di svago). Il tempo assume una maggiore importanza. La concezione circolare del tempo viene sostituita da una concezione lineare: il tempo è ora visto come una lunga linea composta di momenti successivi, di secondi giustapposti in sequenza, che procedono in un’unica direzione verso il futuro. È soprattutto il tempo a provocare la frattura, e a condizionare i cambiamenti per il bambino. Il tempo influisce fortemente sulla socializzazione, dal momento che è in funzione del tempo che i bambini vengono socializzati – o disciplinati, come dice Michel Foucault (1983). Il tempo è la disciplina, e questo si realizza soprattutto a scuola.
Il terzo concetto, quello del potere, è legato al capitalismo in quanto esso è contemporaneamente condizione e conseguenza della relazione non equilibrata tra capitalisti e proletari. Per citare un esempio legato al bambino e all’infanzia: il mondo è percepito come diviso in ambiti diversi, legati nella realtà, ma separati dalla mente. Le classi sono un altro esempio di questa frattura, con i luoghi di permanenza diurna che separano il bambino dai suoi compagni mandandolo in un’aula diversa; il tutto in nome dell’organizzazione. Il bambino è collocato in un luogo che offre spazi distinti per classi di età. Anche il tempo è scisso. In passato, la sirena della fabbrica indicava la fine delle ore di lavoro. Accade lo stesso a scuola: la campanella suona all’inizio e alla fine delle lezioni. E l’intera giornata non è altro che un programma a lungo termine, con ingressi e uscite dalle lezioni e diverse materie di insegnamento. Nei luoghi di permanenza il tempo è suddiviso tra gioco, pasti, sonnellino. Non è basato sul ritmo dei bambini, ma su quello degli orologi. Si tratta (ed è ancora così) del tempo “industriale” cui i bambini vengono abituati. E infine, l’ultimo concetto, il più importante, il potere: quello che gli adulti esercitano sui bambini. Un potere che ha permeato i costumi a tal punto da non essere rimesso in discussione dai bambini – né dagli adulti, del resto. Il diritto di decidere cosa sia giusto per i bambini, di dirigerli o di controllarli è considerato… un diritto. Il diritto di esercitare il potere e di governare è legato agli adulti, e non ha altra logica se non lo status di adulto. Il bambino diventa così un oggetto sottoposto alle azioni dell’adulto.
Primo punto – i bambini confinati
Il bambino viene rinchiuso, così come altri bambini della sua età, in istituzioni specializzate (scuole e luoghi di accoglienza diurna), separato dalla sua famiglia e dagli adulti che non si occupano di bambini. L’infanzia diventa un tempo di esclusione, di apprendimento, di maturazione e, in qualche modo, una nuova forma di confinamento. Ne risulta un problema psicologico rilevante relativo allo sviluppo del bambino: come ingabbiato in una camicia di forza, quest’ultimo deve essere sviluppato, in quanto possibilità e in quanto risultato. Un bambino è un bambino sano. Un bambino sviluppato è il frutto di uno sviluppo sano.
Questo periodo di sviluppo del bambino è stato oggetto di discorsi diversi. Da quello della religione, incentrato sul concetto di bambino cattivo, fino ai discorsi che veicolano il concetto di bambino plasmabile. In posizioni intermedie tra questi due estremi si trovano vari altri discorsi sul bambino, alcuni dei quali fondati sul concetto di sviluppo. E anche se in tempi recenti si riscontrano prospettive nuove, in cui si guarda al bambino considerandolo competente e attore della propria vita, secondo la sociologia dell’infanzia (James, Prout & Jenkins 1999), è possibile individuare anche una tendenza contraria, in cui i bambini sono considerati null’altro che un riflesso della famiglia e in posizione di ripiegamento di fronte alla madre. Entrambe queste concezioni, e diverse altre, sono ancora diffuse. Dalla loro combinazione nasce lo schema della percezione del bambino, un autentico patchwork nella copertura (del concetto) dell’infanzia (Warming 2011, p. 31).
Il discorso sul bambino cattivo ha origine nella religione, e permane quando il concetto di infanzia incomincia ad evolvere. Visto come cattivo per natura, il bambino poteva diventare un essere umano buono solo attraverso la disciplina, la violenza e una fede appropriata: “il male scaccerà il male” sembra essere lo slogan di questa concezione dell’infanzia. All’estremo opposto troviamo la concezione del bambino innocente. Se il concetto del bambino cattivo non presta al bambino stesso nessuna intenzione malevola, il concetto opposto vede il bambino come un essere buono e innocente.
In un certo modo si assiste a un equilibrio tra natura e cultura.
Il primo discorso considera il bambino cattivo per natura, mentre il secondo lo vede buono per natura ma traviato dalla cultura. La rappresentazione di ciò che era adatto ai bambini durante il loro periodo di maturazione privilegiava tutto quanto era naturale, mentre per metterli in contatto con la cultura occorreva aspettare che avessero un’età più avanzata. È quanto sosteneva Jean-Jacques Rousseau già nel 1762, in epoca pre-rivoluzionaria, vedendo nel bambino un soggetto dotato di sogni, di diritti e di bisogni specifici. Era l’introduzione di quella che sarebbe poi diventata la visione “naturale” del bambino e dell’infanzia, che sosterrà che il bambino fa parte della natura ed evolve secondo un processo naturale. Anche Sigmund Freud vedeva la cultura come problematica per il bambino durante la crescita, come si legge nel suo Il disagio della civiltà. Acquisire maturità era un’altra espressione-chiave di Freud, che riteneva che, in quella fase, la cultura potesse essere fonte di traumi e di repressione.
Il bambino non ne era consapevole (per Freud molti eventi che accadono durante l’infanzia appartengono alla sfera dell’inconscio). Tuttavia, le minacce che incombevano su di lui durante la crescita potevano essere fonte di pesanti conseguenze, contrariamente alla convinzione diffusa secondo cui le violenze fisiche non traumatizzavano i bambini. Freud rappresenta una variante della psicologia dello sviluppo. Nelle successive interpretazioni di questo approccio psicanalitico, si osserva una tendenza a valorizzare l’importanza della madre e a ritenere che lo sviluppo del bambino si realizzi per fasi, a tappe. L’aspetto più rilevante di questa psicologia dello sviluppo è l’importanza assunta dalla madre (un “matri-centrismo” in un certo senso), insieme al ruolo dominante attribuito alle fasi di sviluppo e all’idea dell’universalità dello sviluppo stesso.
Secondo punto – infanzie variegate
L’infanzia, invenzione recente, si fonda su tutto questo, ma anche sull’idea che la famiglia sia la cosa più importante. La famiglia sceglie e rappresenta la prima socializzazione, quale descritta da alcuni concetti psicanalitici di ispirazione sociologica. Ma, come abbiamo visto, l’infanzia è vissuta in famiglia e all’interno di istituzioni, cosa che caratterizza le nostre società pre- e post-industriali. In qualche modo, c’è qui una rottura rispetto alle teorie della socializzazione e della psicologia dello sviluppo.
È problematico parlare di socializzazione primaria (ad opera della famiglia), socializzazione secondaria (ad opera della scuola moderna, sotto le sue varie forme, e delle strutture di accoglienza, luoghi in cui avviene il primo confronto tra il bambino e un contesto sociale) e socializzazione terziaria (l’ambiente ecc.), perché sono cose che il bambino incontra contemporaneamente durante la crescita. Il ricercatore danese Lasse Dencick (1988) parla di “doppia socializzazione”, sottolineando così che l’infanzia attuale si svolge in due luoghi almeno: la famiglia e l’istituzione (e in seguito la scuola e varie associazioni ecc.).
Definendola “doppia” insiste sull’importanza troppo spesso minimizzata dell’istituzione. La famiglia rimane importante, ma non è l’unica a poter formare i bambini. L’istituzione non è in grado di proteggere i bambini dall’infelicità. Al contrario, li rende ancora più infelici, perché aumenta le disuguaglianze invece di ridurle. E questo è un secondo punto che merita attenzione: ogni infanzia è diversa, all’interno di uno stesso quartiere o di una stessa classe, di uno stesso gruppo etnico o paese. Ciascuno vive l’infanzia in un modo diverso, è quindi necessario parlare di diverse infanzie, poiché ognuna è diversa dalle altre. È questo attualmente il problema più grosso – insieme al suo corollario: la disuguaglianza. Dencick cita il Vangelo di Matteo laddove osserva che questa situazione bipolare non fa che rafforzare l’influenza dell’ambiente familiare: “a chi non ha sarà tolto anche quello che ha” (Dencik 1988, p. 102).
Terzo punto – la tradizione
Non essendo altro che una costruzione, il concetto di infanzia può trasformarsi. Può anche scomparire. Da tempo molti autori hanno dichiarato che l’infanzia stava per scomparire, che era a rischio estinzione (Cunningham 1988, Giesecke 1996). E nonostante la prudenza d’obbligo, osserviamo diverse tendenze che portano in questa direzione. Ancor prima di aver vissuto appieno la sua infanzia, dal bambino si pretende che diventi adulto senza transizione. L’enfasi attualmente data all’apprendimento ne è un buon esempio. Da un lato, il bambino deve costantemente dimostrare intelligenza e competenze: leggere, contare, lavorare, più in fretta degli adulti. E l’apprendimento è solo un altro modo di dire sviluppo. Eccoci tornati quindi all’epoca che precede l’invenzione dell’infanzia e la camicia di forza, in cui i bambini non sono considerati bambini ma adulti in divenire. In Danimarca, la disuguaglianza è l’argomento politico più citato a sostegno di un apprendimento più precoce e di un’infanzia accorciata. I politici sostengono che la disuguaglianza sociale possa scomparire grazie all’apprendimento e all’educazione precoce. Come dimostra la storia, la disuguaglianza non può essere guarita dalle istituzioni, dalla scuola e dall’educazione, per la buona ragione che è una disuguaglianza che ha origini materiali, politiche ed economiche, e sono dunque questi i campi in cui va cercata una soluzione. In questo senso, l’obiettivo più importante del momento è la riduzione delle disuguaglianze sociali. Per proporre un approccio costruttivo (cosa fare e cosa no), vorrei suggerire queste ultime poche righe, pur sapendo perfettamente che il problema della disuguaglianza può essere risolto solo con strumenti politici ed economici:
- L’importanza di liberare il bambino dai grandi discorsi sull’apprendimento e sullo sviluppo (nella loro accezione rigoristica…).
- L’importanza di assicurarsi che i centri di accoglienza facciano la differenza o di lavorare in questa direzione.
- L’importanza di accingersi a questo compito rivoluzionando le prassi di queste istituzioni.
- L’importanza di analizzare le disuguaglianze tra i bambini e le differenze tra le loro infanzie.
- L’importanza delle relazioni tra adulti e bambini e tra bambini e bambini, indipendentemente dall’età e dal grado di sviluppo.
- L’importanza di rivoluzionare l’ideologia della famiglia.
Le disuguaglienze potranno attenuarsi solo con la formazione e lo studio garantiti per tutti.