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I bambini e il sacro – Lo spazio del sacro

Raffaele Mantegazza

Professore associato Pedagogia generale e sociale


Secondo me lo fanno apposta a fare così lungo
il corridoio che porta alla Presidenza

Siusi Derkins
bambina di sei anni
co-protagonista del fumetto “Calvin e Hobbes”

Non si educa ovunque. O meglio, lo spazio nel quale si educa smette di essere uno spazio qualunque per trasformarsi appunto in spazio educativo. La strada non è educativa di per sè, lo diventa quando ospita un progetto di educativa di strada: ma allora cambia, si trasforma, nel suo complesso e in ogni suo dettaglio. Questa è la forza dell’educazione: inserirsi all’interno di uno spazio dato e renderlo altro da ciò che esso è nella quotidianità, modificarlo per farlo oggetto di una riflessione che riverbera poi nella quotidianità (un bambino che ha passato la domenica a giocare per la strada finalmente libera dalle auto la osserverà con occhio diverso il lunedì –e così si spera per i suoi genitori che magari si decideranno a lasciare a casa l’auto).

Si tratta di una operazione che ha molto in comune con lo spazio del teatro (basta pensare al living theatre e a tutte le esperienze nelle quali il teatro invade lo spazio quotidiano) ma soprattutto con lo spazio sacro. Il sacro infatti si definisce sempre all’interno di uno spazio, anzi l’operazione preliminare perché si dia un evento liturgico, una preghiera, un rapporto con il sacro è proprio la delimitazione di uno spazio (esteriore e/o interiore): il perimetro del cerchio magico del rito, di una moschea, di una cattedrale sono frutto del gesto umano che separa per poter sacralizzare (ovvero, etimologicamente, separa per separare!). Celebrare una messa al campo ha senso se il campo è e non è un campo: lo è perché lo spazio sacro non può annullare lo spazio naturale e fisico (ha senso allora una messa nel web?) ma non lo è più perché il gesto di sacralizzazione lo ha reso altro da sè.

Lo stesso accade per gli oggetti, che all’interno dello spazio sacro e del rito o della liturgia che in esso si svolgono diventano altro da sé: l’esempio del pane nella consacrazione è fin troppo ovvio ma possiamo parlare del latte e del miele nei riti della nascita che ritroviamo nei Veda o dei sette sassolini con i quali i musulmani lapidano ritualmente Satana nella valle di Arafat durante il pellegrinaggio alla Mecca.

La scuola dell’infanzia è dunque uno spazio sacro: perché i bambini e le bambine trovano un perimetro all’interno del quale le attività quotidiane (il gioco, il riposo, l’alimentazione) acquisiscono un significato supplementare e dunque sono sottratte alla quotidianità; perché è uno spazio all’interno del quale valgono regole diverse da quelle esterne (e sarebbe bello che fosse lo spazio e non l’insegnante a dettare le regole: dobbiamo fare i turni per andare in bagno perché altrimenti non ci stiamo, come abbiamo visto nell’attività-gioco di ieri quando abbiamo invaso in quindici un bagno per una persona sola); perché è uno spazio integralmente pensato per le esigenze educative dei bambini e delle bambine e dunque uno spazio ne quale nulla è lasciato al caso; perché quando un oggetto compare al suo interno, che esca dalla borsa della maestra o sia portato dal bambino da casa, subisce una ridefinizione della propria identità, in modo che la mela non sia più mela ma pretesto per il gioco o per la conoscenza e l’oggetto transizionale sia condiviso con gli altri, cosa che a casa, nello spazio quotidiano, non accadrebbe mai.

E lo spazio della scuola è uno spazio sacro soprattutto perché è spazio protetto e tutelato, all’interno del quale sono presenti i celebranti il rito, e se qualcun altro vi entra (un visitatore, l’operaio che ripara il termosifone, il geometra del Comune) deve rispettare le regole della sacralità (non si urla, non si bestemmia, si rispettano i tempi e le attività dei bambini) e assoggettarsi ad esse. Dunque i genitori devono capire fin da subito (in sede di accoglienza e di inserimento) che lo spazio scolastico a un certo punto si caratterizza per l’”extra omnes” tipico del Conclave. Non nel senso (e l’abbiamo visto e continuiamo a vederlo un numero preoccupante di volte) dello strappare di braccio al papà un bambino piangente ma nel senso di lavorare insieme perché l’uscita di scena del genitore sia inteso come un necessario prezzo da pagare per iniziare quel gioco magico che è la giornata scolastica.

I riti di ingresso dunque non possono essere intesi solamente e banalmente come riti di distacco dal genitore (concezione dietro la quale purtroppo vediamo una immagine sempre negativa del genitore come colui che vorrebbe trattenere per sé e con sé il figlio perché non si fida della scuola) ma capovolgendo il discorso devono consistere nell’allestire uno spazio così bello, forte ed emozionante che la figura del genitore venga messa tra parentesi e dimenticata per il tempo della celebrazione del rito educativo. Il che significa dare all’inserimento il giusto tempo e non calcolarlo in base alle esigenze delle famiglie che, se devono esser rispettate e capite, non possono condurre a forzare i tempi con un effetto di vera e propria profanazione.

Una facilitazione rispetto a questa operazione può essere fornita dagli spazi di soglia che sono tipici dell’esperienza del sacro. Il sagrato, il vestibolo, il pronao sono spazi che creano una sorta di cuscinetto tra il sacro e il profano, permettendo sia l’esperienza dell’abbandono della quotidianità per entrare nello spazio sacro, sia al contrario la dismissione della sacralità per rientrare arricchiti alla dimensione profana. Lo spazio dell’accoglienza, l’atrio piuttosto che l’ingresso della scuola, per quanto piccolo possa essere, dovrebbe caratterizzarsi come elemento di passaggio dalla quotidianità alla scuola, dal mondo profano della città o del quartiere al mondo sacro della relazione educativa: il che significa concretamente allestire questo spazio come passaggio in senso anche fisico, conta poco che sia poi metaforizzato come bosco, galleria, astronave o altro; la cosa che conta è ammorbidire il passaggio dalla strada alla scuola e viceversa e magari preparare un rito di accoglienza per i bambini da inserire che abbia inizio proprio in questo spazio neutro, così come i battesimi dei bambini nel rito cattolico spesso iniziano sul sagrato della chiesa.

Parlare di spazio significa parlare di distanze: la prossemica è la scienza che studia l’influenza delle distanze tra gli esseri umani sulle loro modalità di comunicazione e di relazione; e all’interno della scuola i bambini dovrebbero sperimentare tutte e quattro le dimensioni previste dagli studi prossemici:

dalla distanza intima (0-45 cm): corrisponde al massimo coinvolgimento fisico, laddove i corpi si toccano e spesso si fondono: è la distanza che caratterizza i rapporti intimi, il conforto, la protezione, l’amplesso, ma anche la lotta fisica; alla distanza personale: è la distanza che permette ancora il contatto fisico con un minimo sforzo da parte degli interlocutori (45-75 cm.), o che si estende appena oltre il cerchio che è possibile tracciare con un braccio teso (75-120 cm.); alla distanza sociale (1,20-3,65 m.): non è più possibile il contatto fisico con l’altro, e la cosa è spesso sottolineata dalla presenza di sportelli, scrivanie ecc.; e infine alla distanza pubblica (3,65 – 7 m. e oltre): è la distanza che separa un oratore dal proprio pubblico. Sperimentare il rapporto tra corpi alternando nelle attività quotidiane queste tipologie di distanza significa arricchire lo spazio educativo e renderlo più vario, permettendo all’esperienza del medesimo di essere realmente completa e totale, proprio come avviene all’interno dello spazio sacro dove alla distanza pubblica che separa il gestore del rito si accompagna la distanza intima di corpi che si toccano e si abbracciano.

1 commento su “I bambini e il sacro – Lo spazio del sacro”

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