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Per una governance solidale: lo 0-6 come spazio di prossimità possibile*

Alcune riflessioni del gruppo di giovani studentesse-custodi del Convegno Nazionale del Gruppo. Attraversare il sistema integrato per superare le povertà dentro e fuori di noi.

*  L’articolo presenta le riflessioni di Sara Andreani, Martina Battistella, Viviana Franco, Annalisa Gentili, Michela Lamincia, Alessia Macagno, Elisa Morini, Nicole Pellegrino. Il gruppo è coordinato da Moira Sannipoli della Segreteria del Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia.

Passata è la tempesta: […] Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; […] Risorge il romorio Torna il lavoro usato” recitava Leopardi nella sua celebre poesia “La quiete dopo la tempesta”. E vogliono proprio essere dei momenti di quiete dopo la tempesta, che ci ha investito negli ultimi due anni, gli incontri del GNNI: una quiete in cui si torna a rivivere a poco a poco una sorta di normalità, recuperando quello che si è lasciato indietro, ma con una necessità viva di attivare delle riflessioni nuove, sia su quanto è passato che su quanto si può costruire di nuovo da ora in avanti.
“Quando i luoghi parlano più di mille parole ed hanno un’anima” è questo che abbiamo pensato varcando la soglia dell’Istituto Montecalvario nei Quartieri Spagnoli a Napoli, sede del secondo Seminario “Ri-pensare ai bambini nell’incertezza della nostra epoca. Educare alla complessità.” Nel corso della prima tappa del ventiduesimo convegno del Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia, abbiamo compreso che non sia possibile parlare di processi educativi senza esservi implicati come attori e co-costruttori, senza partire dal “chi siamo noi” e dal contesto di riferimento. Tuttavia, in questo secondo appuntamento è stata sottolineata con ancor più vigore l’importanza del “dove siamo” e dal “dove partiamo”: qui ed ora, intenti a ri-scoprire il valore del proprio territorio. È imparando a sporcarsi le mani sulla terra, ricca di bisogni e risorse, che potremmo farci promotori di cambiamenti. Siamo abituati a intendere la fragilità come impedimento, quando in realtà si tratta di un abito prezioso che ciascuno indossa. Sono le fragilità di un territorio e delle persone che lo vivono, a consentire l’al di là dei limiti che sconfinano in bellezza.

I sistemi educativi, quindi, non possono prescindere da queste fragilità dialoganti, perché è proprio in esse che si cela la meraviglia della possibilità. Infatti, ogni terreno ostile e resistente dovrebbe esser letto come una nuova opportunità in ambito socio-educativo, dove le esperienze di vita costruttive e interessanti talvolta scarseggiano, e non sempre arricchiscono dal punto di vista umano e culturale. È proprio questo senso di isolamento e la sua conseguente mancanza di stimoli una delle cause principali dell’abbandono scolastico, fenomeno, rispetto al quale l’Italia vanta un preoccupante primato in Europa. Dunque, da dove possiamo partire? Non si può conoscere il mondo e avere gli strumenti per fronteggiare difficoltà e problemi vivendo in un’aula, spesso con le porte e le finestre serrate. A volte, anche il cielo può diventare il nostro soffitto e le città possono essere parte integrante del contesto di apprendimento; questo significa anche abbracciare l’ascolto dell’altro come modello operativo, in cui è evidente il desiderio di conoscere quello che i bambini, le bambine e gli adolescenti vogliono comunicarci. Ecco che, diffondere i servizi educativi, può contribuire a combattere il divario sociale e l’abbandono scolastico, attraverso l’ascolto che ogni famiglia a volte implicitamente chiede, attraverso la ricerca di quell’equilibrio che sta tra l’educazione dei propri figli e la dimensione progettuale di ogni componente della stessa. Fare inclusione è anche questo, far convergere lo sguardo pedagogico con quello sociale, mettendo insieme la poliedricità di talenti ed energie per un bene comune, perché una comunità educante nasce quando si costruisce una rete di accoglienza allargata e dialogante. Allora, partire dall’irripetibilità non significa investire sulla marginalità, quanto piuttosto garantire lo sviluppo dell’intero Paese e conseguentemente riflettere su un’emergenza culturale che allo stesso tempo è anche sociale.

L’educazione deve essere stimolata politicamente, perché fare una buona politica significa fare una buona educazione. Questi sono tempi in cui i muri vengono innalzati invece che demoliti, nel quale il giudizio massacrante verso i territori più deboli è una modalità operativa standard. Abbiamo un estremo bisogno che i servizi educativi e la scuola rispondano alla necessità che la Costituzione conferisce loro: non luoghi di esclusiva trasmissione del sapere, ma di cura e di educazione alla cittadinanza. Tutto questo, significa, dunque, attivare quella responsabilità capace di educare i bambini e le bambine alla democrazia dando forma ad una scuola democratica, che sia uno specchio riflesso della cittadinanza. A tal proposito, in questi anni non è stato considerato abbastanza il capitale sociale e ad oggi risulta non funzionale l’integrazione tra le parti fondamentali e fondanti del nostro sistema di Welfare: pubblico, privato e privato-sociale. Tre realtà tutte imprescindibili, ma che faticano a cooperare e comunicare tra loro. Parallelamente, è sempre più evidente la spaccatura delle figure professionali per cui si tende a spartire ciò che è “mio” e ciò che è “tuo”, anziché ragionare in termini di reciproca appartenenza. Garantire il rispetto delle diverse e specifiche professionalità significa, invece, far sì che queste non si escludano a vicenda, ma che co-abitino in una stessa comunità educante. Imparare ad “aver sete della comunità” può orientare le scelte collettive verso una cura responsabile dei bambini e delle bambine. Il sistema integrato è infatti un luogo di confronto, di dialogo, di contaminazione e di ascolto rispetto ai progetti pedagogici diversi, tutti elementi che si appoggiano a una sinergia tra le parti in gioco e alla costruzione di un lessico comune tra educatrici e insegnati, ma anche tra territorio, servizi e famiglie. Usare lo stesso linguaggio significa infatti capire il perché si lavora in un modo piuttosto che in un altro e poter trasportare così un’esperienza da nido a scuola dell’infanzia e viceversa con l’obiettivo di arricchirsi reciprocamente. Ecco perché, quando si parla di sfida per la realizzazione di un sistema integrato 0-6, il primo passo da intraprendere è quello d’una coraggiosa innovazione, formazione e arruolamento di profili professionali da ri-definire e ri-conoscere. Grazie al sistema 0-6 si promuove così una cultura dell’infanzia che prende in considerazione il bambino non in fasce d’età frammentate e teoricamente molto diverse tra loro, ma in un continuum (non solo 0-6, ma anche 0-14) e con un significato di “sviluppo” di più ampio respiro. Percorrere nuove strade, nuovi cammini intersecati, percorsi che, pur con le proprie naturali ed imprescindibili peculiarità, abbiano come obiettivo comune l’attuazione del diritto di tutti i bambini e le bambine all’educazione fin dalla nascita.

Un’educazione di qualità, che vada a colmare i divari territoriali, a contrastare l’abbandono scolastico e la povertà educativa. Un’educazione che promuova una cittadinanza attiva, solidale ed inclusiva, in cui le diversità di ciascuno vengano vissute come opportunità di crescita e conoscenza e non come ostacoli. Un’educazione che consenta di costruire una comunità educante partecipe, dialogica e responsabile pronta ad affrontare con fiducia e motivazione le sfide e la complessità della nostra epoca.

 

1 commento su “Per una governance solidale: lo 0-6 come spazio di prossimità possibile*”

  1. Bellissimo concordo pienamente sui pensieri e i contenuti di questo articolo e resto incantata dalla cura dell’esposizione, dall’armonia delle parole che profumano di alta sensibilità e offrono sponde positive anche quando narrano vincoli e incongruenze
    Grazie a tutte/i e in particolare a Moira

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