Lella Ravasi Bellocchio
Nasce da un test inglese, “il gioco del mondo”, della pediatra Loewenfeld, negli anni Trenta, questo gioco-costruzione delle immagini come rappresentazione simbolica. Viene poi raccolto, arricchito e in qualche modo reinventato da Dora Kalff, allieva di Carl Gustav ed Emma Jung. Con il timbro pionieristico di cui era capace, Dora Kalff collaborava con il Kantonsspital di Zurigo, lavorando in particolare con pazienti intrattabili con cure normali, sofferenti di malattie psicosomatiche, risolvendo casi impossibili. La cosa mi interessava molto. Ero affascinata dalle immagini, dalle diapositive che Dora Kalff mostrava raccontando la patologia e la cura, come lo ero dal suo studio ricavato all’interno di una casa del Seicento vicino a Zurigo, una casa con un’impronta, un’aria quasi “magica”, come ancor più mi appare oggi che so, da poco, che lì aveva vissuto Goethe. Un altro mondo.
Diversi colleghi in Italia seguivano la formazione, ricordo le cure praticate con i bambini all’Ospedale Bambin Gesù di Roma, i convegni di Roma e di Milano, i confronti tra diverse metodologie di sandplay therapy, e la formazione che prevedeva e prevede un tempo di lavoro su di sé, con l’approccio alla sabbiera e la terapia personale, e un tempo di lavoro didattico. Niente di improvvisato, eppure sembrerebbe così semplice in fondo, che ci vuole? In realtà, ancora più che la terapia basata sulla parola, qui si tratta di un lavoro estremamente delicato che mette in gioco l’inconscio in modo radicale. E il corpo. Il corpo inconscio: la materia di cui siamo fatti, prima del pensiero, prima della parola. Una trentina d’anni fa almeno, in largo anticipo anche sulle scoperte molto più recenti della “memoria implicita” e delle neuroscienze.
Nel mio percorso di conoscenza e di apprendimento, dopo l’incontro e le lezioni con la signora Kalff in Svizzera e dopo un corso di terapia personale con la sandplay, ho lasciato depositare l’esperienza dentro di me per quasi vent’anni, finché mi sono imbattuta in Paolo Aite proseguendo la formazione all’interno del L.A.I. (Laboratorio Analitico della Immagini), associazione di cui faccio parte, con l’approccio più personale al “Gioco della sabbia”. Mi serviva del tempo per lasciare che il mio inconscio si sentisse libero di accettare la sfida, il riconoscimento e la resa oltre il pensiero, cioè quanto ci voleva per osare l’approccio con la sabbia, libertà di sperimentare nel contenitore di metallo (50 x 70 x … cm, fondo azzurro), anzi nei due contenitori, uno di sabbia asciutta e uno di sabbia bagnata, le immagini che raccontano l’inconscio, quel “sognare con le mani” di cui parla Aite[1].
In pratica che cosa succede? Succede che ci sono questi due contenitori appunto, queste “scatole di mondo” in cui il paziente, bambino o adulto, può raccontare una storia, una fantasia, un desiderio, un problema, un sogno[2] – spesso ignoto a lui stesso – usando come materiale innanzi tutto la sabbia e avendo a disposizione una quantità di piccoli oggetti, i più vari per costruire la scena che vuole rappresentare. E qui è la fantasia dell’analista a scegliere di lasciarsi trasportare dal gioco incontrando gli oggetti del mondo e portandoli nella stanza: rametti, conchiglie, sassi, perle di vetro, legni; e poi miniature di ogni tipo: soldatini, figurine di donne, le professioni, il papà con la valigia, la contadina con il latte, la mamma nel lettino d’ospedale con un neonato in braccio, e gli indiani, la squaw; e ancora letti, tavoli, sedie, candelabri, dame e cavalieri, principi e principesse, maghe e maghi, faraoni, immagini sacre egizie, buddiste, cristiane, macchinine, elicotteri, casette, alberi; e poi animali, di tutti i tipi, da quelli domestici alle bestie feroci, dinosauri estinti, coccodrilli e pantere, gabbiani, placide mucche, cigni e papere, cavalli veri, cavalli alati, maiali, asini, gatti. Dalla fine della mia analisi personale ho iniziato a raccogliere le miniature più diverse, quelle che mi colpivano, le immagini del mondo che mi dicevano qualcosa di me, fino a quando le ho messe a disposizione degli altri, della loro meraviglia, mostrando, enumerando, la mia arca di Noè, il mondo appunto salvato dal diluvio. La costruzione si farà con la libertà di lasciarsi guidare dalla fantasia a scegliere, e a lasciarsi scegliere dagli oggetti.
Nel lavoro di Aite a cui faccio riferimento come guida interiore – ciascuno ha bisogno di un maestro, lo deve trovare, a quel punto entrare in relazione dialettica, e sempre che il maestro lo sia davvero la dialettica è la stella polare – trovo la libertà di imparare e poi di fare un po’ a modo mio, di lasciarmi andare alla scoperta di quanto l’inconscio cerca il modo di dire, di raccontare con le immagini. “Sognare con le mani”[3] dice Àite, e già questo riempie di suggestioni, dentro e fuori tra psiche-corpo, corpo-immagine, pensiero creativo. In questo progetto la pratica analitica viene orientata a un livello diverso di qualità, portandomi a incontrare i luoghi oscuri a me stessa della “metodica della sabbia” (come Aite preferisce dire: non tecnica, metodica); metodo (metà-hodòs, oltre la via), un modo dritto e breve per arrivare all’obiettivo[4].
Quel fondo mi narra di me oltre che dei pazienti. Quando Aite parla di affetto condiviso dice quello che accade nel gioco, nella costruzione, sia per chi agisce sia per chi assiste, sia per il paziente sia per l’analista. Si parla di sé, dei propri sentimenti, delle proprie sensazioni fisiche nel campo analitico con il paziente, con la sabbia-paziente.
Il gesto che si deposita nella sabbia innanzi tutto è il movimento, è il gesto che tocca la materia: è un gesto-corpo che entra nello spazio condiviso della sabbia-corpo, entra nella psiche e nel corpo. La non mediazione della parola (che entrerà nel campo solo in un secondo momento, e che comunque sarà sempre “altro” rispetto all’immagine evocata nella sabbia) provoca ad andare oltre, provoca a giocare.
Le citazioni, gli approfondimenti teorici ci anno confrontare con le idee di Melanie Klein, di Wilfred Bion, di Donald Winnicott[5] soprattutto, di Michael Balint e naturalmente di Gustav Jung. In questo senso, credo, la metodica della sabbia è innovatrice, perché accetta di andare oltre le origini, di mettere a punto un “come di fa” in cui ciascuno poi – fissate le linee guida – sappia trovare dentro di sé la sua unica, personale strada.
La “sabbiera”, la scatola in cui sta la sabbia, è colorata, smaltata di blu sul fondo e sui lati, è il luogo fisico e assieme il contenitore teorico-pratico della mente dell’analista accanto, non oltre, ma accanto, in silenzio, alla mente del paziente. Si pensa e si vive nello spazio dell’inconscio sostanzialmente abitato da immagini, in modo che le immagini dell’anima entrino nell’assetto mentale (contenitore-contenuto) dell’analista, nella mente-sabbiera dell’analista. Ma quando si passa dalla mente-sabbiera alla sabbiera reale della stanza d’analisi succedono dei fatti che non sono pensabili, e che ci interrogano in tutta la loro ingombrante problematicità.
È l’analista a diventare sabbia, a trasformarsi in corpo inerte del mondo, polvere del tempo, in cui la traccia, l’impronta dell’altro, rimane ficcata, forse? Il campo del Gioco della sabbia è il contenitore degli affetti condivisi (tra le tantissime intuizioni di Paolo Aite questa mi ha particolarmente colpito), evocando percezioni del mondo pre-verbale dove si radicano le emozioni dentro il corpo, che è “corpo antico”, condiviso tra paziente e analista. Come scrive Angelo Malinconico a proposito del corpo, descrivendo la radicalità della trasformazione simbolica e reale del setting, in cui i corpi entrano con prepotenza viva in primo piano: “Oggetti, scene, ricordi d’infanzia dei pazienti si riversano sull’analista con la concretezza della loro “cosità”. Stimolano in maniera atipica la sua sensorialità, ne confondono l’abituale attitudine ermeneutica, ne minano la rassicurante possibilità del setting classico, configurato da analista, sedia dell’analista, luogo fisico certo del paziente, spazio mentale dell’analista, tempi diluiti dell’attenzione fluttuante, stimoli percettivi circoscritti e generalmente noti. Movimenti bruschi, tempi accelerati, oggetti presi e poi lasciati sullo scaffale, acqua che cola nei contenitori, mi fanno pensare a prove di attivazione neuro-sensoriale cui il terapeuta è costretto a sottoporsi”[6].
Il rapporto con gli oggetti (sempre parziali, rispetto alla fantasia desiderante ), con i paesaggi, con le figure del mito e della memoria, è raccontato nella trama della relazione. È più facile per i bambini, come vedremo nei racconti, trovare gli oggetti che rappresentano – anche se in modo imperfetto – qualcosa che stanno cercando di dire. Per gli adulti è diverso il processo, porta nei luoghi della memoria prima che siano fissati i ricordi, e questo vuol dire speranza ma anche oblio, ma anche dolore. Vuol dire nostalgia come perdita e come ritorno a sé, qualcosa che finisce nel corpo prima che nella mente, solo poi nella mente. È qualcosa che compare nei racconti dei due adulti qui incontrati.
E la costruzione per immagini che fiorisce nella sabbia porta a pensare l’impensato: la memoria è nel corpo prima che nella mente, e apre a immagini più antiche corporee, a un trattamento che tocca nuclei arcaici. “Non si interpreta, si costruisce” dice l’ultimo Freud in Costruzioni nell’analisi, in cui reinventa l’analisi, rovesciando il concetto di interpretazione per far emergere invece come fondante la “costruzione”.
È l’analisi – che libera la possibilità di giocare con la mente, “amare e lavorare” – che entra nella stanza di una memoria-corpo, evocando emozioni primitive perse nel luogo del senza-parola, del senza- luogo della mente che ricorda, memoria “implicita, e corre via verso l’incontro con quei primi tempi di vita che ritroviamo in noi attraverso il mondo sensoriale. È lì che ci porta la sabbia, nella prima materia, nel primo mondo dell’esistenza. Come resistere alla compatta e fluida esperienza del nostro perderci nell’immagine quando ancora non è immagine ma corpo, esperienza fisica del nostro esserci nel mondo? “Prima materia, terra e acqua da cui tutto origina”, mi diceva Cesare Musatti, attento a questa nuova metodica che gli portavo come scoperta, tanti anni fa.
Ma se è così che succede, il silenzio della stanza analitica si riempie di eventi: il corpo è coinvolto, senza parole; l’esperienza emozionale sensoriale condivisa è parte del processo. Da questo momento, da questo fatto si lavora per pensarci: la riflessione è un tempo successivo all’evento, all’accadimento di cui siamo sia testimoni sia protagonisti nel campo analitico; tutto questo è di estrema importanza e cambia le regole del gioco.
Noi siamo in campo e il campo analitico della sabbia è contemporaneamente transpersonale e allo stesso tempo quanto di più totalmente personale ci sia, quanto di più profondamente intimo ci possa toccare. Eppure ci porta anche in quell’altrove in cui ritrovarci tutti, nell’esperienza condivisa dell’umano, in questo senso credo trans personale. Come scrive Jung, “non io creo me stesso, ma piuttosto io accado a me stesso”.
Ora, come fare per stare all’erta eppure abbandonati in questa esperienza? Come insegnare a non banalizzare il gioco, che – come abbiamo capito – è estremamente difficile? Quanto tempo ci vuole perché la formazione personale, la didattica, il confronto con gli altri siano sufficienti per osare il gioco oltre il rischio sempre presente di un certo gusto saccente di dire”eh, io so!”? come imparare a dire che si assiste a qualcosa che si svela un poco ma che rimane al fondo misterioso? Come far convivere memoria di sé e attenzione all’altro, rispetto per lo spazio potenziale e luogo comune, condiviso, del corpo-sabbia, dell’anima-sabbia? Molto più che nell’analisi verbale, tempo e interpretazione, cura della parola, qui è in gioco l’assetto interno, la mente contenitiva dell’analista, cioè l’intero mondo affettivo emozionale, e più ancora il corpo. E nella relazione con i pazienti quanto traspare anche di noi, della nostra immagine-corpo che si fa corpo-immagine nella sabbia?
“Polvere sarò, ma polvere innamorata”, mi diceva un paziente in cui il pensiero della morte era alle porte, un paziente molto amato di cui qui porto un frammento della sua storia per immagini, imprimendo nella sabbia il suo testamento, consegnandomi nella sabbia la “polvere innamorata” del mondo, della relazione, del corpo che doveva trasformarsi. Quanto di me nella mia esperienza con lui è diventato polvere per accompagnarlo oltre la soglia? Molto più che con le parole, ne sono certa, piuttosto nell’eros del gesto, nell’accompagnare con lo sguardo le sue mani nella sabbia, nel sentire comune. Ma in tutte le storie, in tutte le sabbie, qualcosa di noi viene chiamato a esserci.
In questo piccolo libro, prezioso – almeno per me e mi auguro anche per i lettori – ci sono le storie di Paolo e Letizia, grandi tornati bambini, e bambini piccoli e grandi, Giovanni, Martino, Alice, Bianca, Viola, Anton, Giacòpode. Tutti insieme, nel girotondo dell’immaginazione, perché tutti “siamo pazienti dell’immaginazione” dice James Hillman. Da tutti ho imparato, con tutti loro (e con i molti altri che negli anni ho accompagnato al Gioco della sabbia) una parte di me ha giocato. La scrittura si limita ad alcune storie, e poiché ogni incontro è diverso anche la scrittura è diversa, narrativa sempre (l’unico modo che conosco), evocativa del singolo incontro, della specifica relazione.
Accompagnare nell’esperienza del gioco vuol dire coltivare la fantasia, la sabbia è anche il “facciamo che”. Facciamo che questa è una casa, che dentro ci sono i mostri, che arriva un omino verde e la libera. E poi facciamo che c’è un mare, un lago, un fiume e delle persone che fanno un ponte per passare di là. Facciamo che c’è una galleria e sopra una montagna, anzi un vulcano, e che dal vulcano esce un drago che sputa fiamme. Facciamo che c’è la guerra. Facciamo che c’è la pace. Sono soprattutto i bambini a inventare storie, a parlare alla fine del “disegno di sabbia”, come se fosse la scenografia di cui raccontano a posteriori la sceneggiatura. Ma prima, sempre, è nata dal sogno vivo la sabbia. Poi la si racconta. Prima la si fa.
La passione per l’immagine è un altro elemento fondamentale nella mia vicenda umana personale. Interesse per la pittura, la scultura, l’arte nelle sue diverse forme, soprattutto il cinema. Ho bisogno di nutrirmi di immagini e di immaginazione. Il “perché” è nelle parole con cui apro le pagine di questo lavoro, il senso della “sabbia” per me deriva dalla pietra, dalla passione per l’arte romanica, che viene giù dai rami della mia origine. La misteriosa emanazione nella sabbiera del gioco dell’immagine va oltre quello che sono capace di catturare con la fotografia. Mi rimane negli occhi, più ancora è solidamente piantata nella mia visione interiore, la bellezza di alcune immagini, a tratti opere d’arte, di “sabbie”. Opere come mandala di sabbie colorate che, una volta terminate, i monaci disperdono al vento o nell’acqua. E così alla fine quando devo smontare la scena, per permettere alla sabbiera altri incontri, emerge il ricordo del mandala buddista, dei monaci che con pazienza e sapienza, nei giorni di un’estate a Pietrasanta, erano i creatori dell’opera che poi veniva lasciata andare, impermanenza.
E infine la poesia, ancora e sempre, intervalla le storie, aggiunge altro ancora all’immaginazione Come questa di Vivian Lamarque, dedicata al suo analista, in cui mette in fila i doni dell’inconscio che gli porta in dote, e gli scrive parole-immagini che starebbero bene in una sabbiera col fondo blu, mare o cielo?
“In dote Le porto
foglioline di sabbia
e di rosmarino
più mille poesie circa
più quello stralunato ritrattino
tutto qui?
no anche un fiore con dentro
un’ape in velo da sposa
più una goccia di miele
più una spina di rosa
tutto qui?
no anche il resto del mondo
più un cielo gentile
più i colori che vuole
più il doppio della metà
di tutto il mio cuore.”
[1] P. Aite, Paesaggi della psiche. Il gioco della sabbia nell’analisi junghiana, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
[2] A. Malinconico (a cura di), Il sogno in analisi e i suoi palcoscenici. Drammatizzazioni, gioco e figurazioni, Edizioni Magi, Roma 2011.
[3] P. Aite (a cura di), Sognando con le mani; il Gioco della Sabbia nella terapia analitica dell’adulto, in “Rivista di psicologia analitica”, n. 50, Roma 1994.
[4] F. Catellana, A. Malinconico (a cura di), Giochi antichi e parole nuove. Il Gioco della Sabbia nel campo analitico, La Biblioteca di Vivarium, Milano 2002.
[5] D. W. Winnicott, Oggetti transazionali e fenomeni transazionali, in Gioco e realtà, Armando Editore, Roma 1971.
[6] A. Malinconico, in Giochi antichi e parole nuove, cit.
Tratto da: “Come una pietra leggera. Giochi di sabbia che curano”, Ed. SKIRA, 2013