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Formazione e condivisione

Dario Arkel

Pedagogista e docente universitario


Ho spesso ascoltato parole che sembrano salvare direttamente le nostre vite conferendo loro un senso, non approssimato, ma dettagliato: “Vivo non per essere amato o ammirato, ma per amare e ammirare”, diceva Janusz Korczak nel Diario del ghetto. La principale ispirazione formativa, il pedagogista varsoviano la trova con queste poche parole. C’è moltissimo in queste breve frase: il senso della vita, l’amore, l’umiltà (humanitas), il rispetto e la comprensione dell’Altro. Ammirare infatti è esattamente questo: l’umiltà del conoscere, la volontà del comprendere, la bellezza del condividere. Le 3 C che da tempo deduciamo dall’esempio di Korczak e che ritroviamo in ogni sua opinione, in ogni suo scritto, Conoscenza, Comprensione, Condivisione. Esse rappresentano un principio di metodo, l’unico, arioso e onnipresente, del suo essere pedagogista, in quanto legate strettamente al rapporto con il bambino (e non solo).

Possono anche rappresentare un principio di carattere sociale e politico che afferriamo meglio quando le contrapponiamo alle 3 I (Indifferenza, Intolleranza, Imposizione).

L’indifferenza è il termine chiave per coloro, come Liliana Segre, che conoscono la tragedia in modo diretto: la tragedia nasce dalla non-importanza data al rispetto della vita, quindi dei diritti umani. Indifferenza si oppone alla conoscenza perché gli occhi si chiudono, le orecchie si tappano e dalla bocca non esce nulla di virtuoso ma solo inni all’egoismo e alla chiusura in sé.

L’intollerabile indifferenza si trasforma pertanto in Intolleranza, quella che ci porta a restare soli digrignando i denti contro chiunque non sia in qualche modo usabile per i nostri scopi. Da qui, ancora, la volontà estrema di non-condivisione, di allontanamento dall’umana umanità, ovvero l’Imposizione. Colui che esce dal modello incontenibile del profitto per il consolidamento dei privilegi, si trova così ad essere fuori dal sistema. Egli viene quindi ghettizzato in molti modi. All’epoca di Korczak, come sappiamo, gli ebrei erano rinchiusi nei ghetti, prima di affrontare gli Einsatzgruppen, e quindi campi di sterminio e la morte. Queste soluzioni sono tuttora praticate in gran parte nel mondo. Non dobbiamo dimenticarlo.

 

Nel Diario del ghetto, conscio di dover morire insieme ai suoi 200 orfani, Korczak descrive i suoi momenti ordinari e quotidiani e quando si rilascia nel racconto ecco che apre la porta ai ricordi della sua infanzia e gioventù; appare straordinario ai più che proprio nei primi anni di vita egli avesse già risolto chi essere.

Lo fa ritornando alle luci e alle ombre dell’essere ebreo, alla vita familiare, agli affetti solidi che sono andati via via disgregandosi. Lo fa motivando il nesso tra il lui bambino e i bambini che ha preso con sé, rinunciando volutamente ad una sua propria famiglia per stare con gli orfani più poveri e bistrattati del mondo.

Per stare CON i bambini, non soltanto PER i bambini. Raggiungendo così la condivisione delle loro esistenze a seguito del serrato dialogo di conoscenza e comprensione. Tale condivisione è l’amore. L’amore per questi piccoli, il rispetto dei loro passi di fatica per entrare in un mondo che da difficile si trasformerà in trappola di morte. Egli si ribella insieme a loro e riesce nell’intento di trasformare, attraverso il lavoro pedagogico, il buio in luce (ascoltare la luce) l’imminente epicedio.

 

 

Quando, nel 1911, grazie ai fondi di ricche famiglie ebree di Varsavia (gli Eliasberg su tutti) riuscì a fondare il Dom Sierot (Casa degli orfani), Korczak era consapevole del metodo pedagogico-formativo che avrebbe utilizzato. Il suo metodo, che lui definiva non-metodo, si basava sull’educazione tra pari (oggi peer education). Essa si sviluppava partendo dalla non rilevanza dell’insegnamento, ovvero l’acquisizione di nozioni.

Appare chiaro già dall’etimo che insegnamento deriva dal raggiungimento del segno. Rispondere ad una domanda cogliendo il bersaglio. Appare questa una risultanza insoddisfacente perché non implica un ragionamento, essendo sufficiente una mera conoscenza d’accatto. L’educazione, che indica l’uscire fuori in senso illuministico, è legata solitamente a comportamenti da apprendere e/o da correggere.

Anch’essa presenta un limite, che sta nell’educatore. Se esso tende ad imporre le proprie caratteristiche può finire, come sostiene tra gli altri Martin Buber, che l’educazione incida sul carattere del bambino/ragazzo, provocando un fenomeno imitativo. Se invece l’educatore tende ad imporre con autorità le proprie prerogative, ecco che nei discenti si creerà una sorta di insoddisfazione, di disincentivazione, talvolta provocando sentimenti di ribellione interna (e non solo) al metodo proposto. Se ne deduce che educare al comportamento contenga un alto rischio di fallimento.

La formazione è il percorso più complesso perché riunisce in sé i due aspetti del sapere e del comportamento, legandoli indissolubilmente. Si dimostra di sapere soltanto comportandosi in un dato modo. Perché la formazione abbia un pieno e sano sviluppo della persona, sia Korczak sia Buber sostengono sia necessario portare primariamente i giovani a conoscere sé stessi in relazione all’Altro. Ovvero, ri-conoscersi tra gli altri e con gli altri.

 

Partendo da queste premesse, l’educazione tra pari risulterà la modalità più consona per lo sviluppo armonico dei piccoli ospiti del Dom Sierot. Korczak, studiando l’esperienza di Ovide Decroly, fisiatra e pedagogista belga, direttore della scuola dell’Ermitage di Bruxelles, fece emergere come, nel contesto di un orfanotrofio con 200 ospiti, solo 16 operatori potessero mantenere attività e relazioni formative di elevata qualità.

L’uomo totale che fu Janusz Korzak riuscì in un’impresa che non può che far sbalordire tanto più quando si tratta del periodo buio dell’occupazione nazista e della reclusione nel ghetto. Nelle circostanze più difficili, senza cioè un rapporto con il mondo esterno e senza adeguati mezzi di sussistenza, l’orfanotrofio continuò a formare i suoi ragazzi dalle teste belle, votati stavolta al martirio nella dignità in quanto già educati alla morte. Korczak trasformò il corteo dei bambini diretto al treno per Treblinka in un’occasione per gridare al mondo il prodotto più alto: bambini e ragazzi ordinati, consapevoli del loro destino, che marciano in fila cantando e suonando il violino a ciglia asciutte.

Senza l’idea di una resurrezione, ma con l’idea di offrire un esempio della forza di un’educazione di pace che distrugge l’altrui volontà di potenza: la presa di coscienza di un procedere umano invincibile.

Korczak risolse il problema organizzativo dato dai pochi operatori rimasti, con il metodo del Monitore (oggi mentoring), un modello di origini lontane, ma sperimentato nella modernità da Andrew Bell e Joseph Lancaster (‘700 e ‘800). Il primo utilizzava ragazzi che stimolavano le attività dei compagni, valorizzando forme di aiuto reciproco.

La responsabilità di monitore non era fissa o legata a criteri di anzianità, ma bensì un incarico che si poteva ricevere o perdere se non si era diligenti. Il monitore di Bell doveva quindi assicurare che gli allievi fossero sempre impegnati per evitare – si badi, nella scuola dell’epoca- problemi disciplinari.

Lancaster procedette in questo solco nella sua scuola elementare di Londra-Southwark con l’intento di fornire il massimo dell’istruzione possibile al fine di togliere dall’ignoranza e dalla miseria i figli della classe operaia. Il monitore di Korczak era incaricato di seguire lo sviluppo degli altri bambini e ragazzi. Tale ruolo era affidato direttamente a ragazzi dell’orfanotrofio in un rapporto uno a uno. I mezzi utilizzati erano colloqui, corrispondenze epistolari, attività di lavoro e ricreative: tutori e monitori potevano verificare l’inserimento del monitorato nella comunità e il suo miglioramento nell’autostima e nel profitto scolastico. In questo modo, il ciclo di formazione diviene completo e nuovi educatori ex-monitori venivano preparati ad assistere i bambini. Educando e formando al lavoro, il monitore raggiungeva livelli di specializzazione tanto nella vita di relazione quanto nelle attività lavorative tali da poter raggiungere in breve tempo la capacità di responsabilizzazione e l’abilità tecnica di un adulto di buona volontà.

 

Uno stato di benessere facilita l’attività oggettiva del conoscere, dice Korczak, lasciando intendere che lo sforzo di collegare un uomo ad un altro può avvenire meglio se tra i soggetti vi è omogeneità degli intenti, complicità positiva, il benessere dato dall’etica dell’altruismo. E non può sussistere benessere se non in un contesto di pace, ovvero in un confronto fecondo aperto a diverse possibilità di risoluzione.

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