Umberto Galimberti
Quanto conta la prima infanzia? Moltissimo, perché nei primi mesi di vita si formano definitivamente le nostre mappe cognitive e affettive. Tutto ciò che segue, allora, è colpa dei genitori? No, ma resta, nel bene e nel male, una loro responsabilità
Quando veniamo al mondo non disponiamo di nessun codice per orientarci. Percepiamo solo il seno di nostra madre, che non riconosciamo neppure come persona altra da noi.
Solo a poco a poco e molto lentamente cominciamo a distinguere noi stessi dalle persone che ci circondano, e ancor più lentamente cominciamo a conoscere, negli oggetti con cui entriamo in contatto, la differenza tra ciò che è morbido e ciò che è duro, ciò che è dolce o salato, ciò che è pericoloso e pericoloso non è. In altre parole iniziamo a costruirci delle mappe cognitive per orientarci nel mondo e delle mappe emotive che registrano l’impressione che le cose del mondo suscitano in noi.
Secondo Freud la costruzione di queste mappe avviene nei primi sei anni di vita.
Oggi le neuroscienze ci dicono che queste mappe raggiungono il loro compimento definitivo nei primi tre anni di vita. Non che a tre o sei anni si concluda la nostra conoscenza del mondo, ma certamente si conclude il nostro “modo” di conoscerlo.
Stando così le cose, lei capisce l’importanza che assumono le persone che assistono i bambini nei loro primi anni, a partire dai genitori, che essendo i più presenti hanno una grande influenza nella costruzione di queste mappe.
I bambini segnalano la modalità con cui cominciano a conoscere e sentire il mondo attraverso i primi scarabocchi e disegni. Se quando li mostrano alla mamma, questa risponde: «Adesso non ho tempo, te li guarderò dopo» (che vuol mai) il bambino ricava l’impressione di non aver fatto nulla di interessante e, al limite, di non essere interessante con i suoi lavori per sua madre. Ora, se consideriamo che l’identità che il bambino va costruendo in quei primi anni è frutto del riconoscimento, è ovvio che un misconoscimento non aiuta questa formazione, o quantomeno la sfiducia. Crescendo, poi, il bambino comincia a chiedere il perché di tutte le cose. In pratica, e a sua insaputa, sta cercando il nesso causale che lega una cosa a un’altra. È stata questa la prima mossa che l’umanità ha compiuto per difendersi dall’imprevedibile che genera angoscia, la quale a sua volta paralizza pensiero e azione: se io conosco la causa di un certo evento ne prevedo l’effetto e la previsione mi sottrae all’angoscia dell’imprevedibile. Se ai “perché” dei bambini, che a volte pongono questioni non dissimili da quelle filosofiche, si risponde: «Quando sarai grande capirai», ancora una volta il messaggio che si invia suona come una svalutazione della domanda e quindi del bambino che l’ha posta.
E ovvio a questo punto che i genitori hanno una grossa responsabilità nella formazione delle mappe cognitive ed emotive, che in età adulta difficilmente si lasciano modificare. E se la costruzione di quelle mappe non si cura, il bambino costruisce da sé come può, attraverso ciò che vede e ciò che sente e in base ai messaggi che riceve quando si espone e chiede. Per questo è importante ascoltare i bambini, curare da vicino i loro progressi gratificandoli a ogni passo, rispondere alle loro domande con serietà e non ridendo della loro ingenuità.
Se tutto quello che abbiamo detto è vero, ricondurre le sofferenze dell’adulto a come le sue mappe si sono formate nell’infanzia, e quindi ai suoi genitori che con la loro presenza o la loro assenza hanno contribuito a formarle, non significa incolpare i genitori per guadagnare a buon prezzo una seconda innocenza, ma riportare quel che di positivo o di negativo ci accade alla loro radice, perché la consapevolezza è la prima condizione per accedere a un possibile cambiamento e a un miglioramento del nostro stile di vita.
D la repubblica, 26 marzo 2016
Aveva ragione mio padre… per fare i genitori ci vuole il patentino… e lui, buinanima, avrebbe fatto mto fatica ad ottenerlo… mia madre ancor più… che tristezza…
È una tragedia
un bimbo ha la capacita innata di “leggere” le espressioni dei “caregivers” cioe di coloro, genitori o sostituti, che li allevano. Certo i genitori danno un affetto inconfondibile e forse ineguagliabile. Ma hanno anche il problema di proiettare sui figli leloro aspettative, paure, delusioni e, quindi, spesso spingerli a formarsi un’idea negativa, debole di se stessi. Talvolta i bambini istituzionalizzati crescono piu “liberamente” , senza pressioni o pregiudizi e si formano un’immagine anche piu forte di se stessi… Certo manca loro l’amore della mamma, ma i bambini, che io conosco bene, hanno risorse incredibili….
È del tutto affine alla teoria sviluppata dalla linguista Helen Doron, che col suo metodo di insegnamento dell’Inglese a bambini a partire da 3 mesi, esalta le capacità di apprendimento dei neonati, per porre le basi di una conoscenza della lingua straniera al livello della lingua madre
No purché ci siano delle figure di riferimento adulte ( vedi educatori) che facciano le veci in parte dei genitori. E questo a volte è possibile…
Non dimentichiamo, per esempio, l’esperienza di Loczy. Certamente particolare, ma che ha dimostrato che si può fare moltissimo nelle situazioni di disagio divenendo riferimento anche per la situazioni cosiddette “normali.
Ok mi sta anche bene ma che dire allora dei bimbi che crescono in istituto ed entrano in famiglia a cinque,sei otto anni?
Per loro è persa?