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È meglio studiare il mondo o farne esperienza?

Umberto Galimberti

LA REALTÀ E FILTRATA DALLE TECNOLOGIE E SOLO CHI PENSA MOLTO RIESCE A DISTINGUERE IL REALE DALL’IMMAGINARIO

“Esperienza” è una parola equivoca. Il rimprovero di non aver fatto esperienza, parte dal presupposto che l’esperienza sia offerta dalla realtà che basta frequentare per fare, appunto, esperienza.

Di fatto la realtà non è mai accessibile se non nella forma già codificata da un’interpretazione collettiva, a cui si aggiunge un’interpretazione personale. L’uomo, infatti, non ha mai abitato la realtà, ma sempre e solo l’interpretazione che le varie epoche ne hanno dato. Se infatti è vero che nel mondo antico la realtà era descritta dal mito, nel medioevo dalla visione religiosa, nell’età moderna dalla scienza, e oggi dalla tecnica, ci è consentito dire che gli uomini non hanno mai conosciuto la realtà, ma solo la sua interpretazione: prima mitica, poi religiosa, poi scientifica e ora tecnica.

Se non fosse stato cosi non potremmo parlare di storia e di successione di epoche. All’interno di questa interpretazione collettiva della realtà, c’è poi l’interpretazione personale, per cui quando i padri dicono ai figli e i vecchi ai giovani: «Parlo per esperienza», la loro esperienza non è di alcuna utilità.

Come scrive infatti il filosofo Andrea Tagliapietra in un bellissimo libro uscito in questi giorni dal titolo “Esperienza” (Ed. Cortina): «Nell’era di internet, dello smartphone, dei Google Glass e degli altri apparecchi tecnologici che affollano la nostra vita quotidiana con la capillarità di un”ossessione psichica e l’invadenza di protesi corporee, l’esperienza appare sempre filtrata, mediata da dispositivi composti da schermi che tocchiamo ma non attraversiamo mai e che, quindi, non ci fanno mai toccare il mondo››.

Se un tempo l”uomo doveva percorrere il mondo per esplorarlo e farne conoscenza, ora, tramite radio, televisione, internet, il mondo ci è fornito a casa come l’acqua, il gas, la luce e ciò modifica radicalmente il nostro modo di fare esperienza. Se per conoscere quel che avviene nel mondo dobbiamo tornare a casa, non «siamo più nel mondo» come vuole l’espressione di Heidegger, ma siamo semplici consumatori del mondo, di cui peraltro consumiamo solo le immagini. Le quali, potendo essere evocare in qualsiasi momento, confondono in noi i concetti di “limite” e di “onnipotenza” a stretto confine col mondo dei sogni e delle allucinazione. Se infine l’importanza di un fatto dipende dalla sua diffusione mediatica, allora la realtà dovrà misurarsi sull’apparire, anzi sulla sua illimitata duplicazione. Di questa noi facciamo esperienza, non della realtà.

Ci veniamo così a trovare in una condizione analoga a quella descritta da Günther Anders in quel Racconto per bambini dove si narra questa storia: «Il re non vedeva di buon occhio che suo figlio, abbandonando le strade controllate, si aggirasse per le campagne per formarsi un giudizio sul mondo; perciò gli regalò carrozza e cavalli: “Ora non hai più bisogno di andare a piedi” furono le sue parole. “Ora non ti è più consentito di farlo” era il loro significato. “Ora non puoi più farlo” fu il loro effetto».

Se l’esperienza non è un contatto con la realtà come i più credono, ma con l’interpretazione collettiva e individuale della realtà, e oggi con le immagini della realtà fornite dal media, il fatto che una persona pensi molto e si ponga domande significa che è nelle condizioni migliori per decodificare le interpretazioni della realtà e per smascherarne le immagini, che i più scambiano per realtà perché vivono solo nella realtà diffusa dai media.

D La Repubblica 19 AGOSTO 2017

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