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Dopo 50 anni, verso una Scuola aperta

Ferruccio Cremaschi

Direttore responsabile Zeroseiup


Il 18 marzo 1968, cinquant’anni fa, veniva approvata la legge 444 “Ordinamento della scuola materna statale”, presidente del Consiglio Aldo Moro, ministro dell’istruzione Luigi Gui, presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.

Fu una conquista storica osteggiata da molte forze che ritenevano la scuola dello Stato un’indebita ingerenza nella sfera dei diritti della famiglia all’educazione dei figli. Si affiancava alle esperienze avviate in molte città italiane dalle amministrazioni comunali che in molti casi erano intervenute per fronteggiare il bisogno di assistenza delle famiglie e dei bambini con impegni anche massicci dal punto di vista numerico (pensiamo alle esperienze ormai scomparse di Napoli, Foggia, Messina, …) e avviando in molti casi esempi di innovazione e qualità che restano ancora oggi riferimento a chiunque si occupi d’infanzia in Italia e all’estero.

Superate le resistenze iniziali la scuola dello stato si estese poi sempre più assorbendo e sostituendo in molti casi l’impegno degli Enti locali, fino a rappresentare oggi la garanzia della generalizzazione e una presenza diffusa in tutte le Regioni.

La storia di questa scuola ha visto momenti felici, progetti innovativi (ricordiamo solo ASCANIO e ALICE) che hanno segnato la qualità dell’educazione dell’infanzia fino a portare il ministro Luigi Berlinguer il 23 luglio 1999 in seduta parlamentare a definirla “il gioiello di famiglia”.

Una storia gloriosa a partire da una legge peraltro mai completamente attuata.

E dopo cinquant’anni?

Abbiamo raccolto in questo numero alcune voci rappresentative a diversi livelli (universitari che hanno determinato momenti importanti dello sviluppo della scuola, ispettori e dirigenti che ne hanno seguito lo sviluppo nel tempo, ma soprattutto insegnanti che ancora oggi, giorno dopo giorno, ne costruiscono la cultura e l’esperienza) chiedendo loro una riflessione su dove può andare la Scuola dell’infanzia.

A lato, in maniera sommessa, introduciamo anche noi qualche riflessione.

 

***

 

Uno sguardo più ampio

Il diritto all’educazione dalla nascita è ormai riconosciuto a livello universale ed è dimostrato che proprio intervenendo nei primi anni di vita si rompe la spirale del disagio e dell’esclusione.

Il diritto di ogni bambino e di ogni bambina di poter accedere a un percorso di crescita armonica e di formazione, si interfaccia con il dovere della comunità civile di offrire percorsi accessibili e adeguati.

Nel tempo rispetto all’attenzione ai processi di sviluppo del singolo bambino (ogni bambino e ogni bambina ha peculiarità diverse, tempi diversi di maturazione, ritmi personali con naturali accelerazioni e rallentamenti), hanno preso dominanza le esigenze organizzative della “struttura scuola” che ha ingessato tempi e spazi dell’educazione, e spesso prevale l’attenzione ai diritti dei lavoratori (insegnanti) rispetti ai diritti dei bambini.

Le conseguenze più banali che possiamo osservare direttamente è che la scuola diventa sempre più lontana dalla comunità. La scuola è uno strumento importante per l’educazione, ma è uno degli strumenti e delle occasioni. L’educazione avviene nel territorio, nel paese, nella comunità dei vicini. Se una scuola non è più abbastanza flessibile per rispondere alla domanda di un territorio anche se i bambini sono pochi e non rispettano gli standard medi nazionali, probabilmente la scuola tradisce la sua missione.

Sono molte le situazioni in cui la presenza della scuola (soprattutto di quella dei piccoli) influenza e condiziona la sopravvivenza stessa di un paese. Quanti sono i villaggi ormai spopolati perché al diminuire dei bambini, si è spostata la scuola a valle determinando così lo spostamento delle famiglie giovani e quindi esasperando la spirale della decrescita? E cosa potrebbe significare per la comunità locale in situazioni di emergenza (come in presenza di terremoti, fatalità non più remota in molte Regioni) la possibilità di riaprire la scuola in presenza anche di un numero esiguo di bambini di età diversa tra loro?

 

Rigidità del sistema a scapito dello sviluppo del bambino

Finora abbiamo parlato degli aspetti sociali, ma qualche riflessione può essere fatta anche dalla parte del bambino.

D’altro lato è sempre più diffuso il problema degli “anticipatari”, dei bambini classificati anticipatari perché vanno a scuola prima della data stabilita come standard generale per l’accesso alla scuola. Ma è pensabile che tutti i bambini maturino entro il 30 settembre o il 31 gennaio? E se sono nati qualche giorno dopo abbiamo bisogno di un anno per maturare? È un problema che riguarda il rispetto del bambino o è un problema di organizzazione?

 

In altri Paesi succede

Una risposta ci sarebbe. Una risposta facile a livello culturale e organizzativo, complicatissima perché mette in discussione regole burocratiche e tranquillità acquisite. Eppure esiste e funziona in molti paesi europei. Il concetto base è che lo Stato (nelle sue articolazioni) ogni anno assegna a ogni Comune o ente territoriale un numero di insegnanti in proporzione al numero dei bambini aventi diritto all’educazione (con dei correttivi in presenza di portatori d’handicap o di altre problematiche). Il Comune (o il responsabile della scuola) organizza il servizio utilizzando al meglio le risorse. Quindi sono possibili anche scuole con 15 o 20 alunni senza bisogno di ricorrere a trasferimenti e scuola bus.

Questa soluzione esisteva anche da noi prima di essere etichettata come una soluzione “povera”, ed erano le pluriclassi. Sono scomparse con il boom demografico perché l’urgenza del problema era diventato portare tutti a scuola. Nel momento che il trend della natalità si è rovesciato, perché non possiamo ragionare su risposte più attinenti alla realtà che viviamo? Certo la soluzione non sta nel mandare in posti che richiedono più dedizione e più attenzione educativa, gli ultimi della graduatoria. Vanno pensati incentivi e forse quella che sembra una soluzione di emergenza si rivelerà una soluzione di eccellenza.

Non può essere una decisione presa a tavolino, è un processo a cui debbono partecipare le famiglie e tutta la comunità locale. In cui tutti gli adulti debbono riprendersi in carico l’educazione dei loro piccoli.

 

Riflettiamo?

È una risposta alle esigenze del territorio e della comunità, ma ha in sé anche la risposta alle esigenze del singolo bambino che in un gruppo eterogeneo per età non è più sempre e solo quello piccolo, ma gioca ruoli diversi, è di volta in volta piccolo e grande. Finalmente non è più anticipatario rispetto a una struttura calata dall’esterno, ma può ambire a vivere con serenità il suo sviluppo secondo i ritmi e le velocità della sua crescita.

 

È fattibile? L’ipotesi presentata così sinteticamente sembra molto complicata, ma avviare qualche sperimentazione in territori diversi con un Comitato scientifico e parametri di controllo precisi, forse ci porterebbe a conclusioni molto stimolanti. E anche per i docenti potrebbe essere una bella scommessa di rinnovamento della professionalità e di apertura di nuovi orizzonti.

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