Di Andrea Köhler, scrittrice e giornalista tedesca
“A mio parere i bambini sono i più bravi ad aspettare, perché ancora non diffidano (dell’attesa), perché non sono ancora costretti a condannarla come priva di valore culturale”, scrive Wilhelm Genazino nel suo saggio Der gedehnte Blick (Lo sguardo allargato). Ma anche se i bambini non considerano ancora l’attesa come tempo sprecato, nell’infanzia il più delle volte viene vissuta con un senso di impotenza. In fondo la vita ci insegna molto presto l’esercizio del rimandare: abituarsi a orari decisi da altri, controllare il nostro intestino, accettare il ritmo giorno-notte. Nella vita umana, la prima lotta per il potere si svolge sul terreno dell’attesa, cercando di imporre una disciplina al corpo. Nelle primissime ore di vita dobbiamo riconvertirci in uno strumento che obbedisce all’orologio. La prima cosa a essere allenata nell’esistenza è la pazienza.
“Il saper aspettare, il dover aspettare è la condizione fondamentale di ogni comprensione”, scrive Genazino. Eppure nel cosmo infantile l’attesa è ancora vissuta come qualcosa di limitato. L’attenzione del bambino è “legata al piolo dell’attimo” – come lo è, secondo Nietzsche, per l’animale – l’attesa per lui costituisce una sequenza di momenti indefiniti limitata nel tempo. Una condizione, dunque, che durante l’infanzia è un tempo privo di sospetti, da riempire di sogni a occhi aperti. Le ore che non sono scandite dalle richieste degli adulti sono perciò animate da un’instancabile opera di correzione della realtà e l’attesa è la prima sperimentazione del pensiero utopistico, della resistenza contro un mondo in cui le nostre vite sono pianificate dagli altri.
Certo, quando eravamo piccoli spesso il tempo diventava anche pericolosamente lungo. Le ore desolate in cui seguivamo gli adulti nelle loro commissioni, la noia senza fine di prolungate visite ai parenti, durante le quali non c’era altro da fare che stare seduti in silenzio, si sono incise con chiarezza nel ricordo e alcuni sogni ci riportano questi vecchi tormenti. In piedi, accanto a una finestra – istintivamente, quando si aspetta, si cerca a orizzonte aperto -, da bambini abbiamo per la prima volta preso consapevolezza del tempo a livello fisico: una cupa presenza nelle viscere, un atroce allungarsi e tendersi dalla testa ai piedi. I minuti si tramutavano in gomma da masticare, prolungandosi all’infinito, il corpo diventava un tavolo di tortura. Ma anche nell’infanzia poteva capitare di desiderare ardentemente un rinvio; chi non ricorda il violento batticuore con cui aspettavamo ansiosi che venisse scoperto un misfatto, i minuti di angoscia durante i quali speravamo che il tempo potesse trasformarsi in un lungo non-ancora e che il nostro “crimine” prima o poi cadesse in prescrizione?
Tuttavia la messa in scena dell’attesa è tipica del primo periodo della vita. L’attesa gioiosa della mattina del compleanno di Gesù Bambino, l’eccitazione, quando si accendono le luci nella stanza dove si distribuiranno i regali: è il classico inventario delle attese festose. Il ricordo trasforma volentieri questi momenti in idilli dell’infanzia, quando attendere e pregustare una gioia erano ancora, così pareva, una cosa sola. Ma mai l’attesa ha messo del tutto da parte, anche nelle promesse, la sua missione pedagogica. “Domani, bambini, qualcosa accadrà”: non sembra di sentire anche la bacchetta? Le attese dell’infanzia sono sempre state fragili idilli. Persino il calendario dell’Avvento lega l’attesa alla tentazione e al divieto e, nel caso la tentazione sia più forte (quella di aprire subito tutte le porticine, di saccheggiare i pacchetti), aiuta a riconoscere con amarezza che chi non sa aspettare deruba se stesso della dolce ricompensa della pazienza.
Tratto da: Andrea Köhler, L’arte dell’attesa, add editore, TO, 2017