Le voci delle protagoniste
La ricerca sullo sviluppo neurobiologico nei primi anni di vita ha ormai indicato con chiarezza che la costruzione equilibrata, aperta e flessibile della personalità infantile è in funzione della possibilità di sperimentare relazioni stabili e continuative con alcune figure privilegiate. Il poter godere di modalità relazionali e di accudimento ripetute e prevedibili, rispetto a cui stabilire aspettative sempre più rassicuranti circa la qualità di ogni interazione, è la base dell’organizzazione di un sistema nervoso capace di integrare un numero sempre più ampio di esperienze, di rappresentazioni e di vissuti: pertanto capace di far fronte in modo costruttivo ai livelli crescenti di stimolazione attualmente proposti dal contesto di vita.
Nelle comunità che accolgono bambini piccoli, ogni dettaglio organizzativo della giornata, delle cure e delle attività all’interno e all’esterno è sempre oggetto di riflessione e di confronto nei gruppi di lavoro. La realizzazione di un approccio educativo basato su una modalità fortemente individualizzata prevede piccoli gruppi stabili di bambini, affidati inizialmente ad una educatrice preferenzialmente in uno spazio dedicato. Una presenza stabile e continuativa soprattutto nei momenti delicati dell’accudimento corporeo, in grado di riconoscere i bisogni e le caratteristiche personali di ognuno e che guarda i vari passaggi della vita nel nido attraverso gli occhi di ogni bambino e dei suoi genitori. È la persona che contiene nella mente lo stato emotivo di ognuno, proponendosi come un ancoraggio affettivo negli inevitabili momenti di disagio, di inceppamento o di ansia legata all’esplorazione del nuovo e all’interazione sociale in fase di sperimentazione. Elinor Goldschmied ha considerato questa modalità organizzativa come “la chiave” per lo sviluppo.
Che cosa significa nella pratica organizzativa dei nidi essere una persona chiave?
Occorre, in premessa, togliere di mezzo una serie di scorrette interpretazioni e di pregiudizi che hanno ridicolizzato e svilito questo ruolo quasi come un sottotipo di maternage o di baby- sitteraggio in un contesto collettivo, con il rischio di coinvolgimenti e di rappresentazioni improprie del proprio ruolo educativo come esclusivo (“i miei bambini”). Al contrario, nel riconoscimento che la dimensione del gruppo è il perno dell’organizzazione del nido, questo approccio implica che l’educatrice lavori con le colleghe, condividendo nel gruppo di lavoro le emozioni suscitate dal rapporto con ogni bambino e con i suoi genitori: nella valorizzazione del gruppo di lavoro come spazio privilegiato dove pensieri, vissuti e decisioni vengono condivisi e esplicitati, nel rispetto dell’individualità di tutte le colleghe.
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Ecco alcune testimonianze di educatrici che si sono cimentate nel ruolo di persone-chiave:
(Sara, APSS)
“Essere persona chiave è un’esperienza sempre nuova, ricca di responsabilità ma anche di emozioni, a volte contrastanti tra loro. Il pensiero va immediatamente ad una frase del “Piccolo principe”: ‘In principio tu ti sederai un po’ lontano da me, così nell’erba. Io ti guarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino’. C’è sempre la consapevolezza che questi primi sguardi rappresentano solo l’inizio di una relazione. All’inizio di ogni anno educativo con un nuovo gruppo c’è sempre l’emozione del primo incontro, la curiosità di scoprire e conoscere, prima attraverso le parole dei genitori, e poi di persona, i bambini con i quali si condividerà un cammino importante e significativo non solo per la loro crescita ma anche per la nostra, sia dal punto di vista professionale che umano. Ogni bambino suscita in noi diverse emozioni, tocca diversi aspetti del nostro essere, a volte inaspettati. Per questo è importante imparare ad ascoltarci, essere consapevoli di ciò che proviamo, imparare a leggere e gestire le nostre emozioni, essere in grado di riconoscere e accettare i nostri limiti e sapere eventualmente chiedere un confronto, un aiuto. Essere persona chiave, infatti, significa creare un legame speciale con i bambini ma anche con le loro famiglie. Il continuo confronto con i genitori ci permette di conoscere sempre meglio il singolo bambino, scoprire il suo mondo, i suoi affetti. Si entra a far parte di una rete di relazioni”.
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(Valentina,UNITN)
“Mi sono avvicinata a questo mestiere percependo la responsabilità del mio fare con i bambini. Esserci nei momenti di cura e nei momenti di difficoltà. Esserci nei disagi quotidiani, nei pianti, nella gestione delle contese e nelle piccole cure di ogni giorno, come soffiare il naso. Soprattutto nei momenti di condivisione con altre colleghe, prendersi carico del bambino che ti è stato affidato. Questo intensifica la relazione e fa la differenza nei momenti di maggiore crisi.
Un’altra cosa che mi ha fatto diventare persona chiave è stata l’osservazione. Notare le sfumature di ogni bambino, i suoi cambiamenti. Essere persona chiave per quei bambini per me significa accogliere emozioni, riconoscerle, elaborarle, restituirle e decidere di viverle. È viaggiare con i bambini e le famiglie e non a fianco. Sempre in continua crescita personale.
Cosa mi ha aiutato? La presenza assidua del coordinamento, il sentirsi ascoltato e mai giudicato, il non imporre direttive, ma far nascere dentro di me delle domande a cui io stessa davo risposte nel confronto continuo con il gruppo di lavoro. Il mio consiglio pratico per le nuove educatrici: avere a fine giornata un pensiero, un ricordo di ogni bambino: così da tenerli nella mente e nel cuore.
Essere educatrice e non fare l’educatrice”.
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(Ketti, APSS)
“Il nostro è un servizio connesso ad un ospedale, in cui ci sono accoglienze dalle 6.30 del mattino e ricongiungimenti fino alle 21.30 della sera (le ‘fasce estreme’): alcuni bambini arrivano in pigiama o ancora addormentati e altri il pigiama lo indossano per tornare a casa la sera. Nel nido si condividono anche la colazione e la cena: situazioni che solitamente chi frequenta un “classico” nido vive in famiglia.
Quando ho iniziato quest’ esperienza mi sono sentita un po’ come un bambino che si ritrova al primo giorno di ambientamento: curiosa e molto emozionata, ma allo stesso tempo con la necessità di avere qualcuno al mio fianco, che potesse accompagnarmi verso il nuovo e riuscire poi a trovare stabilità e riferimenti sui quali appoggiarmi.
Essere persona chiave nelle ‘fasce estreme’ ha significato per me condividere questi momenti con ogni bambino, accoglierlo fin dal risveglio oppure prepararlo per la notte: momenti che per i bambini sono molto preziosi e particolarmente delicati, in quanto di solito si vivono con mamma e papà. Mi sono sentita ancora più speciale, perché ho vissuto con loro momenti di cura che richiedono fiducia e intimità e spesso ho provato tenerezza nel vederli arrivare accoccolati in una coperta. Sono momenti fatti di tempi più lenti ed individualizzati, in cui ogni bambino necessita di stabilità. Personalmente ho sempre cercato di dare importanza ai rituali e alle attenzioni personalizzate. Essere la loro persona chiave significa facilitare per ognuno la possibilità di relazionarsi in fiducia ed interagire con compagni, educatrici della stanza, cuoche, ausiliarie e coordinatrici”.
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(Antonella, UNITN)
“Partendo dall’idea che nessuno conosce meglio il bambino dei suoi genitori, ho iniziato a conoscere, ascoltare ed osservare i bambini attraverso gli occhi dei genitori e a guardarli nelle loro relazioni. Ho sentito forte la responsabilità del mio ruolo. L’ambientamento porta a galla tanti aspetti e vissuti che mi hanno permesso di conoscere sempre meglio questa diade, ma che giorno dopo giorno è diventata una triade. Ci è voluta tanta pazienza e ascolto per avere “in mente” ogni singolo bambino/a nella sua unicità e individualità. Dare e darsi tempo per compiere questi passaggi.
Durante gli ambientamenti osservavo i bambini, ero presente per loro con la postura, il tono della voce, gli sguardi e con gli oggetti (che preparavo quotidianamente). La relazione con loro è nata anche da questi piccoli gesti, aspettando che siano loro ad avvicinarsi a me. Ho dovuto fare i conti anche con la mia emotività. Il lavoro su sé stessi, è un esercizio costante e impegnativo: tenere a bada degli istinti, voler agire, essere consapevoli delle personali paure o ansie, l’essere “rifiutati” o non essere accettati da alcuni bambini, affrontare i pianti di alcuni di loro, sono aspetti che bisogna tenere presente e che inizialmente possono rivelarsi delle difficoltà. Abbiamo lavorato su noi stesse e dato cittadinanza alle nostre emozioni, per accogliere quelle degli altri. Stare seduti ci ha sollevato da un carico fisico e ci ha permesso di crescere nel nostro lavoro diventando strumento e mezzo per l’osservazione a tutto tondo.
Negli anni abbiamo passato questo messaggio anche ai genitori, che all’interno della stanza hanno trovato un luogo dove stare (so-stare), osservare il bambino e avere un confronto anche con gli altri genitori. È un lavoro difficile, impegnativo, ma estremamente appagante, pieno e profondo. Non so dire vantaggi o svantaggi ma dico solo che va vissuto con tutta te stessa. Questo ti cambia. Credo che l’alleanza con il gruppo di lavoro e con i genitori siano le basi per raccogliere e apprezzare tante conquiste sia professionalmente, che personalmente”.
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Per concludere: questo approccio, certamente impegnativo in quanto richiede condivisione, cura e supervisione, permette di facilitare nel nido la creazione di relazioni sicure tra i bambini, i genitori ed il personale. Nei bambini si potenzia la capacità progressiva di auto-regolazione e l’affermarsi della consapevolezza dei propri stati interni, emozioni e pensieri, nell’esperienza interiore di Sé come persona, in grado di mentalizzare le esperienze con le persone e le cose. In una fase evolutiva in cui camminare con le proprie gambe implica anche il capire che diventare grandi significa sentirsi soli, la presenza costante, ma un passo indietro, di un adulto che accompagni con lo sguardo, permette di costruire sicurezza e resilienza.