
Loris Malaguzzi
“Bambini”, Elemond, Milano, Anno X, n. 1, gennaio 1994, pp. 8-9
1.
I ragazzi hanno riposto (solo per una sosta contingente, speriamo) le loro bandiere. Il Natale, le vacanze, hanno smorzato l’eco e i rumori dei giorni della protesta, delle scuole occupate, delle piazze ribollenti di ragioni e di riti, dei titoli grossi su stampa e TV. L’urto, il Paese l’ha sentito eccome.
Cento, mille motivi per scendere in piazza, hanno commentato i giornali. Ma poi in verità si andava al bivio: solidarietà piena, esplicita e sincera per il movimento?
O ambasce e tremori che esso potesse superare livelli di trasgressione?
Il mondo dei grandi continua ad essere pieno di doppiezze.
Già abbiamo visto molta brava gente spiluccare la testa dei ragazzi per contarne i grani di saggezza, levità e morbidezza. Morbidezza nelle occupazioni, nei cortei, nelle parole d’ordine, nelle richieste. Sì, ma. Bene, però. Giusto, ma attenzione. Abbiamo visto molti indifferenti, molti pilati, molti silenti e pietisti. Sia privati che pubblici. Abbiamo visto l’aulico distacco di quasi tutte le Università, gli improvvisi acciacchi di non pochi presidi, le minacce di qualche uomo di tribunale, le amnesie degli ex sessantottini, le scarsità reattive della gente di scuola, le imperturbabilità dei docenti della secondaria di fronte al rinvio della riforma.
E, fuori, nella più larga società già oppressa da mille sofferenze, lo spessore di una incompetenza e insensibilità verso la scuola, i suoi ruoli, le sue decadenze, i suoi obblighi traditi di essere accanto alle ansie, alle domande, alle speranze dei giovani. Questo è lo scenario entro cui (e contro cui) centinaia di migliaia di ragazzi hanno costruito la loro ribellione contro l’intollerabile degenerazione dell’istituzione scolastica di cui vengono finalmente avvertite le sue inveterate bassezze di diserzione e fallimento in una stagione che da tempo avanza nuovi e inesplorati modelli di formazione culturale con una molteplicità mai considerata di invenzioni tecnologiche e problemi che toccano il destino della socializzazione e della convivenza umana.
2.
Credo si debba molta, ma molta ammirazione per i ragazzi del ’93. Hanno inventato, senza aiuti, mille congegni di organizzazione e comunicazione. Hanno sventato timori, pressioni, dubbi persino presenti nelle loro famiglie. Hanno liberato energie da anni soppresse da una scuola sinistramente fatta ineducata e passiva da false avanguardie di predicatori. Hanno letto e studiato i papiri del Ministero facendo ricorso a capacità di lettura mai esercitate. Hanno resistito alle suggestioni strategiche di forze e da gruppi, inventandone di nuove con coraggiosa autonomia e slargando piani di alleanze.
Le vie, le piazze, le notti di occupazione sono stati luoghi dislocati, lontani dalle vecchie sedi, per misurare la loro rabbia e maturità.
La scuola deve cambiare. Ma cambierà? E bene che i ragazzi, mentre chiedono con perentorietà di partecipare al cambiamento con pienezza di diritti e poteri, sappiano quanto è successo ai ragazzi e ai giovani del ’68 edell’85. Sappiano le cifre e i dati della vergogna accumulata in Europa dalla scuola italiana dopo anni di infeudamento alle devastanti demagogie corporative e clientelari. Sappiano esigere con forza assoluta una scuola che garantisca la sua cultura e la sua democrazia, ricollocando al centro delle questioni i diritti, le responsabilità e le dignità dei soggetti che crescono e apprendono. Sappiano soprattutto quanto nell’avventura iniziata è da percorrersi fino in fondo, giochino il loro avvenire e la qualità non solo della loro vita.
Ma è decisivo che il mondo dei grandi sappia finalmente capire come fatto di emergenza nazionale tutto ciò che unisce il dramma e gli interrogativi delle giovani generazioni, la riforma dei contenuti e delle forme dello studio, le attese e le battaglie per una democrazia pulita e godibile.