Pietro Ingrao
Poeta
Il titolo di questo intervento è tratto da un mio articolo che apparve sull’ Unità in morte di Ayrton Senna in quella tragica corsa sull’autodromo di Monza. È un titolo un po’ immaginoso e preso a sé può forse prestarsi a una distorsione, o a una lettura non esatta, quasi fosse l’invocazione di un mondo a sé per “i lenti”. Io non so com’era l’Eden dove vivevano (ma si può adoprare questa parola nel senso che diamo a essa ora?) Adamo ed Eva. Non so nulla della loro esistenza nell’Eden. Forse non correvano mai. So però che questa nostra Terra non è un Eden; e un angelo con la spada lucente cacciò via dal paradiso terrestre Adamo ed Eva nostri progenitori: li precipitò in questo sperduto pianeta dove oggi viviamo. Forse si potrebbe mutare il titolo così: cè posto su questa Terra, in questa nostra vita umana per la ”lentezza”? Oppure è una colpa, un disvalore, un obbrobrio? Quanto a me confesso che la vita a una sola dimensione mi spaventa, mi dà un po’ di nausea. Non ho rancori verso la velocità; ma non amo molto gli orologi.
In una poesia che ho scritto, dico:
anche se
ora non c’è tempo, e gli orologi gentilmente
ci sorprendono ogni secondo, ci scoperchiano
acquattati, ci agguantano.
Ecco: noi acquattati e gli orologi che ci agguantano, ci tirano le orecchie, ci mettono in riga, e noi con ira, con dolore, con riluttanza obbediamo…
Eppure sin dalla nascita, subito, oscuramente, a occhi chiusi, ci volgiamo per succhiare al seno della madre, siamo stretti a un rapporto con il tempo. Anzi, prima ancora, già nel profondo del ventre materno, qualcuno (chi? Dio? la materia?) ci vincola a una scansione: ci immette nel grande fiume del corso del tempo, segnato dall’emergere e scomparire della luce, e poi dall’ombra su una meridiana, o dai rintocchi di una campana, dalla voce del muezzin, dall’oscillare del pendolo: sino al bisogno assoluto di avere sempre con noi, stretti al nostro stesso corpo, il minuto quadrante che ci sorveglia e ci dice: attenti, è l’ora, è questa ora. Sappiamo persino che Gianni Agnelli porta l’orologio sopra il polsino della camicia: per eleganza o perché il suo tempo è così prezioso? Così camminiamo continuamente misurando il tempo, attenti spasmodicamente al suo consumarsi.
Se è così, se siamo così profondamente a favore dalla corsa del tempo e nel tempo, perché allora mi porto appresso questa mia ostile riserva verso tale piccolo, minuto quadrante che – unico fra tutti – accompagna me stesso in ogni istante, per tutta una vita? Perché questo mio rancore sottile verso di lui, mescolato a tanto rispetto e obbedienza supina? Perché ho paura di fare tardi? Perché ho 1’impressione che esso, alla fine, mi inganni.
L’orologio mi restituisce la quantità astratta del tempo che vola. Ma non sa darmi il mio tempo reale (o quello di un altro): la lunghezza eterna di certi attimi, d’uno sguardo o di un abbraccio, e il vuoto di certe ore tediose che non passano mai. Non mi dà insomma la disuguaglianza profonda del
tempo reale. Non me la dà perché non la conosce, o – di più — perché essa nella sua indicibilità si sottrae alla misurazione quantitativa. E perciò mi sento turlupinato dal mio orologio. E così diventa opinabile la stessa differenza tra la velocità e la lentezza.
Più esattamente sentiamo che ogni giorno, ogni minuto siamo giudicati secondo lo scatto della lancetta sul quadrante, il quale misura il tempo esterno, ma non sa dire lo scorrere del tempo reale per la moltitudine di volti, occhi, bocche, passi del fiume di persone che vediamo scorrere sul
boulevard di una metropoli. E forse non ci sa dire bene nemmeno di quel singolare essere umano che ha corso i 100 metri al di sotto dei 10 secondi, oppure di quegli attimi fatali che hanno visto Ayrton Senna sbandare e avviarsi verso lo schianto sul bordo dell’autodromo di Monza.
Appunto: l’orologio misura la quantità .astratta del tempo, e non lo scorrere concreto del vivere. Quante volte avrei sveglia di sedermi sul bordo della strada o al tavolino di un caffè soltanto a guardare, a scrutare i volti (e i tempi) degli esseri umani – quasi sempre assorti – che scorrono nel fiume della strada. Quali sono – uno per uno – i loro tempi?
Ma se tale appare la difficoltà di misurare i tempi reali, concreti, di ognuno, perché oggi appaiono cosi inferiori i “lenti”? Certo, sembra strano che potendo andare da Roma a Milano in un’ora di aereo uno si metta a camminare a piedi per andare da Piazza Montecitorio, a Roma a Piazza del Duomo a Milano. E diciamocelo tra di noi: chi oggi non ha la macchina o almeno un motorino ci sembra quasi un disgraziato: se si può correre,perché indugiare?
Anche quando facciamo lunghe camminate a piedi, lo facciamo per tenere pronti e desti i nostri muscoli: per disporci e prepararci alla velocità quotidiana. L’indugio è un disvalore. Non mi stancherò mai di ripeterlo: quando mi trovo dinanzi a una telecamera della tv l’assillo che mi prende
subito è: devo rispondere presto, senza esitazione; essere scattante, immediato, veloce. Che non ci sia nulla di incerto, nulla di esitazione, e nemmeno nulla che dia la sensazione che io – sia in dubbio, che io stia cercando, o anche solo che io invochi tempo per cercare.
Ecco ciò sta diventando oggi — ogni ora, ogni minuto, e con 1’occhio severo .dei media – l’indugio che cerca, che dubita, diciamolo pure l’esitazione. Siamo nella civiltà solare degli assoluti, in-esitazioni. É strano che sia così in questa conclusione del Novecento, in questo che è stato il secolo di Kafka. Forse è cosi perché il Vincitore di questo secolo è la macchina. La macchina non esita, non piange, non dubita, non s’innamora.
Ricordiamo ancora un momento Charlot, Tempi moderni. Non solo l’episodio indimenticabile dell’omino che .corre disperatamente, con le mani tese, per inseguire il bullone da avvitare sulla friggente catena che diventa protesi della macchina, e difatti impazzisce. C’è in quel film un altro episodio forse ancora più denso ed esplicito nel suo significato: la scena in cui Charlot è scelto come cavia di un esperimento della macchina “ingozza-cibo”: della macchina che gli porta automaticamente il cibo alla bocca, e anche la salvietta per asciugarsi, e gli cambia il piatto e gli porge il bicchiere. Ricordate la conclusione di quella vicenda? Lo spettacolo irresistibile della macchina impazzita che sbaglia a imboccare, asciugare, pulire, distribuire il cibo e l’omino Charlot affranto, desolato.
A guardar bene però non è la macchina che è sbagliata, o ancora imperfetta. È l’umano atto del cibarsi che non accetta di essere veloce. Ha bisogno di indugi. Si nutre di “lentezze”. Ricordo da bambino quando mangiavo e lo strillo di mio padre mi sorprendeva con la forchetta in aria tutto preso a immaginare un’incredibile partita a pallone in cui io, da portiere, salvavo la mia squadra da non so quanti gol. Mio padre mi richiamava al suo tempo, all’orologio. E per contrasto il gusto che provavo nel centellinare lentamente il bicchiere di vino, attento che non consumasse la sua delizia troppo velocemente. O gli incanti, gli indugi le esitazioni, le lente scoperte dell’atto amoroso. O le gioie splendide del gironzolare senza meta, del perdersi in un sentiero o in un bosco, o della sosta dopo la lunga salita.
Persino le scoperte razionali della scienza di quanti indugi sono fatte! ll divagare per i sentieri della mente, nei labirinti della ricerca, prima di trovare – d’un tratto – il filo. Persino la storiella di Newton mi sembra esemplare: Newton che scopre la legge di gravità nel dormire stravaccato sul1’erba e la mela dall’albero che gli casca sulla fronte.
E temo la fine, il soffocamento di una dimensione vitale, e splendida. Ricordo da bambino le corse sfrenate, le sudate infinite, il piacere indicibile della corsa ma anche le enormi lentezze, le soste inspiegabili, i crolli. E il restare con il naso per aria, assorti, abbandonati a un evento interiore che ci assorbe, ci fa inamovibili; e le lunghe divagazioni interiori, le corse segnate dalla immaginazione, stravaccati su un divano. di casa, sull’erba… non è questa una insostituibile musica della vita? .
Italo Calvino, in una delle sue affascinanti Lezioni americane, riprende il motto latino festina lente, affrettati lentamente. E tuttavia questo sembra ancora un accorgimento, in funzione della velocità. In qualche modo la lentezza appare sussidiaria alla velocità. Anch’io penso a un intreccio, ma in esso a un’autonomia della “lentezza” a un suo valore in sé come dimensione dell’umano. Temo l’unilateralità dell’assolutamente veloce.
E poi in fondo non ci credo. Salvo che nella macchina. La macchina (vede la “lentezza” come un disvalore: non sopporta la sosta, la divagazione, l’indugio, il gironzolare, l’attendere con il naso per aria. Adesso abbiamo inventato, stiamo inventando la macchina della “produzione snella” che non si ferma mai, e continuamente risale, senza soste, dal consumo al prodotto. E perciò la macchina chiede che si lavori il sabato, e forse anche la domenica; in funzione e in ragione dell’andare veloce, senza soste, della macchinalità.
Certo, bontà sua, la Fiat riconosce che ci può essere anche un tempo di non lavoro, una variabile individuo per individuo, squadra per squadra, e quindi solo come riposo fisico. Cessa – o cesserebbe – così il tempo comune non solo del riposo, ma dell’incontro, degli affetti, dello svago, della preghiera. Mi ha sorpreso che a Termoli e altrove alcuni preti abbiano addirittura applaudito a questo soffocamento della dimensione affettiva e comunitaria, a questa subordinazione totale al ritmo e alla velocità della macchina.
Di fronte a queste mutilazioni sento il desiderio di alzare la bandiera della “lentezza”, della dimensione che evoca, delle scoperte che essa sola può dare, della strana , celata ricchezza che reca con sé. E persino la bandiera dell’ozio, nel senso profondo, come lo predicavano i signori. Non sono luddista. Credo però alla superiorità dell’essere umano sulla macchina, anche perché l’essere umano conosce le strade sottili, le divagazioni, gli indugi, persino le inerzie straordinarie,della lentezza, pure così ricche di scoperte; sino all’inutile che sembra assoluto disvalore, eppure quante scoperte reca con sé! Sino al silenzio della contemplazione, che sembra ferma poiché è assorta in una scoperta che nessuna velocità, nessuna corsa può dare.
Se prendiamo qualche distanza da questo mondo macchinale, allora anche alcune catalogazioni, alcune gerarchie assumono un’altra luce. Persino il luogo principe della velocità, lo sport, forse potremmo leggerlo in un’altra ottica. Proviamo a “scomporre” i tempi e i modi di una partita di calcio, per esempio: con la sua corsa continua, fino allo spasimo, e però anche le soste da cui sorgono gli scatti, gli spiazzamenti improvvisi.
O le velocità assurde delle metropoli, la corsa affannosa di tutti alle velocità più rapide, alla mobilità personalizzata (ognuno una macchina) che sfocia nella paralisi dei centri urbani: i tempi velocissimi che si trasformano in lentezza vuota, inerte. Oppure la velocità assoluta della comunicazione elettronica che s’intreccia stranamente con le grandi solitudini del nostro tempo; la sottigliezza incorporea della moneta che vola dall’uno al1’altro polo e produce questa singolare anomia per cui ci ritroviamo da un’ora all’altra – ricchi o poveri senza sapere perché.
“Non penso a un mondo separato dei lenti, o peggio ancora a una”lentezza” come riserva indiana. Penso, ripeto, a un nuovo intreccio tra velocità e lentezza. Mi spaventa un mondo a una sola dimensione e questa demonizzazione della lentezza che è, nelle cose oltre che nell’ideologia di questa fine secolo. I “lenti” sono deboli; 1’indugio è “ritardo”. Tale è l’ideologia del nostro secolo.
E allora ci vuole un’operazione che rovesci questo senso comune. Tempo fa, nei giorni della morte di Ayrton Senna, il poeta Giovanni Giudici, in uno scritto sull’Unità, affermava il bisogno di una qualche misurata “lentezza” che alzi la testa di fronte alla velocità, che stia alla pari, anzi rivendichi un intreccio. Un tempo c’era la “Lega dei giusti”; oggi potrebbe esserci una “Lega dei lenti”. La lentezza dunque non come un vuoto, un’assenza, un ritardo: ma come un pieno. Perché in fondo di questo si tratta: dei contenuti, delle ricerche, delle scoperte che reca con sé la “lentezza”.
Dei “lenti” si dice oggi, di solito, che sono dei “perditempo”, dei “vuoti”. Forse è da rivendicare la diversità dello stare con il naso per aria, che è poi la rivendicazione dell’intensità di una vita che non si può misurare a quantità visibili, e non è un percorso lineare, ma fatto di corse e d’indugi, e non è sicuro che gli indugi siano in ogni caso perdite di tempo: possono essere il cammino strano di un’illuminazione che solo così, con quel passo dubbioso e lento, può sortire dal buio.
Scusate. L’orologio che ho posto davanti a me mi avverte che è tempo di chiudere. E io posso illudermi che se non ci fosse questo gendarme esoso chissà quante cose avrei avuto da dire. In fondo – posso rispondere all’orologio – stiamo cercando. E la ricerca ha tempi strani. In fondo la ricerca è vagabondaggio. Lenti e vagabondi: che qualità dense e simpatiche in questo mondo che dà l’affanno.
ùMa per favore non facciamoci sentire dagli orologi.