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Bastano un paio di firme

Zygmunt Bauman

Bastano pochi minuti e un paio di firme per distruggere ciò che aveva richiesto migliaia di cervelli e un numero doppio di mani e molti anni per essere costruito. Questa fulmineità è, forse, il lato più attraente della distruzione, il più terrificante e infame, e nondimeno indomabile – benché in nessun’altra epoca questa tentazione sia risultata più irresistibile di quanto avvenga nelle nostre attuali vite di corsa e nel nostro mondo ossessionato dalla velocità.
Nella nostra società liquido-moderna di consumatori, l’industria dello sfratto/sostituzione/smaltimento/evacuazione è una delle poche attività commerciali a cui sia garantita una continua crescita e che risulti immune dalle bizzarrie dei mercati dei consumatori. Questa attività, dopotutto, è assolutamente indispensabile affinché i mercati siano in grado di procedere nell’unico modo in cui essi sono capaci di agire: passando da una serie all’altra di territori di caccia a mano a mano che il loro sfruttamento si è esaurito.
Questo, ovviamente, è un modo troppo dispendioso di procedere; e, in verità, l’eccesso e lo spreco sono le principali disgrazie endemiche dell’economia consumista, pregne come sono di un numero incalcolabile di danni collaterali e di ancora più cospicue vittime collaterali. (…)
La bolla ora è scoppiata, e la verità ha colpito – benché, come nella maggior parte di casi simili, dopo che il danno è stato fatto. E invece dei guadagni che, con le lusinghe, si prometteva venissero privatizzati dall’invisibile mano del mercato, le perdite ora vengono forzatamente nazionalizzate dalla tendenza di un governo a promuovere libertà di consumo e a elogiare i consumi come il più rapido e sicuro collegamento alla felicità. Sono le vittime dell’economia dell’eccesso e dello spreco che ora si ritrovano costrette a pagare i suoi costi – che credessero o meno alla sua sostenibilità e alle sue promesse e che abbiano più o meno volontariamente capitolato di fronte alle sue tentazioni. I guadagni di coloro che hanno gonfiato la bolla non mostrano alcun segno di sofferenza. Non sono le loro case che ora vengono restituite, non sono le loro indennità in utilizzate a essere tagliate, né i campi di gioco dei loro figli che ora si decide di non costruire più. Sono le persone. (….)
Fra i milioni di persone colpite, vi sono centinaia di migliaia di giovani che credono, o ai quali non è stata data altra scelta se non quella di comportarsi come se ci credessero, che lo spazio sulla cima è illimitato, che un diploma universitario è tutto quanto serve per potervi accedere, e che una volta ripagati i prestiti ricevuti lungo il percorso tutto sarà facilissimo, considerato il proprio nuovo valore che va sempre a braccetto con una posizione ragguardevole – ma che stanno invece rendendosi conto della prospettiva di dover redigere innumerevoli richieste di lavoro a cui non viene quasi mai data risposta, di accettare una disoccupazione infinitamente lunga e di doversi assoggettare a lavori incerti e traballanti, duemila leghe sotto le stanze del potere, come unica alternativa.
È vero che ogni generazione ha la sua quota di esclusi. In ogni generazione vi sono persone assegnate alla categoria degli esclusi perché il «ricambio generazionale» è destinato a produrre qualche modificazione significativa nelle condizioni di vita e nelle istanze suscettibili di costringere le nuove realtà a discostarsi dallo status quo preesistente e svalutare le abilità che venivano sviluppate e promosse. Queste modificazioni significheranno che perlomeno alcuni dei «nuovi arrivati», non abbastanza flessibili o celeri nell’adattarsi agli standard emergenti, saranno impreparati a fronteggiare i cambiamenti in atto e al tempo stesso incapaci di resistere alloro impatto. Tuttavia non avviene spesso che la condizione di «escluso» possa dilatarsi fino ad abbracciare una generazione intera. Questo è quel che potrebbe accadere adesso.
Si è assistito ad alcuni cambiamenti generazionali nella storia dell’Europa del dopoguerra. Dapprima c’è stata la generazione del boom, a cui sono seguite due generazioni definite rispettivamente X e Y; in tempi più recenti (antecedenti, comunque, allo shock del crollo dell’economia reaganiana/thatcheriana), è stato annunciato l’arrivo incombente della generazione Z. (1) Ciascuno di questi ricambi generazionali ha costituito un evento più o meno traumatico; ogni volta si è verificata un’interruzione della continuità e la necessità di riaggiustamenti talvolta dolorosi, causati dallo scontro fra aspettative ereditate/apprese e realtà inattese. E tuttavia, se guardiamo a tutto questo dal secondo decennio del Ventunesimo Secolo, non possiamo non accorgerci che, quando ci confrontiamo con i cambiamenti profondi prodotti dal recente collasso economico, ciascuno dei passaggi precedenti fra le generazioni sembra quasi un’epitome di continuità intergenerazionale…
Dopo alcuni decenni di aspettative crescenti, i nuovi laureati si confrontano con il crollo delle aspettative – un crollo esagerato e repentino perché possa permanere qualunque speranza di una ripresa. C’era una luce radiosa alla fine di ciascuna delle gallerie che i nostri predecessori potevano essere costretti ad attraversare nel corso delle loro vite; ora, invece, c’è una galleria lunga e oscura che si estende dietro ciascuna delle luci intermittenti, tremolanti e fievoli che tentano vanamente di aprire una breccia nell’oscurità.
Questa è la prima generazione del dopoguerra che ha di fronte la prospettiva di una mobilità verso il basso.(…) Non c’è stato nulla che abbia potuto prepararli all’arrivo del nuovo mondo duro, freddo e inospitale in cui i voti hanno perso il loro valore, i meriti guadagnati si sono svalutati, le porte hanno finto di schiudersi e si sono subito richiuse ed essi si sono ritrovati a vivere in un mondo di lavori volatili e disoccupazione ostinata, di fugacità di prospettive e durevolezza di sconfitte, di un nuovo mondo di progetti nati morti, di speranze frustrate e opportunità che brillano per la loro assenza.
Gli ultimi decenni sono stati gravidi dell’espansione sconfinata di qualunque forma di educazione superiore e di un inarrestabile aumento di coorti di studenti. Una laurea universitaria offriva lavori favolosi, prosperità e gloria: una quantità di ricompense costantemente crescenti che aderivano perfettamente alle schiere anch’esse costantemente crescenti di laureati. Grazie a una perfetta corrispondenza prestabilita, assicurata e pressoché automatica fra domanda e offerta, era impossibile resistere al potere seduttivo di una simile promessa. Oggi, però, le moltitudini dei sedotti si sono trasformate, in blocco e quasi dall’oggi al domani, nelle folle dei frustrati. Per la prima volta, a memoria d’uomo, la intera classe dei laureati si trova di fronte un’alta probabilità, che è quasi una certezza, di svolgere lavori ad hoc, temporanei, part-time, pseudolavori non pagati di apprendistato ingannevolmente definiti di formazione – tutti considerevolmente al di sotto delle abilità da loro acquisite e ventimila leghe al di sotto delle loro aspettative; o al prolungarsi di una disoccupazione che durerà più a lungo di quanto occorrerà alla nuova schiera di laureati per aggiungere i loro nomi alle liste d’attesa delle agenzie del lavoro già straordinariamente estese. In una società capitalista come la nostra, preparata e armata prima di tutto per la difesa e la preservazione dei privilegi esistenti e solo secondariamente (in modo infinitamente meno rispettato e praticato) al miglioramento delle condizioni di chi vive in uno stato di deprivazione, questa schiera di laureati con grandi obiettivi e piccoli mezzi non ha nessuno a cui rivolgersi per ottenere assistenza e rimedio. Chi si trova al comando, sia a destra sia a sinistra nell’arena politica, è pronto a ricorrere a tutte le sue armi per proteggere i suoi muscolosi collegi elettorali contro i nuovi venuti lenti nello scaldare i loro muscoli ridicolmente immaturi, e con ogni probabilità incapaci di usarli sul serio fino alle prossime elezioni generali. Né più né meno come noi, collettivamente, a prescindere dalle particolarità delle generazioni, che siamo fin troppo ansiosi di difendere i nostri privilegi a scapito delle necessità vitali delle generazioni non ancora nate…(…)
I tagli dei finanziamenti governativi sono accompagnati da aumenti delle tasse universitarie senza precedenti, esorbitanti, veramente feroci. Siamo soliti allarmarci e inveire contro l’esiguo aumento dei biglietti ferroviari, della carne, delle bollette, e tendiamo invece a rimanere stupefatti e sconcertati di fronte a un aumento delle tasse universitarie del 300 per cento, interdetti, disarmati, davvero ignari e incapaci di reagire… Nell’arsenale delle nostre armi di difesa, non ce n’è una sola a cui fare ricorso – proprio come è accaduto nel caso recente di quei bilioni e trilioni di dollari che sono stati pompati in un colpo solo dai governi nei cospicui forzieri delle banche dopo decenni di tirchieria e di polemiche sui pochi milioni che erano stati allocati, o avrebbero dovuto esserlo, per il finanziamento di scuole, ospedali, welfare o progetti di rinnovamento urbano. È arduo immaginare la pena e l’angoscia dei nostri nipoti allorché si accorgeranno dell’eredità di un debito dall’entità inimmaginabile che chiede a gran voce di essere ripagato; non siamo ancora pronti ad averne una visione attendibile, neanche adesso che il governo ci ha usato la cortesia di farci assaggiare le prime cucchiaiate dell’amara minestra di cui loro, i nostri nipoti, dovranno trangugiare interi pentoloni. E facciamo fatica a immaginare finora la vera portata della devastazione sociale e culturale che è destinata a scatenarsi dopo l’innalzamento di una versione monetaria dei muri di Berlino o della Palestina che sbarrerà le porte dei centri di diffusione della conoscenza. Eppure dobbiamo farlo, a nostro condiviso rischio e pericolo.
I talenti, l’acutezza, l’inventiva, lo spirito di avventura – tutti questi diamanti grezzi in attesa di essere levigati per diventare diamanti a tutti gli effetti da docenti talentuosi, acuti, inventivi e avventurosi nelle aule universitarie – sono sparsi in modo più o meno uniforme fra le specie umane, benché ci venga impedito di percepirlo dalle barriere artificiali erette da alcuni umani sul sentiero che può condurre gli esseri umani da zoon, la «nuda vita», a bios, la vita sociale. I diamanti grezzi non scelgono i filoni metalliferi in cui la natura li ha posti e si preoccupano ben poco delle divisioni inventate dagli umani; le divisioni inventate dagli umani, invece, sono attente a scegliere alcuni di essi e a inserirli in una classe eletta che verrà levigata, relegando gli altri nella categoria degli esclusi – stando ben attenti a dissimulare le tracce di questa operazione. La triplicazione delle tasse inevitabilmente decimerà le schiere dei giovani che crescono nei miseri territori della deprivazione sociale e culturale e che ciò nondimeno non sono ancora domi e osano bussare con determinazione alle porte universitarie dell’opportunità – e in tal modo depriverà il resto della nazione della condivisione dei diamanti grezzi che giovani come questi fornivano un anno dopo l’altro. E poiché il successo nella vita, e in parti colar modo la mobilità sociale verso l’alto, tende oggi a essere resa possibile, alimentata e messa in moto dall’incontro fra la conoscenza e il talento, l’acutezza, l’inventiva e lo spirito d’avventura, la triplicazione delle tasse universitarie trascinerà la società britannica indietro di almeno mezzo secolo rispetto all’avanzata verso una società non classista che l’aveva caratterizzata. Sono passati solo pochi decenni dalla scoperta della possibilità di dare un «addio alle classi» nell’istruzione e adesso scorgiamo, in un futuro non troppo distante, un’inondazione di saggi sull’argomento «Bentornate, classi – quelle bizzarrie possono essere dimenticate».
Per quanto in verità ci si debba attendere lo scenario descritto, d’altro canto, essendo noi le persone avvedute che, in qualità di accademici, abbiamo il dovere di essere e ci si aspetta che siamo, dovremmo forse preoccuparci di un pericolo ancora più fosco rispetto a quello degli effetti immediati di lasciare le università in balia dei mercati dei consumatori (che è ciò che la combinazione della revoca del sostegno da parte dello Stato e della triplicazione delle tasse universitarie comporta inevitabilmente): mi riferisco alla perdita dei posti di lavoro, alla sospensione o all’abbandono dei progetti di ricerca e probabilmente anche a un ulteriore peggioramento della proporzione studenti/insegnanti, e quindi anche delle condizioni e della qualità dell’insegnamento. E un ritorno in grande stile delle divisioni di classe perché sono sorte ragioni più che sufficienti per indurre i genitori meno abbienti a pensarci due volte prima di impegnare i propri figli a contrarre un debito maggiore, nei tre anni di studio, a quello di cui essi si sono gravati nel corso di una vita intera; e per indurre i figli di quei genitori, che vedono i loro conoscenti che hanno qualche anno più di loro fare la coda davanti alle agenzie di collocamento, a pensare due volte al senso di tutto questo: di impegnarsi in una sfacchinata di tre anni in mezzo alle privazioni per trovarsi poi con una serie di opzioni alla fin fine non molto più attraenti di quelle di cui dispongono adesso…
Beh, bastano pochi minuti e un paio di firme per distruggere ciò che aveva richiesto migliaia di cervelli e un numero doppio di mani e molti anni per essere costruito.

Zygmunt Bauman, Conversazioni sull’educazione, Erickson, Trento, 2012

1. «.. Possiamo suddividere i nostri contemporanei (ad eccezione dei più anziani) in tre generazioni successive e distinte. La prima è la generazione dei boomers: i nati tra il 1946 e il1964, durante il baby boom del dopoguerra, quando i soldati tornarono dal fronte e dai campi di prigionia e decisero che era ora di pianificare il futuro, sposarsi e mettere al mondo dei figli. […] La “generazione X”, composta da coloro che hanno tra i 45 e i 28 anni di età, ha adottato, sia pure con riluttanza, la filosofia e la strategia di vita dei genitori e, man mano che il mondo circostante si arricchiva e le prospettive di vita si facevano più sicure, è diventata impaziente di riscuotere e godere i premi della loro moderazione e abnegazione; per questo è stata definita sarcasticamente da qualcuno la “generazione io”… Poi è arrivata la “generazione Y” , composta da coloro che hanno tra 28 e 11 anni. […] questa generazione è diversa da quella dei suoi genitori e nonni. […] il “lavoro” tende a figurare quasi in fondo all’elenco delle voci indispensabili alla vita compilato […] dai membri della “generazione Y”. […]”Lavoro? Purtroppo è inevitabile [come l’aria, appunto] per mantenersi in vita. Ma non rende la vita degna di essere vissuta; semmai è il contrario: a volte la rende monotona e poco stimolante. Non è altro che una cosa da fare e una seccatura: non succede nulla d’interessante, nulla che colpisca la fantasia o stimoli i sensi”». (Bauman, Vite che non possiamo permetterci. Conversazioni con Citlali Rovirosa-Madrazo, Roma-Bari, Laterza, 2011, pp. 188-189).

 

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