
Cassandra
Cassandra
Ancora una volta siamo, in questi giorni in cui scrivo, di fronte ad un mare che restituisce, e forse solo in parte, chi lo ha sfidato per arrivare sulle nostre coste. E purtroppo ancora una volta tanti, troppi sono i bambini e le bambine che hanno avuto il mare come loro ultimo letto.
Ancora una volta, e probabilmente non sarà l’ultima, siamo in ritardo denunciando il nostro orrore, la nostra compassione, il nostro rincrescimento per ciò che è avvenuto, per quel barcone che ancora una volta si è spaccato a pochi metri da una riva lasciando al caso, alla fortuna, a che cosa? la possibilità di concludere salvi un viaggio durato troppo tempo.
E ancora una volta prendiamo per un attimo, molte volte solo drammaticamente per un attimo, coscienza della tragicità di sbarchi che racchiudono dolore, paura, fatica, disperazione, e anche certamente speranza di potercela fare. Credo ci sia una condizione, uno stato di fatto che ci dovrebbe definitivamente convincere che non ci troviamo di fronte ad un viaggio di piacere: se una mamma mette in pericolo coscientemente – perché lo sa che quel viaggio è un rischio, non è fatto su una motonave da crociera – la vita dei propri figli, se persino la morte è una scommessa da giocare, allora vuol dire che non c’è nessun possibile dubbio sulla necessità di quel viaggio. Non ci possono essere opache interpretazioni, tentennamenti, perplessità, reticenze nel voler vedere altro da ciò cui siamo tragicamente di fronte: la disperazione più assoluta.
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“L’empatia è la capacità di comprendere o sentire ciò che un’altra persona sta vivendo, cioè la capacità di “mettersi nei panni di un altro”. Secondo l’American Psychological Association, l’empatia consiste nel comprendere una persona adottando il suo punto di vista invece che il proprio oppure fare esperienza indiretta e spesso involontaria degli stati mentali di una persona”: così la definisce Wikipedia. Dobbiamo superare la commozione, il dolore, lo spaesamento, perché sono sentimenti che vengono “dopo”, dopo qualcosa che è successo. Dobbiamo iniziare a rivendicare il sentire empatico come strumento di lettura di ciò che sta succedendo, dobbiamo iniziare a sentirci dentro le guerre, le dittature, le carestie, le violenze e il lavoro che se c’è ti uccide per capire perché ci si mette in marcia e si cerca di arrivare in Europa. Non tanto e non solo in Italia, ma in Europa. Allora, dobbiamo saper dire a chi, in questi giorni in cui scrivo, ha colpevolizzando chi parte, perché dovrebbe stare “a casa” per fare qualcosa per il suo paese, che quel paese non esiste, perché non può esistere una comunità che rinnega, tra tante cose, il diritto dei bambini e delle bambine a vivere. Non dico a vivere bene, dico almeno a vivere. Dobbiamo iniziare a ragionare come molta parte del pensiero educativo ci ha insegnato in questi anni: che è ora di pensare a soglie e non più a confini, che è ora di pensare a passaggi tra luoghi certo diseguali, ma non nemici e opposti, dove la diversità è un valore di crescita e non di negativa alterità.
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E dobbiamo smetterla con una informazione a volte troppo parziale e poco riflessiva, spesso orientata a coltivare un sentimento di separata sicurezza, alimentando una percezione della realtà che è ben distante dalla realtà stessa. Ce lo dicono ogni tanto, ma solo ogni tanto e poi subito ce lo dimentichiamo, che molti di coloro che ce la fanno ad arrivare non si fermano in Italia, che è solo un territorio di passaggio. Che si sbarca anche in Spagna e in Grecia. Che pensiamo a una presenza di stranieri molto più alta di quella effettiva, che pensiamo a un mercato del lavoro ridotto a causa della manodopera immigrata, anche qui con poca empatia nei confronti di chi sulla terra arsa dal sole lavora ore e ore per una paga con cui ri-pagare chi ti fa dormire e magari mangiare qualcosa.
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Ce lo dobbiamo dire che la maggioranza dei bambini e delle bambine nate già in Italia e che frequentano il nostro sistema educativo e scolastico è ancora considerata straniera. In un paese che avrebbe bisogno di tante bambine e bambini per disegnare il proprio futuro.
Abbiamo bisogno di un sistema educativo e formativo capace di accogliere tutte e tutti nella diversità e nell’essere insieme una comunità, in grado di garantire a tutte e tutti percorsi di opportunità e di apprendimento rispettosi della pluralità con cui interagiamo da sempre, perché da sempre, e non solo da quanto sono incominciati gli “sbarchi”, siamo immersi in un sistema plurale.
Sarebbe dunque opportuno e necessario anche parlare di ciò che sta succedendo nella scuola: che dovremmo iniziare a pensare come un sistema formativo unitario immerso in una comunità educante, in uno spazio e tempo che travalica le rigide compartimentazioni a cui siamo abituati. In un sistema in cui anche lo 0 6 parla e guarda alla “scuola dei grandi” e questa impara anche dal sistema educativo dei più piccoli, ma solo di età. E così anche chi si occupa di pedagogia infantile o lavora nei servizi educativi dovrebbe iniziare a guardare con sospetto o almeno con non malcelata apprensione un ministro (scusate, mi viene proprio da scriverlo con la minuscola) che accusa di esprimere affermazioni improprie e ridicole chi invita ad “avere fiducia nel futuro e aprirci al mondo, condannando sempre la violenza e la prepotenza, in contrapposizione ai cantori del valore delle frontiere e del sangue degli avi e di chi continua ad alzare muri”.
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Sarebbe forse utile fare leggere quanto questo ministro pensa della nostra scuola a chi sta cercando di imbarcarsi, per fare capire dove si sta arrivando. Ma dato che non saranno queste parole ad avere sopravvento sullo stato di dolore, di bisogno e di paura, spero di potere la prossima volta scrivere della nostra “scuola” e non come oggi fermarmi a guardare il mare, sperando che non sia più un sogno infranto.