di Silvia Cavalloro
Come sono cambiati i tempi dei bambini? Come è caratterizzata la loro vita rispetto alla possibilità di autorganizzazione, di autonomia?
Nella società contemporanea il tempo dei bambini è super strutturato, con pochissimi spazi sospesi: questa è una novità nella storia recente dell’infanzia. Innanzi tutto la scuola materna non era così presente e diffusa come oggi, mentre la scuola elementare terminava prima del pranzo. Fino a qualche decennio fa il tempo non strutturato era proprio una caratteristica dell’infanzia. I bambini non erano inseriti in programmi fitti di strette scadenze e passaggi che accompagnano ora, dall’inizio alla fine, il susseguirsi delle giornate, lasciando pochissimi spazi nei quali non è l’adulto che determina ciò che si fa e quando lo si fa.
E cosa comporta questo, oltre al fatto di avere meno libertà?
I bambini non imparano a gestire il loro tempo e diventano sempre più dipendenti da un adulto che deve costantemente essere presente e che struttura il tempo: un insegnante, un animatore, un allenatore.
Non si devono mai confrontare con lunghi pomeriggi, con momenti morti o un po’ di noia, condizione che favorisce lo scaturire di qualche idea nei bambini, che dopo un breve spazio sospeso inventano qualcosa da fare. Il confronto con il tempo vuoto praticamente non esiste più come occasione per superare quei momenti in cui non si sa cosa fare che poi aprono a progetti nuovi, al saper giocare anche con “niente”.
Ma questo ha a che fare anche con la paura che gli adulti hanno di un tempo rallentato e meno denso di impegni?
Gli adulti hanno il terrore dei momenti non organizzati, di noia. Se i bambini dicono “mi annoio, non so cosa fare” scatta l’ansia nei genitori, come se avessero il frigorifero vuoto. Si sentono sollecitati immediatamente a dover provvedere per riempire il tempo dei loro figli. C’è la preoccupazione della produttività, la paura del perdersi. Si pensa che più cose si fanno fare a un bambino meglio è. È l’effetto di uno stile di vita degli stessi adulti che corrono da un impegno a un altro, da un prodotto a un altro. È un problema molto complesso perché ha a che fare anche col come le persone abitano il tempo e lo spazio, ha a che fare con l’urbanizzazione, che vede i bambini costretti a stare in appartamenti piccoli, in spazi piccoli dove devono stare fermi, non disturbare, non fare rumore e quindi vanno “tenuti buoni”.
Bisognerebbe fare un cambio profondo di cultura, per esempio riguadagnare la dimensione dell’uscire, del vivere all’aperto.
Nel suo libro Slow School. Pedagogia del quotidiano, propone di riconsiderare le priorità che orientano la proposta educativa a scuola. Come farne un contesto capace di coltivare il piacere del pensiero, del parlare e ragionare insieme?
“Slow school” vuole proporre un approccio in controtendenza a una ”fast school”, tesa verso prodotti e rendimenti che si vogliono quantificabili e codificabili. La scuola subisce infatti pressioni per produrre tante attività “visibili”. Ma la crescita culturale dei bambini è un processo molto complesso e profondo. L’attenzione deve essere riportata al vivere quotidiano a scuola, con tutta la sua complessità e imprevedibilità, alle tante “non-attività”, alle piccole routine, che ritmano il tempo a scuola.
La scuola permette di incontrarsi, di convivere e di condividere una vita quotidiana organizzata. Questo aspetto andrebbe reso più esplicito e valorizzato recuperando maggiore silenzio per ascoltare gli altri, le cose, noi stessi e la calma, che a lungo termine è più produttiva. Ciò significa esplicitare gli apprendimenti nascosti in tutte le situazioni della giornata.
Quali consigli darebbe agli insegnanti che si mettono in discussione rispetto all’organizzazione delle routine? Quali passi fare? Come muoversi?
La prima cosa è diventare consapevoli del valore di quello che non sembra un’attività, ma in realtà è molto molto produttivo, come i giochi che non lasciano prodotti. L’altro aspetto importante è procedere con gradualità verso questo spazio maggiore di autogestione da concedere ai bambini.
Saper gestire il proprio tempo in modo costruttivo e saper organizzare un gioco o un’attività da soli comportano una serie di apprendimenti che richiedono tempo. È necessario allungare gradualmente gli spazi in cui l’insegnante è meno direttamente presente nella conduzione delle attività. Non abbandona il campo, ma è più dietro le quinte e cura la regia educativa, offendo i materiali giusti nei momenti giusti per far emergere la progettualità dei bambini. È importante anche osservare le relazioni tra bambini, il loro modo di stare e aiutarli a imparare gradualmente ad assumersi la responsabilità per se stessi. E l’attenzione ai compagni.
Un altro suggerimento importante è osservare con attenzione ciò che accade nei differenti momenti di routine che si susseguono nella giornata, verificando quali criticità si presentano e come noi adulti possiamo intervenire per incidere su questo. I bambini colgono se c’è poco investimento nella proposta e comprendono benissimo ciò a cui l’insegnante dà valore e ciò che invece è vissuto dall’istituzione come vuoto di senso profondo, ciò che è semplice adempimento o transizione verso altro.
Quali indicatori possono aiutare lo sguardo degli insegnanti? Cosa segnala loro che possono “osare”?
Succede frequentemente che i bambini, abituati a stare chiusi nelle loro camere o a essere messi davanti a un video, quando poi si trovano a gestire uno spazio di autorganizzazione, girino a vuoto da un gioco all’altro o disturbino il gioco degli altri. Un buon segnale è quando questi comportamenti diminuiscono e il bambino dimostra di soffermarsi su qualcosa, di saper mantenere l’attenzione e il coinvolgimento. Un altro indicatore fondamentale è il fatto che i bambini cominciano a ideare e a gestire piccole sequenze di gioco o di attività insieme agli altri, condividendo idee e materiali. Inoltre è importante coltivare l’abitudine a pensare di più e sempre meglio, perché la mancanza di riflessione è un altro tratto caratteristico dell’essere di corsa e del riempire sempre tutti i tempi. Anche questo è uno stile di vita che dovrebbe modificarsi almeno in parte, permettendoci, quando si può, di mettere in azione pochi elementi valorizzando lo spazio che c’è tra un elemento e l’altro.
Quale stile di conduzione dell’insegnante potrebbe facilitare questo?
L’insegnamento è ancora troppo spesso unidirezionale. Non è previsto uno scambio attivo nel quale impara anche l’insegnante. Tra gli alunni stessi non è prevista interazione, se non durante la sospensione dell’attività strutturata, oppure “sottobanco”. Che gli alunni siano venti o duecento, la metodologia rimane quella della lezione. È un modello scolastico secolare, una sorta di imprinting che resiste ai ripensamenti. Penso invece che sia importante che l’insegnante stia accanto ai bambini, parlando con loro, ascoltando, cercando di capire i loro ragionamenti, suggerendo, provocando pensiero.
Bisognerebbe saper cogliere gli spunti dal vivo che i bambini ci offrono per sostenerli nell’elaborazione della propria idea, nella consapevolezza da parte dell’adulto che, mentre giocano con i materiali, giocano anche con i concetti. E in queste occasioni di scambio tra bambini i saperi girano in modo contagioso. Si tratta da parte dell’adulto di saper ascoltare, di aspettare, di commentare in modo aperto, di trattenere i propri saperi per non limitare i ragionamenti dei bambini.
Penny Ritscher è nata a New York nel 1941.
Si è laureata in filosofia e si è specializzata in educazione musicale e motoria presso l’istituto Orff a Salisburgo. Dal 1972 vive in Italia dove lavora in campo educativo. È docente del C.E.M.E.A., movimento di educazione attiva. Ha pubblicato Coccole musicali (il Campiello, 1994 e 2002); Cosa faremo da piccoli? Verso un’intercultura tra adulti e bambini (Junior, 2000); Il giardino dei segreti. Organizzare e vivere gli spazi esterni nei servizi per l’infanzia (Junior, 2002); Vivere a scuola. Programmare per situazioni (con G. Staccioli, Carocci, 2005). Scrive regolarmente per la rivista Scuola dell’Infanzia.
“Il tempo vuoto dei bambini è stato riempito, ma un tempo riempito non è sinonimo di un tempo
vissuto pienamente, anzi. Più il tempo viene imbottito di appuntamenti e più si rischia di viverlo
in modo superficiale, di corsa, senza godere le cose in profondità. Senza soffermarvisi, senza ricordare,
aspettare, rielaborare, respirare, per poi poter ripar tire con freschezza verso l’impegno
successivo. Un tempo riempito rischia di lasciarci a mani vuote”.
Tratto da Ritscher, P. (2011). Slow school. Pedagogia del quotidiano. Firenze: Giunti,